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Violenza donne: Ghizzoni, Parlamento ratifichi convenzione di Istanbul

Violenza contro le donne è urgente al pari dei provvedimenti economici. “Il Parlamento mostri la volontà di non tollerare più le discriminazioni e le violenze contro le donne e ratifichi rapidamente la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura della Camera dei deputati, all’indomani della ratifica della Convenzione di Istanbul da parte del Consiglio dei Ministri – Dall’inizio dell’anno in Italia sono state uccise 118 donne, in un vero e proprio bollettino di guerra dalle proporzioni allarmanti e verso il quale le istituzioni, come denunciato dall’ONU, hanno dimostrato finora colpevole disattenzione. Donne uccise non per “passione” o “gelosia”, ma vittime del femminicidio, divenuto, di fatto, un crimine di Stato. La politica ha il dovere di annoverare la violenza sulle donne tra le emergenze. È necessario che entro la fine della legislatura venga ratificata dal Parlamento la Convenzione di Istanbul, con la stessa urgenza con cui si procede all’approvazione delle norme economiche.
L’atto di ratifica da parte del Parlamento – conclude Ghizzoni – non sarà forse la soluzione per sradicare definitivamente violenza e femminicidio, ma è il primo passo per cambiare un contesto culturale maschilista e ipocrita, anche a partire dall’agenda politica.”

“Comuni e Province tornano alla carica: da marzo le scuole inizieranno a chiudere!”, di A.G. da La Tecnica della Scuola

Secondo il coordinatore Anci dei Piccoli Comuni, Mauro Guerra, se nella legge di stabilità non si inserisce una proroga sulla prima scadenza dell’obbligo di gestione associata rischiano di venir meno i servizi essenziali. Per il presidente dell’Upi, Antonio Saitta, urge una seria programmazione degli interventi negli edifici: occorrono 8,5 miliardi, pari a 2.300 euro per ogni studente delle superiori. Comuni e Province non ci stanno. La legge di stabilità li penalizza. E con loro le scuole, di cui per legge devono assolvere le opere di costruzione e manutenzione. Nella giornata dell’11 dicembre, ad una manciata di giorni dall’approvazione della legge di stabilità da parte del Senato, si sono fatti entrambi sentire pubblicamente. E non più solo per minacciare di lasciare alunni, docenti e personale Ata la freddo, per la mancanza di fondi per i riscaldamenti. Stavolta la denuncia sfocia nella possibile chiusura di alcuni istituti. Già dall’anno scolastico in corso.
Stavolta le lamentele sono partite dal coordinatore Anci dei Piccoli Comuni, Mauro Guerra, lanciando dal sito ufficiale dell’organismo da lui rappresentato un monito a tutti i parlamentari, nel quale ha chiesto una proroga sulla prima scadenza dell’obbligo di gestione associata. “L’estensione dal 2013 del Patto di stabilità ai Comuni tra 1.000 e 5.000 abitanti – ha scritto Saitta – deve essere cancellata, pena la paralisi completa di questi enti, la assoluta impossibilità anche tecnica della sua gestione, la fine di ogni possibilità di investimento e il venir meno di servizi essenziali (dalla scuola al sociale) per oltre 12 milioni di cittadini”.
Secondo il rappresentante dei Piccoli Comuni “entro l’1 gennaio 2013, circa 4.000 Comuni devono associare in convenzione o in Unione di Comuni almeno 3 delle 9 funzioni previste, mentre le restanti 6 funzioni devono essere aggregate entro la fine del 2013, il tutto a pena di commissariamento, con ciò che ne deriva per le comunità locali. Di molte di queste funzioni – dice però l’esponente dell’Anci – non è ancora chiaro né definito l’esatto contenuto. Con la crisi di governo si chiude la possibilità da noi invocata di concordare delle linee guida interpretative”.
Come se non bastasse “non sono definiti neanche i criteri sulla base dei quali dovranno essere valutate le gestioni associate mediante convenzioni. Con la crisi e sino dopo le elezioni, queste e altre risposte indispensabili per migliaia di amministratori non potranno arrivare. Nel contempo – sottolinea Guerra – peserà sul lavoro delle gestioni associate comunali anche la gravissima condizione di incertezza in atto sul riordino delle Province”.
Incertezza espressa a chiare lettere anche dal presidente dell’Unione provincie italiane, Antonio Saitta, intervenuto a un seminario a Torino con il procuratore Raffaele Guariniello sulla sicurezza negli edifici scolastici: “se non ci sarà un intervento dello Stato – ha detto Saitta – saremo costretti da marzo a chiudere qualche scuola”. Secondo il rappresentante Upi “per una seria programmazione degli interventi negli edifici scolastici, occorrerebbero 8,5 miliardi di euro, che significano un investimento medio di 2.300 euro per ogni studente iscritto alle medie superiori”.
Invece nella situazione attuale le provincie, ha evidenziato Saitta “stanno ancora attenendo i 350 milioni assegnate (per cantieri già aperti nelle scuole ndr) da una delibera Cipe nel 2010, ma erogati perchè destinati ad altre emergenze”. Ecco perché le provincie chiedono una semplificazione delle procedure amministrative nonché “poteri straordinari ai presidenti, per intervenire quando è a rischio la sicurezza degli studenti, degli insegnanti e del personale Ata”. Altrimenti, ha concluso Saitta, “quando non ci saranno più risorse avendo la responsabilità degli edifici scolastici, non potremo che chiudere le scuole”.
L’auspicio del presidente dell’Upi è che in questi giorni il Parlamento “che discute la legge di stabilità, ci dia delle indicazioni su cosa fare”. Per il 2013, infatti, il taglio alle Province sarà di 1,2 miliardi di euro, ha reso noto Saitta, sollecitando “qualche atto di coraggio” perché con questi fondi “dovremmo fare tagli su manutenzioni ordinarie e straordinarie”.
La Tecnica della Scuola 12.12.12

“Scuola, nella classifica del rendimento scivolano i bimbi delle elementari italiane”, di Salvo Intravaia

Dopo i ragazzi delle medie, anche i più piccoli tornano indietro nella graduatoria internazionale sull’apprendimento. La valutazione al termine di un decennio di riforme (Moratti e Gelmini) che hanno riguardato l’istruzione primaria. Finora, a sfigurare nelle classifiche internazionali sugli apprendimenti erano soltanto i ragazzini della scuola media, adesso anche i bambini della scuola elementare cominciano a mostrare segni di cedimento. E l’Italia – in tema di performance in Lettura, Matematica e Scienze – perde tantissime delle posizioni di prestigio acquisite nel 2006. Migliorano, ma restano sempre nelle posizioni di rincalzo, i ragazzini della terza media. Il dato emerge dall’ultima indagine condotta dall’Iea (International Association for the evaluation of educational achievement), l’Associazione internazionale per la valutazione del rendimento scolastico.
Ogni cinque anni, l’Iea conduce due indagini: il Pirls (Progress in International Reading Literacy Study) e il Timss (Trends in International Mathematics and Science Study). La prima, indaga sulle competenze in Lettura dei bambini di quarta elementare, la seconda sulle competenze in Matematica e Scienze tra i bambini di quarta elementare e i ragazzini della terza media (rispettivamente il quarto e l’ottavo anno di istruzione). E se le difficoltà degli studenti che frequentano le scuole medie italiane non sono una sorpresa perché già emerse dall’indagine Pisa, condotta dell’Ocse, e confermate dall’Invalsi italiano, quelle dei bambini delle elementari rappresentano un passo indietro.
Nel 2006, i bambini della quarta elementare italiani con 551 punti in Lettura figuravano al sesto posto, dopo Russia, Hong Kong, Canada, Singapore e Lussemburgo. In Europa, soltanto dietro al Lussemburgo.
Nel 2011, i piccoli italiani si piazzano al sedicesimo posto con 541 punti. E, in Europa, vengono superati da diverse nazioni: Finlandia, Irlanda, Danimarca, Croazia, Inghilterra, Olanda, Repubblica Ceca e Svezia, alcune delle quali – Repubblica Ceca, Finlandia, Irlanda e Croazia – non hanno partecipato all’edizione del 2006. Il Lussemburgo invece non partecipa.
In matematica, i piccoli della scuola elementare fanno registrare praticamente lo stesso punteggio – 508 punti anziché 507 – ma dal sedicesimo posto scendono al ventiquattresimo. Da sette nazioni nel 2007 adesso ci superano in quattordici.
Netto peggioramento in Scienze: il quarto posto fra le nazioni europee con 535 punti si trasforma in un meno lusinghiero undicesimo posto con 524 punti. Nazioni come Germania, Danimarca, Svezia, Olanda e Repubblica Ceca che nel 2007 ci seguivano adesso ci precedono. Migliorano le performance in Matematica e Scienze dei ragazzi che frequentano la terza media. I 480 punti in Matematica del 2007, quattro anni dopo, diventano 498. Netto miglioramento anche in Scienze, dove i 495 punti del 2007 salgono a 501 nel 2011.
La valutazione dell’Iea arriva al termine di un decennio di riforme che, tra il 2001 e il 2011, hanno interessato le elementari. Prima la riforma Moratti ha introdotto l’ingresso in prima a 5 anni e mezzo (il cosiddetto anticipo), il portfolio delle competenze e abolito l’esame di quinta elementare. Poi la Gelmini, dopo la breve pausa del governo Prodi, ha cancellato il modulo di tre insegnanti su due classi. Nel frattempo, il numero degli alunni per classe è cresciuto.
www.repubblica.it

Gas: Ghizzoni, Ministero Ambiente chiude solo “politicamente” procedimento su Rivara

“Il Ministero dell’Ambiente, nonostante non abbia predisposto un provvedimento ufficiale ad hoc, ha dichiarato che il procedimento di valutazione dell’impatto ambientale riguardante il progetto per lo stoccaggio di gas nell’area di Rivara “è da ritenersi chiuso”. – lo annuncia la deputata modenese Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura alla Camera, dopo la risposta del sottosegretario Fanelli all’interrogazione posta in Commissione Ambiente. – Istituzioni, enti locali, comitati civici e forze politiche hanno manifestato contrarietà al progetto di stoccaggio in un’area che comprende porzioni territoriali dei comuni di San Felice Sul Panaro, Finale Emilia, Camposanto, Medolla, Mirandola e Crevalcore in provincia di Bologna, e che è racchiusa nella zona colpita dai disastrosi eventi sismici del maggio di quest’anno.
Dopo l’emanazione da parte del Ministero dello Sviluppo Economico, in accordo con la regione Emilia-Romagna, di un decreto per respingere l’istanza di autorizzazione della concessione allo stoccaggio, ci saremmo aspettati un analogo atto formale ad accompagnare la proposizione politica del Ministero, per chiudere, in via definitiva e con parere negativo, un progetto che espone la popolazione e il territorio a rischi imprevedibili. Ora, con la scelta del PdL di staccare la spina all’Esecutivo, non ci sono altri margini per un pronunciamento ufficiale del Ministero, pertanto – conclude Ghizzoni – il Partito Democratico si impegna, sin da ora, affinché nel prossimo governo si passi dalle parole ai fatti, per archiviare una estenuante vicenda che coinvolge i cittadini della Bassa, ancora vessati dalle conseguenze del sisma.”

“Piazza Fontana. Solo la memoria”, di Oreste Pivetta

Milano sono passati quarantatre anni dal pomeriggio della bomba nella Banca dell’Agricoltura, il 12 dicembre 1969. L’esplosione avvenne alle 16,37. Una giornata scura di un cielo nero. Quarantatré anni sono un tempo lunghissimo e incomparabilmente più lungo di qualsiasi ciclo storico abbia caratterizzato il nostro novecento. Dalla fine della prima guerra mondiale, una catastrofe, all’inizio della seconda trascorse appena un ventennio di pace (non tenendo conto del preludio, circoscritto, spagnolo e delle varie imprese coloniali). Un ventennio durò Mussolini. Da un ventennio vediamo agitarsi attorno ai tavoli della nostra politica Silvio Berlusconi e pare una eternità, al punto da poter «imbalsamare» il suo protagonista al modo di una mummia.
Eppure quei quarantatré anni dalla strage di Piazza Fontana sembrano pochi, certo per la forza simbolica di quella tragedia, per quei morti innocenti, per l’inquietante compromissione delle pubbliche istituzioni, compromissione che grava ancora come un’ombra esprimendo qualcosa di irrisolto nella definizione della nostra democrazia (e un tratto mai interrotto con il nostro passato fascista), per l’improvviso riapparire di fantasmi del passato.
La memoria non è mai morta, forse perché la strage di piazza Fontana con il suo dolore, con il sangue, con gli intrighi, rappresenta la svolta in una storia iniziata almeno un decennio prima, la seconda stagione della ricostruzione, che non si interruppe ma che si gravò di infinite contraddizioni, che avrebbero condotto al disastro degli anni ottanta e dei successivi.
LA FINE DELLE ILLUSIONI
La bomba distrusse molte certezze comuni: nella saldezza della nostra democrazia, nella prospettiva di sviluppo, in una società segnata dalla giustizia, dalla solidarietà e da un benessere conquistato con il lavoro (quando ancora la «fabbrica» era centrale). Dopo le certezze, rimasero le speranze o le illusioni, che l’assassinio di Aldo Moro e il crollo dell’esperienza della solidarietà nazionale spazzarono via, aprendo la strada a Craxi e poi a Berlusconi, all’appropriazione dello Stato da parte di alcuni «potentati» e di alcune «famiglie», al trionfo del consumismo espresso da una ideologia individualista, anche all’esplosione del debito pubblico, molto prima di tangentopoli, degli scandali politici, del malaffare, della crisi dei partiti, del tramonto delle «due Chiese», la Dc e il Pci.
Dai primi anni sessanta, la nascita del centrosinistra, al 1978, la morte di Moro, piazza Fontana è una sorta di spartiacque tra la politica e il progressivo abbandono della politica. Non dimentichiamo che il 1969 fu l’anno dell’ «autunno caldo», di ripresa economica, ma anche di rivendicazioni collettive di dignità e di equità, non solo contro i ritmi massacranti della catena di montaggio ma anche per conquistare un’eguaglianza contro discriminazioni umilianti (nello stesso luogo, ad esempio, tra impiegati e operai).
Fra pochi giorni sarà un anno della scomparsa di Giorgio Bocca, narratore di quelle vicende, che in un articolo per il Giorno («La rabbia non ha salario»), scrisse a proposito di quell’operaio che aveva incontrato nei cortei e nelle assemblee: «C’è evidentemente qualcosa che nessun aumento salariale può dargli e che la lotta invece gli ha fatto gustare: un potere, piccolo ed effimero, ma un potere; la eguaglianza delle ore calde, il trattare da pari a pari con i capi, il vedere impaurita l’organizzazione». Una questione di libertà e di democrazia, si potrebbe riassumere. La bomba scoppia per intimidire, per spezzare, per rimettere ai loro posti quei «rivoltosi». Ci riuscirà? Non ci riuscirà? Qualcosa resta. Resta soprattutto se l’attentato diventa una teoria di attentati: i treni, Bologna, poi il terrorismo delle Brigate rosse.
L’ALTRA VITTIMA: GIUSEPPE PINELLI
Nella Banca Nazionale dell’Agricoltura morirono diciassette persone (quattordici subito, una novantina furono i feriti). Un altro morto di piazza Fontana fu Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico. Morì, il 15 dicembre, precipitando da una finestra della questura di Milano, in una stanza dalla quale da pochi minuti si era allontanato il commissario Calabresi che lo aveva interrogato per giorni e giorni. Non c’era indizio contro Pinelli. Unico indizio la sua «anarchia».
Di quella notte ci ha lasciato pagine indimenticabili Camilla Cederna. Un suicidio, una confessione, fecero sapere dalla questura. La pista anarchica, che avrebbe condotto all’arresto e alla incriminazione di Pietro Valpreda, era già stata individuata. Vengono i brividi rileggendo le righe con le quali il prefetto di Milano svelava i presunti colpevoli (secondo lui) in un telegramma al ministero degli Interni: «gruppi anarchici aut comunque frange estremiste». Vengono i brividi a rivedere Bruno Vespa che al telegiornale annuncia la cattura del «mostro». Pietro Valpreda, appunto.
La menzogna ufficiale su piazza Fontana veniva a confermare in un’opinione pubblica moderata il rapporto tra conflitti sociali, eversione e sinistra, seconda una teoria «ufficiale», alimentata da alcuni organi di stampa (non tutti in verità e non ad opera di tutti i giornalisti, molti dei quali anzi sentirono il bisogno di affermare anche con clamorose iniziative pubbliche il valore dell’indipendenza professionale). I processi (Il processo infame come si intitola una esemplare ricostruzione del nostro Ibio Paolucci, in un volumetto pubblicato da Feltrinelli e ormai introvabile) furono una passerella non solo di terroristi quanto di generali, ministri, ufficiali dei carabinieri, spie ed infiltrati. Il cittadino qualunque, telespettatore o lettore, avvertì l’avvilente sensazione di venire tradito giorno dopo giorno dal proprio Stato. Ad una verità si giunse: la strage fu fascista (e dei fascisti che gravitavano attorno alla cellula veneta di Ordine nuovo, con Franco Freda e Giovanni Ventura).
Della strage insomma si sa molto: le tessere che mancano sono alcune tra quelle che riguardano le responsabilità degli apparati. Ma il quadro, e cioè i colori e il significato, è perfettamente tratteggiato e raffigura il tentativo, che si ripeterà, di oltraggiare la democrazia, di respingere il protagonismo di alcuni ceti sociali, di ridimensionare le conquiste, di oscurare le riforme e di reprimere quella cultura, quanto cioè anni tumultuosi e ricchi, tra i primi Sessanta e il nostro breve Sessantotto, avevano costruito. Poi non si spense tutto, ma il cammino non si completò e non si consolidò. In quel ventennio il paese fu in grado di darsi tante riforme (dallo Statuto dei lavoratori al divorzio, dal diritto di famiglia alle legge 180 alla legge per l’aborto). Lo Stato non fu in grado di riformare se stesso: piazza Fontana fu la dimostrazione di un fallimento o di una cattiva volontà, che si sarebbero manifestati nel pieno dei loro effetti qualche anno dopo. Senza più il bisogno delle bombe.
L’Unità 12.12.12

“Anche Berlino nella campagna elettorale”, di Luigi La Spina

I tedeschi si devono rassegnare ad essere «coinvolti» nella campagna elettorale italiana. Tutto dipenderà dal modo, dallo stile, dalla validità degli argomenti usati. Da parte loro e da parte nostra. Dopo tutto l’opinione pubblica tedesca, i giornali grandi e piccoli, gli uomini politici tedeschi da oltre un anno (per tacere della lunga agonia dell’ultimo governo Berlusconi) hanno espresso sempre ad alta voce quello che pensavano del paese Italia, degli italiani e del loro governo. E non sempre in toni amichevoli. Sono stati prodighi di consigli, di raccomandazioni, di velate minacce. Si sono presentati spesso come modello da imitare, tout court, a prescindere dalle complesse differenze delle due società. In questo contesto, anche nella discussioni di merito (incisività delle riforme, riduzione del debito pubblico ecc.) si sono insinuati stereotipi negativi sugli italiani che sembravano essersi attenuati con il passare degli anni.
Più complicato è l’atteggiamento da parte italiana. Anche qui inevitabilmente sono ricomparsi gli stereotipi verso la società tedesca – l’ambivalenza tra l’ammirazione per l’efficienza, la coerenza, la capacità di realizzazione dei tedeschi e l’irritazione per il tono talvolta rigido e supponente da essi usato. In questa sede non prendo neppure in considerazione le espressioni volgari, offensive rivolte alla persona della cancelliera, apparse su giornali di destra.
Se si passa alla stampa seria, in Italia si è delineato verso la Germania un fronte di rispetto, per così dire, nei confronti delle sue posizioni. Rispetto accompagnato però dall’attesa di una maggiore elasticità e attenzione verso la difficile situazione italiana e in generale di altri Paesi in difficoltà ancora maggiori. Questa attesa è andata delusa. I tedeschi – i grandi giornali, la classe politica, la cancelliera – non hanno capito questa sottile delusione degli italiani. L’hanno fraintesa.
Gli italiani non si aspettavano «sconti» sottobanco, ma un comportamento più generoso da parte della grande Germania. In nome di quella Europa solidale, che era stato il cavallo di battaglia degli stessi tedeschi. Questa delusione è diventato un sentimento palpabile, che si involgarisce facilmente in populismo anti-tedesco. Come tale sarà usato a piene mani – ahimè – da chi sta cercando la sua rivincita politica.
Tocca ai politici seri – italiani e tedeschi – saper distinguere il dissenso ragionato attorno ad alcuni atteggiamenti del governo tedesco dall’antitedeschismo a buon mercato. Anche se non sarà facile spiegarlo in campagna elettorale. Ma i politici hanno la loro responsabilità. Il successo di Mario Monti in Germania è stato straordinario (sino al grottesco di essere considerato senz’altro «tedesco», il che evidentemente per loro è il massimo complimento), guadagnandosi la stima personale della cancelliera. Paradossalmente questo oggi può diventare un handicap.
In realtà il nostro presidente del Consiglio, nel suo stile riservato, non ha mancato di insistere anche a Berlino per una maggiore elasticità della politica tedesca, appoggiandosi per l’occasione ad altri partner europei. Ma non mi pare che abbia raggiunto il suo scopo. L’abile cancelliera Merkel sembra ottenere quello che vuole, conservando la sua immagine (elettoralmente redditizia) di donna forte d’Europa. Ora sembra preoccupata per ciò che può accadere in Italia.
Se il clima politico dovesse incattivirsi proprio attorno ad una nuova «questione tedesca», tocca a Mario Monti esporsi per chiarire con forza la posizione dell’Italia. Ha gli argomenti di competenza, non soltanto per difendere eventualmente la sua stessa azione politica dall’accusa di sudditanza ai diktat di Berlino, ma per chiarire l’intera questione davanti all’opinione pubblica più consapevole.
I prossimi mesi offriranno la prova della maturità reciproca delle opinioni pubbliche italiane e tedesca, del giornalismo più influente e soprattutto della classe politica dei due Paesi.
La Stampa 12.12.12

“Tagli e risparmi per 33 miliardi ecco la spending review delle famiglie”, di Ettore Livini

Le forbici degli italiani su casa, carburanti, regali e telefonate. Con le “finanziarie fai da te” meno benzina e gasolio auto per 6 miliardi, chiamate per 1 e compravendite immobiliari per 18. Conti domestici difficili: in un anno la pressione fiscale è salita dal 42,5 al 44,7% e il potere d´acquisto è crollato del 4,1%. Un miliardo di euro di telefonate in meno. Sei miliardi (potenziali) risparmiati su benzina e gasolio per l´auto, 18 miliardi sulla casa. Basta cappuccino al bar e niente macchina nuova. Le famiglie tricolori festeggiano, si fa per dire, il successo della loro personalissima spending review. I conti domestici faticano non tornano da tempo: la pressione fiscale è salita in un anno dal 42,5% al 44,7%, il potere d´acquisto è crollato del 4,1%. Ma le migliaia di finanziarie fai-da-te avviate tra le mura di casa – un lavoro certosino di forbice su entrate e uscite che ha cambiato molte delle nostre abitudini quotidiane – ha già regalato agli italiani tagli (o mancate spese) per almeno 33 miliardi.
Risparmi a quattro ruote
L´auto è la vittima eccellente dell´austerity casalinga. Una scelta quasi obbligata: la raffica di aumenti delle accise (sulla verde sono salite del 22% tra gennaio e agosto 2012, sul diesel del 33%) ha fatto decollare i prezzi del carburante. E noi, difficile fare diversamente, ne compriamo sempre meno. Nei primi 10 mesi dell´anno – calcola l´Unione Petrolifera – abbiamo tagliato del 9,9% la spesa per il pieno. Nei nostri serbatoi sono entrati 3,4 miliardi di litri in meno – quanto basta per fare un milione di volte il giro della Terra – pari (in teoria) a un risparmio secco di 6 miliardi. Peccato che l´aumento delle tasse si sia mangiato con gli interessi i sacrifici. Secondo Econometrica la spesa delle famiglie tricolori alla voce “benzina e gasolio” salirà quest´anno di 4 miliardi a 71,8 miliardi. Solo tra gennaio e ottobre le entrate dello Stato grazie alle tasse sui carburanti sono cresciute di 3,5 miliardi malgrado il crollo dei volumi. Nessuno si stupisce, visti i costi di gestione, se in tantissimi hanno rimandato l´acquisto dell´auto. Le vendite sono crollate del 20% rispetto a un anno fa e quest´anno gli italiani investiranno “solo” 28,7 miliardi per sostituire la loro quattroruote, 7 miliardi in meno del 2011.
Spread, telefono, casa
Piange il telefono. Di fronte alla corsa dello spread e al calo delle entrate familiari, gli italiani – facendo violenza a se stessi – hanno imparato a usar meno il cellulare. Nei primi nove mesi dell´anno le entrate di Tim, Vodafone e Wind sono calate di oltre un miliardo di euro, Un po´ è colpa (o merito, dipende dai punti di vista) del colpo di forbice alle tariffe. Buona parte della flessione però si spiega con il calo di traffico. Nel terzo trimestre dell´anno, calcola il bilancio di Telecom Italia, il mobile ha visto scendere il suo giro d´affari del 13%, molto di più del -7,5% dei prezzi.
La spending-review ha obbligato pure molte famiglie a mettere in freezer i loro piani per metter su casa. Nel terzo trimestre di quest´anno le compravendite di abitazioni tra privati – certifica l´agenzia del territorio – sono state 95mila, il 26% in meno di un anno fa quando già il mercato batteva la fiacca. La spesa totale degli italiani per il mattone calerà a fine anno di 18 miliardi. Volumi ridotti al lumicino come non si vedeva dagli anni ´90. I crolli dei prezzi (-8,4% nel 2012, ma per l´Istat potremmo arrivare a -20%) non sono bastati a scaldare gli aspiranti compratori. Le concessioni di nuovi mutui immobiliari sono crollate del 44%. E chi ha già sul groppone un prestito dalla banca fatica sempre di più a pagare la rata, come capita al 22,6% delle famiglie. Colpa pure dell´aumento dell´imposizione. L´Imu dovrebbe portare nelle casse dello stato nel 2012 oltre 23 miliardi di euro, cinque in più delle previsioni.
un carrello low cost
Più pollo e meno pesce. Più pane e meno vino. Più farina, cacao e uova e meno merendine confezionate. La finanziaria fai-da-te ha cambiato pure l´identikit del nostro carrello della spesa. Compriamo meno cibo (- 1,5% nel 2012), risparmiamo puntando sui prodotti senza marca (arrivati ormai al 20% del mercato) e sugli hard discount (l´unica tipologia di punti vendita ancora in attivo) e rivedendo il mix dei piatti in tavola. Il boom delle vendite di olio d´oliva (+7%), farina (+8%) e latte (+2%) – materie prime della gastronomia domestica – sono la testimonianza di come negli ultimi mesi siano state tagliate le uscite al ristorante e il cappuccino al bar. Tengono anche cibi poveri come pane e pasta (+3%) mentre la scure dell´austerity – per la gioia dei bovini – ha ridotto del 6% la spesa per la bistecca. Resta invece in quota (+1%) la domanda per i poveri polli, rei solo di essere più economici. L´onda lunga dell´austerity non risparmierà nemmeno Babbo Natale. La spending review non fa mai festa e gli italiani spenderanno per regali e cenoni “solo” 36,8 miliardi, uno in meno del 2011. San Silvestro, stavolta, si dovrà accontentare di fuochi d´artificio low-cost.
La Repubblica 12.12.12