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“Aids, l’Italia scopre la ‘tana’ del virus”, Il Resto del Carlino 03.03.15

Uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo di un farmaco che curasse il virus dell’Hiv, anticamera dell’Aids, era, fino ad oggi, il fatto che quando il virus penetra nella cellula da infettare scompare: se ne perdono le tracce. L’efficacia dei farmaci in commercio si ferma all’ingresso della cellula, con il risultato di rallentare l’evoluzione del virus ma non di debellarlo. Ora i ricercatori dell’Icgeb (International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology) di Trieste, coordinato dal genetista Mauro Giacca, hanno scoperto la tana’ del virus. DAI PRIMI anni 80, quasi 80 milioni di persone sono state infettate ma nemmeno una è guarita debellando il virus: nessuno era mai riuscito a spiegare dove finisse. Ora si è scoperto che il virus integra il proprio Dna vicino al guscio esterno che delimita il nucleo, in corrispondenza alle strutture del polo nucleare. La ricerca ha un rilievo enorme perché spiana la strada allo sviluppo di farmaci che potranno essere più efficaci, con un bersaglio più preciso da colpire. La scoperta è stata pubblicata sul sito di Nature ed è il frutto del lavoro dell’Icgeb, in collaborazione con Dipartimento Medicina dell’Università di Trieste, Università di Modena e Genethon di Parigi.

Assegni ricerca, Ghizzoni “Proroga necessaria ma non risolutiva” – comunicato stampa 03.03.15

 

Con la norma sostenuta dalla parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni e inserita nel decreto Milleproroghe, passa da quattro a sei anni il periodo in cui si può essere titolari di un assegno di ricerca. L’obiettivo è impedire l’espulsione di tanti giovani di talento dall’ambito della ricerca e arginarne la scelta quasi obbligatoria di recarsi all’estero per vedere valorizzate le proprie competenze. Il provvedimento, da solo, non basta. Ecco allora cosa c’è ancora da fare nella dichiarazione di Manuela Ghizzoni:

 

“A oltre quattro anni dall’approvazione della legge Gelmini, senza che nel frattempo si siano realizzati i tanti impegni promessi da quella riforma, molti assegnisti rischiavano nel 2015 di essere definitivamente espulsi dal mondo della ricerca pubblica. L’estensione della durata massima dell’assegno da quattro a sei anni, che siamo riusciti ad inserire nel dl Milleproroghe, era quindi necessaria per dare continuità all’attività dei ricercatori coinvolti. Ma non può definirsi un provvedimento risolutivo. Occorre ora lavorare ad una serie di misure organiche per riordinare la situazione del pre-ruolo universitario. Fondamentale sarà la definizione di un’unica figura contrattuale per chi fa ricerca nell’università senza far parte del personale docente di ruolo, una figura che abbia diritto a quanto previsto dalla Carta Europea dei Ricercatori: adeguati livelli di retribuzione; coperture previdenziali, sanitarie e sociali; autonomia progettuale e  rappresentanza nei dipartimenti. Inoltre, non si può pensare ad interventi organici se prima non si affronta un piano straordinario di assunzioni nelle università e negli enti di ricerca, superando il blocco del turn over. Solo ridando una congrua dimensione ad ogni stadio di carriera e una costante fluidità ai suoi meccanismi interni si può sperare di ridare all’università italiana quella stabilità di regole e di finanziamenti che è la garanzia primaria per poter condurre efficacemente un’attività di insegnamento e ricerca ad alto livello.”

“Proroga sugli assegni di ricerca: una misura necessaria, ma non risolutiva”, di Manuela Ghizzoni – Scuola 24 – 03.03.15

 

Il decreto “milleproroghe”, convertito in legge la settimana scorsa, contiene una novità importante per il mondo della ricerca: passa infatti da quattro anni, in totale, a sei il periodo nel quale si può essere titolari di assegni di ricerca presso le università e gli enti pubblici di ricerca. Sono stata promotrice di questa proposta dopo molte riflessioni, ben cosciente di quanto la materia sia spinosa. Da un lato, infatti, la proroga potrebbe essere interpretata come un mero incentivo al prolungarsi di un precariato già di per sé lunghissimo. Da un altro lato, però, c’è da considerare che sono già passati quattro anni dall’approvazione della legge 240 (Gelmini), quindi, tantissimi assegnisti nel corso del 2015 sarebbero stati definitivamente espulsi dal mondo della ricerca pubblica, senza aver avuto alcuna possibilità di essere messi alla prova per il passaggio a posizioni di ruolo, o almeno a posizioni più tutelate – ancorché a termine – come quelle di ricercatore universitario a tempo determinato. Per molti di loro sarebbe rimasta un’unica alternativa realmente possibile per continuare a far ricerca, quella amara di emigrare all’estero come decine di migliaia di altri hanno dovuto fare negli ultimi anni. Peraltro questa situazione degli assegnisti si ripeterà tra poco con altri precari sui quali sta per abbattersi la tagliola del limite massimo di dodici anni di precariato stabilito dalla legge Gelmini.

Gli impegni mancati della Legge Gelmini
Peraltro, molti impegni dalla legge Gelmini, presi sulla base di premesse evidentemente sbagliate come a suo tempo sostenemmo inascoltati, non sono stati mantenuti.
Le tornate di abilitazione per concorrere alle posizioni di professore sarebbero dovute essere quattro e invece se ne sono svolte faticosamente solo due. Il piano straordinario di assunzioni di professori associati continua a languire. I posti di ricercatore a tempo determinato, inventati dalla legge, si sono rivelati più rari dell’araba fenice, soprattutto quelli definiti pomposamente “in tenure-track”, che dovevano rappresentare il gradino di ingresso nella carriera docente e che si sono ridotti a poche centinaia in tutta Italia, a fronte di decine di migliaia di assegnisti di ricerca, per non contare le altre figure in attesa ancora più precaria. Le scelte di finanza pubblica hanno fatto il resto. Penso, in particolare, al blocco parziale del turn-over introdotto nel 2008 – poi lievemente allentato nel 2013, ma che durerà almeno altri tre anni – che ha progressivamente ridotto al lumicino le possibilità di reclutamento da parte delle università, falcidiando parecchie migliaia di posti di docente. Ma penso anche ai “punti organico”, trionfo di automatismi tecnici di asfissiante centralismo, che hanno reso più difficile ogni programmazione degli organici, rendendo ancora più incerte e casuali le prospettive di chi volesse dedicarsi alla carriera universitaria.
In una tale drammatica situazione ci è sembrato quindi preferibile offrire qualche spazio vitale agli assegnisti giunti a fine periodo piuttosto che abbandonarli al loro destino, gettando al vento anche le loro competenze e capacità di ricerca maturate sul campo.

In futuro figura unica pre-ruolo e piano straordinario assunzionale
Siamo comunque consapevoli che la norma del “Milleproroghe” seppur necessaria non sia risolutiva. Ecco perché sarebbe invece urgente mettere a punto un provvedimento organico per riordinare l’intricatissima situazione del pre-ruolo universitario sulla base di due principi. Il primo, che già proponemmo nel 2009, è la definizione di un’unica figura contrattuale di chi svolge ricerca nelle università senza far parte del personale docente di ruolo o in tenure-track, quale che sia l’ente finanziatore. Una figura contrattuale che, oltre a godere di tutte le ordinarie coperture previdenziali, sanitarie e sociali di un lavoratore a tempo determinato e di retribuzioni crescenti con l’anzianità, goda anche dei diritti basilari del mondo della ricerca, quali ad esempio gli spazi di autonomia spettanti a veri professionisti della ricerca e quindi la possibilità di giocare in prima persona, sulla base delle proprie capacità, nel proporre progetti di ricerca e nell’assegnazione di fondi competitivi. Ovvero anche il riconoscimento della loro presenza nei dipartimenti universitari e nei loro organi di governo. Insomma, una piena consonanza con la Carta Europea dei Ricercatori.
Il secondo principio è che nessun intervento che aspiri a essere organico e definitivo può prescindere da un piano straordinario di assunzioni nelle università e negli enti di ricerca, a tutti i livelli. Solo ridando una congrua dimensione ad ogni stadio di carriera e una costante fluidità ai suoi meccanismi interni si può sperare di ridare all’università italiana quella stabilità di regole e di finanziamenti che è la garanzia primaria per poter condurre degnamente ed efficacemente un’attività di insegnamento e ricerca ad alto livello.

“Saper comunicare i saperi”, di Angelo Varni – Il Sole 24 Ore – 01.03.15

È fondamentale, accanto all’insegnamento della retorica, dedicarsi alla corretta diffusione di un linguaggio scientifico, superando la falsa dicotomia con le «humanities»
Saper costruire un discorso persuasivo. Ordinare le proprie ragioni secondo una logica argomentativa in grado di suscitare l’adesione sentimentale e intellettuale dell’interlocutore. Riappropriarsi dei meccanismi del linguaggio capendone le connessioni, tanto più in presenza delle nuove strumentazioni tecniche amplificatrici all’infinito delle antiche forme espressive e gestuali. Appare oggi, cioè, più che mai indispensabile far proprie le modalità dell’antica retorica, come fu tanti secoli fa codificata da Aristotele, Cicerone, Quintiliano, perché solo conoscendone i meccanismi ci si può dotare degli antidoti in grado di farci guardare con consapevolezza critica alle tante insinuanti operazioni di manipolazione delle coscienze.
Bene, dunque, ha fatto il «Domenicale» ad aprire un dibattito sul tema, auspicando una sua diffusione scolastica, in grado di insegnare ai giovani la virtù del dialogo. Quella insostituibile relazione, cioè, dove l’uso meditato della parola faccia da ponte al rapporto con l’altro e consenta, in tal modo, uno scambio di considerazioni, insieme a un intreccio di valutazioni reciproche, in grado di rompere le barriere delle attuali finte socializzazioni, affidate a strumenti che favoriscono solo la moltiplicazione delle solitudini.
In particolare, nell’attuale realtà dominata da una sorta di “invasione” tecnologica, diventa quantomai indispensabile dedicarsi alla corretta diffusione di un linguaggio scientifico, che sgombri il campo dal considerare il discorso relativo ai temi della scienza immobile nella sua fissità, indiscutibile nelle sue acquisizioni valide una volta per tutte. Con un comportamento in tal modo opposto all’operare stesso degli scienziati, i quali maturano i loro risultati lungo un complesso itinerario storico e comunicativo non dissimile dai processi dialettici di tutte le altre discipline.
Il rischio di un tale comportamento, favorito da questa mancanza di comprensione del linguaggio scientifico, è – come accade – di accedere alle informazioni della scienza facendole proprie quali oracoli magici cui soggiacere in termini fideistici e di schieramento irrazionale. Basta pensare a quanto accade in materia di clima, di Ogm, di elettrosmog, di impiego delle staminali e così via.
Ma l’esigenza odierna di sensibilizzarsi a un percorso formativo attento a un corretto discorso scientifico, non è solo legato all’accresciuta dimensione quantitativa della presenza della “scienza” nella nostra quotidianità. Riguarda bensì l’avvenuto superamento – nella pratica dell’attività produttiva oltre che nella teoria – dell’antica dicotomia tra scienze “dure” e humanities ( di solito corredata dall’auspicio, sempre disatteso nei fatti nel nostro Paese, da un loro integrarsi) , in quanto i contenuti del saper fare in senso manuale e finanche artigianale nei nuovi terreni in corso di esplorazione dell’informatica, sono forniti da ambiti di linguaggio e di conoscenze critiche appartenenti appunto a settori conoscitivi diversi ed apparentemente lontani, che solo attraverso un fecondo confronto dialogico possono davvero interagire ( vi fa lucido accenno Patrizio Bianchi nel suo intervento sul Domenicale dell’8 febbraio scorso).
Ritengo, dunque, indispensabile, di fronte ad una simile esigenza, applicarsi con urgenza e fantasia concretamente creativa ad individuare traiettorie formative dei corsi universitari, dove si sfondi davvero una frontiera di incomunicabilità, dominata da pigra inconsapevolezza del reale, che ritiene sufficiente impartire agli allievi qualche nozione dell’uno e dell’altro mondo di conoscenze, per avviare invece un effettivo intreccio di competenze. Come si potrà altrimenti sperare che la fruizione dei nostri beni culturali possa davvero adeguarsi alle esigenze dell’oggi? Come pensare che la straordinaria capacità inventiva della nostra meccanica di precisione possa davvero reggere le sfide del futuro solo affidandosi all’indiscussa abilità dell’antica tradizione artigianale? E questo per parlare solo dei settori di più evidente importanza per il nostro Paese.
È certo un percorso impervio e da costruire con paziente applicazione, ma per il quale non si può prescindere dall’uso di un linguaggio criticamente avvertito, estraneo alle improvvisazioni, ai luoghi comuni, alle facili scorciatoie di affermazioni più rivolte a condizionare che a formare consapevolezze.

“L’anticorruzione dei cervelli”, di Carlo Rizzuto – Il Sole 24 Ore – 01.03.15 

Tra corruzione, ricerca e “fuga dei cervelli” esiste un rapporto ben preciso, dimostrato dai numeri, come mostrano le indagini svolte da organismi come lo European Research Centre for Anti-corruption and State-building e l’Eurobarometer: l’innovazione scientifica e tecnologica in un Paese è inversamente proporzionale al suo tasso di corruzione. È così che l’Italia si trova in coda – e addirittura in preoccupante regresso negli ultimi anni – sia nel controllo della corruzione che nell’innovazione.
Corruzione, nel senso più generale, è anche la presenza e il successo di personaggi come Vannoni, e il caso Stamina di cui in questi giorni si celebra la fine, nei Tribunali e in Parlamento. Ma, purtroppo, questo non è l’unico caso di ciarlatani che ottengono udienza a livello politico e danneggiano pesantemente la ricerca. Nel caso Stamina forse i danni sono stati adesso limitati al passato. Ma il caso dello scioglimento dell’Istituto Nazionale di Fisica della Materia è uno in cui i ciarlatani di turno se la sono cavata… . E continuano.
Se n’è parlato anche all’ultima Falling Walls conference, il convegno sulle “cadute dei muri” nella cultura e nella scienza con cui ogni anno Berlino celebra la caduta del 1989. Una serie di conferenze che per me è stata, negli ultimi anni, un’occasione per incontrare i molti ricercatori italiani che hanno dovuto andare in Germania e in altri Paesi europei, in particolare dopo lo scioglimento dell’Istituto di cui sopra.
Nell’ultimo si sono discussi alcuni dati molto interessanti che mettono in collegamento la posizione dei Paesi nella classifica internazionale della corruzione e il brain drain. In questa l’Italia risulta essere la prima in Europa. Inutile dire che la discussione che ne è seguita è stata particolarmente imbarazzante, anche perché recenti iniziative del Miur e una Regione hanno dimostrato una continuità di questa politica nel nostro Paese.
La spiegazione non è da ricercarsi in un problema ideologico: in generale, i Paesi che non finanziano la ricerca scientifica non lo fanno per (miope) scelta politica, ma semplicemente – ci spiegano i rapporti europei – perché è più difficile dirottare soldi per la corruzione dai capitali investiti in ricerca piuttosto che da capitali stanziati per altri tipi di appalto o lavoro pubblico. L’esperienza ci insegna però che anche questo ostacolo si può eliminare facilmente, occupando con persone raccomandate e incompetenti posizioni di controllo in enti di ricerca.
Per comprendere le tendenze generali, è interessante guardare anche al piano dei comportamenti individuali: a livello statistico si sa infatti che una singola persona è meno incline ad accettare fenomeni di corruzione quanto più istruita e dotata di abilità (skills), o, in altre parole, quanto più si aspetta di raggiungere un risultato grazie alle sue forze e ai suoi meriti. Non stupirà dunque che tra corruzione e brain drain sia registrata la connessione a cui accennavo sopra, e che la performance dell’Italia si ritrovi, anche qui, tra le peggiori in Europa.
Con il brain drain si innesca un circolo vizioso difficile da spezzare: i “cervelli” che, trovandosi al di fuori delle logiche della corruzione, sono costretti a spostarsi all’estero per veder riconosciuti i loro meriti, sono anche i “cervelli” che potrebbero promuovere un cambiamento. Per ogni “cervello” che lascia l’Italia, per la Svezia, la Finlandia o il Lussemburgo (esempi di Paesi in fondo alle classifiche sulla corruzione e in cima a quelle sull’innovazione), si allontana sempre di più la possibilità di fare massa critica contro la corruzione e cambiare il sistema in Italia.
Un’inversione di tendenza è molto complessa da ottenere. Non basta mettere a punto i giusti regolamenti e investimenti di risorse, se l’applicazione dei primi e la gestione dei secondi è poi affidata a dirigenti scelti secondo logiche di lottizzazione politica anziché in base alla competenza. Non bisogna, insomma, fare l’errore di vedere corruzione solo là dove avviene uno scambio illecito di denaro: non si riuscirà a rompere il circolo vizioso se non si cominciano a mettere le persone giuste al posto giusto.

“È soltanto il vestito che cambia”, di Attilio Bolzoni – La Repubblica 01.03.15

 Quello che veramente conta per loro è la “tradizione”. Intesa come modo di vivere, come fedeltà a certi valori. Uno dei più famosi capi delle mafie italiane di tutti i tempi, Giuseppe Bonanno soprannominato Joe Bananas, nato a Castellammare del Golfo (Sicilia) il 18 gennaio 1905 e morto a Tucson (Arizona) il 12 maggio del 2002, ci ha lasciato un epitaffio: «Sono nato in un mondo che aveva una sua tradizione, tra gente a cui l’esperienza aveva insegnato a coltivare alcuni principi. Questa tradizione era il fiore della nostra cultura, ci indicava le cose giuste e le cose sbagliate». Tradizione nell’intimità e nel mistero, di padre in figlio per secoli.
La forza delle mafie — se ne parla come di un’emergenza nazionale da almeno un secolo e mezzo, cioè da quando è nato lo Stato italiano — è nella loro capacità di adeguarsi alle trasformazioni della nostra società, di essere sempre se stesse ma sempre modificandosi alla bisogna. Continuità e cambiamento. Mutare senza snaturarsi: mantenere la tradizione. Non deve allora sorprendere il bacio in bocca fra due giovani uomini d’onore della borgata di Altarello di Baida che poi si travestono in uomini d’affari trattando con banchieri o monsignori, non può meravigliare la miserabile esistenza su una fiumarad’Aspromonte del capo-bastone che poi si rivela socio di un commercialista di Sidney o di un broker di Rotterdam. È questa l’essenza più profonda della mafia, sia ‘Ndrangheta sia Cosa Nostra. Da quando era rurale per poi diventare urbana, dai campieri ai cantieri, passando per droga e finanza, appalti e grandi opere.
All’apparenza sembra un’altra cosa ma è sempre uguale. Solo con un vestito diverso.
Anche l’ideologia che professa all’esterno si adatta alle evoluzioni politiche e sociali. Fino a una quarantina di anni fa, in Italia la mafia era considerata quasi uno “stato d’animo” di siciliani e calabresi e sull’isola semplicemente “non esisteva”. N’è passato di tempo. Dalla “mafia non esiste”, oggi tutti fanno a gara a dire che “la mafia fa schifo”. È uno slogan furbo e lungimirante, dettato dalla necessità di sopravvivere. «La mafia fa schifo», grida Totò Cuffaro da governatore della Sicilia poco prima di finire in carcere per avere favorito la mafia. «La mafia fa schifo», urla in aula Francolino Spadaro, boss della Kalsa mentre il giudice lo condanna per mafia. La mafia fa schifo è una battuta che piace a tutti. Anche ai mafiosi. Sì, proprio quelli che continuano a pungersi con antica cerimonia il polpastrello dell’indice della mano destra (quella che spara) o a baciarsi in bocca ma senza lingua . E a quegli altri più profumati, pettinati e politicamente corretti che sono i loro complici.
La mafia, ve l’abbiamo appena detto, ha bisogno di conformarsi pienamente a ogni epoca, sentirsi dentro a ogni momento della storia. Come lo fa in questi anni? Nascondendosi dietro gli slogan dei propri nemici. È una mafia che ha scoperto il valore dell’antimafia. L’antimafia è oramai un capitale anche per lui, il mafioso che rispetta la tradizione ma che deve stare al passo con il mondo che ha intorno. Così è nato il mafioso antimafioso.

“Chi devasta un’idolatria ne produce un’altra”, di Salvatore Settis – La Repubblica 28.02.15

È l’anno 2061, sulla piazza c’è una lunga coda. Avanza, disciplinata. A due, a tre per volta si fermano davanti alla Gioconda appoggiata al muro, sputano sul quadro e se ne vanno. «Perché lo facciamo?», chiede Tom, un ragazzo. Gli risponde Grigsby: «Ha a che fare con l’odio. Odio per qualsiasi cosa che appartenga al passato. Come siamo arrivati a queste città in rovina, strade a pezzi per le bombe, campi di grano radioattivi, le case distrutte, gli uomini nelle caverne? Dobbiamo odiare il mondo che ci ha portato fin qui. Non ci resta più nulla, se non fare festa distruggendo».
Così un racconto ambientato in un’America post-apocalittica, scritto nel 1952 da Ray Bradbury, lo stesso che poco dopo avrebbe pubblicato Fahrenheit 4-51 , dove leggere un libro è reato. Ma la storia non conferma queste fantasie. L’iconoclastia bizantina del sec. VIII-IX, quella protestante del Cinquecento, l’abbattimento delle statue di Mussolini, di Stalin, di Saddam Hussein non sono mai la negazione in toto del passato, ma la scelta rituale di distruggere qualcosa per esaltare qualcos’altro (la purezza della fede, il trionfo della democrazia…).
L’aggressione al museo di Mosul e ai reperti delle civiltà millenarie del Vicino Oriente antico si presenta come un gesto infinitamente più radicale, che pretende di annullare la storia in nome di un Islam originario e senza immagini, di un Corano che ri-crea la storia, e prima del quale non c’è nulla. Ma il Corano conosce Abramo (Ibrahim) e lo considera un profeta; Maometto è sì un nuovo inizio, ma in una linea che assimila e onora i profeti del passato (inclusi San Giovanni Battista e Gesù). La lotta contro l’idolatria, che affratella le religioni del Libro (ebraismo, Islam, cristianesimo) ha avuto accessi di febbre iconofobica, ma non è stata mai, in nessuna di esse, dottrina universale.
Annientare la memoria di Ninive non può esser spacciato come un gesto polemico contro l’odiato Occidente, a cui pure si devono scavi, decifrazioni, scoperte. Dalla Mesopotamia non vengono solo dati di civiltà che hanno poi trovato posto nelle culture mediterranee e in Europa. Vengono, per l’Europa e per il mondo (compreso l’Islam), pensieri, riflessioni, osservazioni che hanno fondato la carta del cielo, i nomi e la forma di costellazioni e segni dello zodiaco; vengono nozioni mediche e scientifiche, invenzioni mitiche e letterarie, l’agricoltura e la città. Vengono esperienze storiche che hanno creato linguaggi e formule della regalità, ma anche impulsi alla convivenza fra popoli e civiltà diverse.
È questo il caso del mirabile cilindro cuneiforme di Ciro il Grande (539-38 a. C.), dove il re persiano proclama la propria gloria in nome della tolleranza. «Io sono Ciro, re dell’universo, re di Babilonia: il mio enorme esercito l’ha conquistata, ma il suo popolo non deve temere, lenirò la sua sofferenza. Salverò le loro vite e i loro templi, le statue dei loro dèi saranno intatte, e quelle che sono state allontanate verranno restituite ai templi che loro spettano, ricostruirò le mura e le porte ».
In Mesopotamia come in Europa, nessun territorio è mai stato di un solo popolo né di una sola religione: la sovrapposizione, la mescolanza, il contrasto nella convivenza hanno costantemente arricchito le nostre città, le nostre letterature, il nostro patrimonio di immagini e di parole, la nostra anima.
Programmaticamente barbarica, la furia iconoclasta che si è scatenata a Mosul è però anche profondamente contraddittoria. Distrugge immagini di antiche divinità e sovrani, ma lo fa sotto gli occhi delle telecamere. Devasta spietetamente, ma su un palcoscenico, e per produrre nuove immagini, i filmati diffusi all’istante allo scopo di mostrare i muscoli e ricattare il mondo. Accusa di idolatria un museo archeologico, ma dissemina dappertutto l’auto-idolatria di chi si fa filmare mentre devasta; e si fa filmare per essere visto, perché la propria immagine che distrugge altre immagini diventi una nuova icona.
Alla pretesa idolatria degli antichi l’Is sostituisce un’idolatria più vera e più palpabile, l’iconizzazione di sé; e mentre maledice le immagini altrui, produce, alimenta e promuove le proprie. Distrugge le immagini perché ne riconosce la forza, e dunque la imita. È la nemesi della storia: come quando, subito dopo l’11 settembre 2001, il mullah Muhammad Omar, capo dei taliban afghani, paragonò l’America a Polifemo, «un gigante accecato da un nemico a cui non sa dare un nome», da un Nessuno. L’arcinemico della cultura occidentale, l’iconofobo distruttore dei Buddha di Bamiyan, paragonava se stesso a Ulisse che acceca Polifemo. Stava, dunque, citando Omero.