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“Concorsone al via, che cosa fare”, di Flavia Amabile

Lunedì prenderà il via il primo concorso per la scuola dopo tredici anni anche se la legge prevede selezioni ogni tre anni. Una parte dei sindacati in queste settimane ha ricordato che una parte dei vincitori della precedente selezione non ha ancora trovato posto nella scuola ma la macchina è partita e il Miur promette le prime nomine in ruolo dei vincitori già a partire dal prossimo anno scolastico.
I quesiti oggetto della prova sono estratti da una banca dati, resa nota e pubblicata sul sito del Miur il 23 novembre insieme al calendario, sulla quale gli ammessi alla prova preselettiva hanno avuto la possibilità di esercitarsi. Non sono mancate le polemiche per alcuni errori presenti nei quesiti e corretti grazie alle segnalazioni, ma anche per la fuga di notizie che ha permesso a qualcuno di impadronirsi di domande e risposte dell’intera banca dati e di venderli in rete creando un business di tutto rispetto. Complessivamente, sono stati 8.481.184 i moduli scaricati per le esercitazioni e 300.387 i candidati che hanno utilizzato il simulatore gratuito messo a disposizione del Ministero per prepararsi alla prova.
Il personale impegnato nella prova avrà un compenso. Il Miur precisa che la somma stanziata è di circa 200 euro al giorno per aula, circa 25 euro l’ora per una spesa totale inferiore al milione di euro, “totalmente assorbita dai compensi al personale coinvolto nelle operazioni di assistenza ai candidati durante le prove”.
I candidati che superano la prova di preselezione sono ammessi alle successive prove scritte, o scritto-grafiche, relative alle discipline oggetto di insegnamento per ciascun posto o classe di concorso. Le prove consistono in una serie di quesiti a risposta aperta e sono finalizzate a valutare la padronanza delle competenze professionali e delle discipline oggetto di insegnamento. La prova scritta della scuola primaria comprende anche l’accertamento della conoscenza della lingua inglese. I candidati all’insegnamento di discipline scientifiche e tecnico-pratiche – che prevedono anche attività di laboratorio – svolgeranno oltre alla prova scritta anche una prova di laboratorio. Il calendario delle prove scritte sarà pubblicato dal Ministero nella Gazzetta Ufficiale del 15 gennaio 2013.
Chi ha superato lo scritto viene ammesso alle prove orali sulle discipline di insegnamento. Oltre a valutarne la padronanza, la prova orale dovrà verificare anche la capacità di trasmissione delle stesse discipline e la capacità di progettazione didattica, oltre alla capacità di conversazione nella lingua straniera prescelta dal candidati.
Le cifre sono imponenti: i posti e le cattedre disponibili sono 11.542 per la scuola dell’infanzia, nella primaria, nella secondaria di I e II grado, e i candidati ammessi 321.210, un numero che risulterà nella realtà un po’ più elevato per i ricorsi vinti nelle ultime settimane dall’Anief, al contrario di quanto previsto dal bando, infatti, il 17 parteciperanno anche i prof di ruolo e i laureati negli ultimi dieci anni. Alla fine ci saranno circa 28 aspiranti prof a contendersi ogni posto disponibile.
Le prove di preselezione si svolgeranno lunedì e martedì in alcuni casi bloccando l’attività didattica nelle scuole. Bandita la carta, i test saranno eseguiti su computer, unici per tutti i posti e le cattedre messe a bando. Hanno l’obiettivo di accertare le capacità logiche, di comprensione del testo, le competenze digitali e linguistiche del candidato in una delle seguenti lingue straniere a scelta: inglese, francese, tedesco e spagnolo. Le prove si svolgeranno in più sessioni, secondo il calendario pubblicato il 23 novembre nella sezione dedicata del sito del Miur (http://www.istruzione.it/concorso-personale-docente/calendari_prove.html).
Ciascun candidato avrà a disposizione una postazione informatica, alla quale potrà accedere tramite i propri dati anagrafici ed il codice fiscale. La prova è costituita da 50 quesiti a risposta multipla, con quattro opzioni di risposta, così ripartiti: 18 domande di capacità logiche, 18 domande di comprensione del testo, 7 domande su competenze digitali, 7 domande sulla lingua straniera. Il tempo a disposizione è di 50 minuti, al termine dei quali ogni candidato potrà visualizzare il risultato conseguito sulla postazione assegnata. Per il superamento della preselezione è necessario conseguire un punteggio non inferiore a 35/50.
Dei candidati, otto su dieci sono donne (258.476 su 321.210). I restanti 62.734, sono uomini. Ben due terzi degli aspiranti insegnanti che hanno fatto domanda di partecipazione al concorso non provengono dalle graduatorie ad esaurimento. Sono 214.453 (66,8%), rispetto ai 106.757 (33,2%) che sono invece presenti nelle stesse graduatorie. L’età media dei canditati è di 38,4 anni. Di poco più alta è l’età media degli uomini (40 anni) rispetto a quella delle candidate donne (38 anni). La maggior parte dei candidati (158.879) ha un’età compresa tra 36 e 45 anni. Seguono i 113.924 candidati con un’età pari o inferiore ai 35 anni e i 45.595 con un’età compresa tra i 46 e i 55 anni. I candidati con un’età superiore a 55 anni sono 2.812.
Considerati gli ordini di scuola scelti dai candidati, le domande si distribuiscono in modo pressoché omogeneo – chiarisce il Mur – . Il 26,2% delle domande riguarda i posti disponibili nella scuola dell’infanzia, il 26,6% la scuola primaria, il 20% la secondaria di I grado e il 27,2% la secondaria di II grado.
Circa la metà delle domande di partecipazione al concorso riguarda posti disponibili nel Sud: sono 164.827, il 51,3%. Percentuali minori per le domande riguardanti le regioni del Nord (29,3%) e del Centro (19,4%). La regione con il maggior numero di domande è la Campania: 56.773
Considerato il rapporto tra le richieste inviate e i posti e le cattedre bandite, maggiori probabilità di successo sono previste per i posti nella scuola primaria – da sempre punto di forza del sistema d’istruzione italiano – nelle cattedre di italiano, storia ed educazione civica, geografia della scuola secondaria di I grado e nelle cattedre delle materie letterarie nel primo biennio della scuola secondaria di II grado.
La Stampa 15.12.12

“Un leader all’angolo”, di Piero Ignazi

A forza di passi avanti e indietro il minuetto di Berlusconi lascia frastornati anche i suoi più accesi sostenitori. Non capiscono più dove stia andando il loro leader: lancia in resta contro Monti o compostamente allineato dietro il Professore? Il rilancio, la ridiscesa in campo, il nuovo partito con le facce nuove, era tutto fumo negli occhi. Nel migliore dei casi, fino alla scorsa settimana Berlusconi poteva ancora pensare di galleggiare sull’area grigia del benpensantismo italico, su quelle fasce sociali scontente del “montismo” (leggasi: del dover pagare le tasse) e nostalgiche dell’irresponsabilità berlusconiana (“i ristoranti pieni”…). Il Cavaliere si muoveva sul filo dell’ambiguità: le sortite antieuropee e antigovernative venivano calmierate con l’ammissione che non c’erano alternative al governo Monti. Il Pdl si comportava da partito di lotta e di governo. Grazie a questa ambiguità poteva pescare in un bacino elettorale che andava dai leghisti meno identitari alla palude dei moderati inquieti per i loro portafogli e diffidenti dei centristi. Questo schema è saltato di colpo per un macroscopico errore di valutazione: scambiare l’eleganza e la cortesia formale di Mario Monti con la debolezza. Soprattutto, Berlusconi non ha “capito” chi aveva di fronte: un rappresentante dell’establishment, europeo, e non solo, come si è visto alla riunione del Ppe di Bruxelles. Scontrarsi con Mario Monti significava inimicarsi tutta la classe dirigente dell’Ue nonché l’amministrazione Obama. Dare il benservito al governo che ha impedito il fiscal cliff europeo con motivazioni populiste ed euroscettiche ha prodotto una reazione “globale” di rigetto. E questa volta, contrariamente al passato, con una immediata ricaduta sulla politica italiana: l’isolamento del Cavaliere. Palpabile a Bruxelles, in crescita in Italia.
Le piroette delle ultime ore con il grottesco appello a Monti affinché guidi i moderati contro la sinistra, come se il Professore fosse un suo alter ego o un suo clone, esprimono tutta la solitudine e lo smarrimento del leader del Pdl. Quell’area grigia su cui contava per riguadagnare qualche voto non è disposta a seguirlo nel suo ridotto antieuropeo. Preferisce adattarsi alle scelte dell’establishment perché è finita l’epoca della “protesta dei ricchi” sub specie di partite Iva e piccoli imprenditori. La rabbia sociale è incanalata non contro il governo bensì contro tutta la classe politica, la casta; e, semmai è intercettata da Grillo, al netto dei suoi atteggiamenti duceschi.
Se Monti prenderà la guida di uno schieramento politico – direttamente o “ispirandolo” – non potrà che essere alternativo a chi lo ha preceduto. In quest’anno, e specialmente nelle ultime ore, il solco tra i due si è allargato fino a diventare incolmabile. Le dichiarazioni del Professore al meeting di Bruxelles sulle responsabilità del Pdl nelle sue dimissioni non lasciano spazio a dubbi. Monti rappresenta l’antitesi di Berlusconi per tanti tratti personali ma anche e soprattutto per i riferimenti politico-ideali. Se è vero che per Monti l’Europa rappresenta il vero discrimine della politica italiana, allora scende una cortina di ferro nei confronti della destra forzaleghista. La continua, sottile, insinuante delegittimazione dell’Unione messa in atto da Berlusconi
e dai suoi, a incominciare da Giulio Tremonti, con le ricorrenti accuse all’euro fonte di ogni disgrazia, per non dire degli stridii leghisti, formano una barriera insormontabile nei confronti di chi, come Monti, vede nell’Europa il faro della sua azione politica. Inoltre, poiché il Professore non ha nelle sue corde quell’ostilità forsennata verso la sinistra che ha rappresentato la cifra identificativa e la ragion d’essere del centrodestra, non potrà che apprezzare l’attaccamento all’Europa del Pd e persino l’embrionale neo-europeismo di Nichi Vendola, espresso dall’appassionato riferimento a Ernesto Rossi e Altiero Spinelli nel dibattito televisivo delle primarie.
La Repubblica 15.12.12

“Le note spese e il paradosso del Cavaliere”, di Massimo Gramellini

In attesa della conferenza stampa del 21 dicembre in cui Monti rivelerà il contenuto della profezia dei Maya sulla sua candidatura a Palazzo Chigi, il centrodestra pop del trio lombardo Berlusconi, Bossi & Formigoni si trastulla con un pacco di note spese. Si tratta di una tipica specialità italiana. Da sempre gli spiriti grigi degli altri Paesi si fanno bastare una misera diaria e con essa hanno attraversato le loro spente vite senza mai sperimentare l’ebbrezza, la fantasia, diciamo pure la creatività che soltanto la nota spese garantisce, quando è compilata come si deve. Non sorprende che questo simbolo del Made in Italy vada oggi a incrociare le vivaci esistenze dei consiglieri di maggioranza della Regione Lombardia, il cui presidente ha un severo e dettagliato curriculum di crocierista a sbafo.
I noti spenditori lombardi sono alcune decine. Li capeggia per fama un’igienista dentale, Nicole Minetti, che con i rimborsi istituzionali avrebbe comprato di tutto, dalla crema per il viso al sushi. Persino una copia del libro Mignottocrazia, che forse potrebbe rientrare alla voce «aggiornamento professionale». Al suo fianco il caro vecchio Trota, che con le note spese finanziate dai contribuenti di Roma Ladrona si sarebbe accaparrato videogiochi, bibite e sigarette. Fin qui il Bossino. Poi c’è il Bossetti – Bossetti Cesare, pure lui leghista – che nel 2011 avrebbe consumato quindicimila euro in pasticceria, nonostante oggi abbia dichiarato di essere diabetico. Pare di vederlo, questo Poldo longobardo, mentre si abboffa di bignole e croissant inneggiando alla Padania Libera e alla superiorità del panettone sulla pastiera. Ma il mio preferito è un altro leghista, Pierluigi Toscani, a cui si imputa l’acquisto compulsivo di lecca lecca e gratta e vinci. Va dunque immaginato nel suo habitat naturale, il bar, mentre alterna slappate a grattate. La sua nota spese traccia il profilo di una personalità variegata, capace di mettere in conto ai contribuenti la torta sbrisolona come le ostriche, senza mai rinunciare a un maschio rapporto con la natura, testimoniato dai 752 euro spesi per le cartucce da caccia.
Sarebbe però ipocrita scagliarsi sui consiglieri lombardi, la cui percentuale di indagati ha ormai superato quella del colesterolo nel sangue, senza ricordare che negli anni delle vacche grasse la nota spese è stata un bene nazionale a cui hanno attinto con gioia molte categorie di privilegiati. Si narra di un manager pubblico che avrebbe presentato come cena uno scontrino di supermarket così formulato: «Prosc. 140 euro, Form. 130». E alla domanda del revisore dei conti – che riteneva un po’ elevata la spesa di prosciutto e formaggio, tanto da supporre che non di una porzione si trattasse, ma di stinchi e forme intere – avrebbe risposto sconsolato che purtroppo il medico gli aveva proibito di mangiare altro.
Anche noi giornalisti abbiamo saputo mettere in campo dei fuoriclasse, e non solo alla Rai, dove una corrispondente dalla guerra del Golfo si meritò da Beniamino Placido il soprannome di Nostra Signora delle Note Spese. Della leggenda di questa professione fa parte il racconto dell’inviato reduce dal Sudamerica (sulla cui identità esistono varie versioni) che presentò come nota spese un foglietto qualsiasi con la giustificazione vergata a mano: «Passaggio a dorso di mulo: 1000 dollari» e la firma in calce «Pablo». Quando il contabile del suo giornale gli fece rispettosamente notare che si trattava di una indicazione un po’ vaga, egli si offrì di telefonare a Pablo, il proprietario del mulo, davanti a lui. «Quiero hablar con Pablo», urlò nella cornetta. Ma dopo un infinito silenzio abbassò gli occhi e sospirò: «Nooo! Pablo es muerto…».
Ora la festa è finita, ma restano da avvertire alcuni ritardatari. A tutto questo nota-spendere e nota-spandere va poi aggiunta la sensazione di ribollita che i nomi della Minetti e Bossi junior hanno provocato oggi al loro sbarco nelle redazioni e, immagino, nelle orecchie dei lettori. E’ da una settimana che il tempo sembra essersi fermato. Berlusconi, Ruby, Berlusconi, Trota, Bossi, Minetti, Berlusconi, Formigoni, Berlusconi, Berlusconi… Come se la puntina della Storia si fosse incantata su un graffio profondo e il disco non riuscisse ad andare avanti.
Il nuovo scandalo lombardo accelera la resa dei conti fra i due centrodestra. Quello populista delle note-spese e quello europeista che le spese finora le ha fatte pagare ai soliti noti. Impossibile che si uniscano sotto la stessa bandiera, a meno che siate così creativi da immaginare Monti sul palco mentre canta l’inno di Forza Italia con la Santanché. Sembra un paradosso, ma se vent’anni fa Berlusconi fu l’artefice insostituibile della coalizione contrapposta alla sinistra, oggi ne è il principale e forse unico ostacolo. Se vuole davvero salvare l’Italia dai «cumunisti», il Cavaliere deve compiere il sacrificio supremo: ritirarsi a vita privata, portando con sé un po’ di noti, un po’ di note e possibilmente anche un po’ di spese.
La Stampa 15.12.12

“Quella borghesia dal fiato corto”, di Gad Lerner

È davvero straordinaria l’enfasi con cui da più parti Mario Monti viene sollecitato a trasformarsi da tecnico “super partes” in leader politico dei moderati. Per il prestigio di cui gode a livello internazionale, egli viene invocato alla stregua di una figura salvifica. Una figura che dopo anni di tentativi fallimentari sarebbe finalmente in grado di realizzare il sogno di un partito “europeo” della borghesia italiana. Quel sogno, cioè, infrantosi con inesorabile puntualità ogni qual volta al cospetto s’è dovuto misurare con i vizi storici, economici e culturali della classe dirigente chiamata a farsene protagonista.
L’attuale reincarnazione di tale progetto dovrebbe vedere la luce nell’ambito del Partito Popolare Europeo, cioè la famiglia politica che nel 1998 accolse nelle sue file il movimento fondato da Berlusconi e ora lo riconosce con imbarazzo come un corpo estraneo. “La partecipazione di Mario Monti al vertice del Ppe a Bruxelles è uno di quei dettagli suscettibili di cambiare la storia di una nazione”, ha scritto – niente meno – il solitamente compassato Sole 24 Ore.
Con entusiasmo pari al quotidiano della Confindustria, anche Avvenire, il giornale dei vescovi, annuncia che “il Ppe ‘convince’ Monti”.
Ohibò. Siamo davvero in presenza di una svolta storica? Oppure dobbiamo più modestamente riconoscere nel pressing esercitato in queste ore sul presidente del Consiglio la solita, vecchia inquietudine che attanaglia le più varie forze moderate della penisola allorquando sentono avvicinarsi l’eventualità concreta di un governo di sinistra?
La novità su cui fa leva tale offensiva per un Monti bis è l’inedito favore che l’ipotesi della sua candidatura suscita nell’establishmentinternazionale, dagli Usa alla Germania. Anche un futuro governo di centrosinistra presieduto da Bersani difficilmente potrebbe fare a meno della funzione di garante che Monti gli fornirebbe nel rapporto con i nostri partner stranieri.
Ma resta del tutto inevaso l’interrogativo cruciale: trasformandosi da statista tecnico in leader politico, e consumando fino in fondo la sua rottura con la destra populista antieuropea che attraverso Berlusconi e Alfano lo ha sfiduciato in Parlamento, è verosimile che Monti possa raggruppare qualcosa di più di un magma di interessi eterogenei? Se esaminiamo difatti la variegata gamma delle personalità che finora hanno tentato invano di costruire una forza di centro moderato, notiamo che quasi tutte in un modo o nell’altro provengono da decenni in cui si erano accomodate all’ombra del berlusconismo. Ciò vale per i politici (Casini e Fini), per gli imprenditori (Montezemolo e Marcegaglia), per i sindacalisti (Bonanni), e anche per i vertici della Chiesa italiana.
Quanto ai tecnici di diversa provenienza trasformatisi in ministri tredici mesi or sono, da Passera alla Fornero, dalla Cancellieri a Grilli, la loro gestione delle politiche d’austerità non ha assunto un respiro che superasse la dimensione tecnocratica. In definitiva: la somma di questi spezzoni di classe dirigente ondivaga, magari con l’apporto dei fuoriusciti dell’ultim’ora dal Pdl, può davvero trasformarsi in un progetto politico coerente sol perché Monti ne diviene federatore nell’alveo del Partito Popolare Europeo?
È lecito dubitarne, tanto più che il popolarismo europeo, almeno nella sua componente cristiano- sociale rappresentata dalla Merkel, ha una storia non riducibile alla linea del rigore oltre la quale finora Mario Monti non è parso in grado di esprimersi. Il suo somiglia piuttosto a un disegno neoborghese liberale che in Italia nel passato ha avuto portavoce degnissimi ma sempre condannati al minoritarismo élitario.
Il colpo di bacchetta magica auspicato dagli zelanti notabili che oggi sollecitano Monti a entrare in politica – isolando la destra estremista e contrapponendosi al centrosinistra guidato da Bersani – deve fare i conti con una base popolare diffidente, visti gli esiti di sofferenza sociale determinati dall’azione del governo Monti. Basterà il richiamo messianico alla storia del Partito Popolare Europeo a dare vita a una creatura politica, anziché all’ennesima, fragile operazione verticistica di una borghesia dal fiato corto, poco propensa al rischio?
La Repubblica 15.12.12

“Monti rischia un appoggio eccessivo”, di Michele Brambilla

Due cose non s’erano mai viste in una campagna elettorale. Non s’era mai vista una così esplicita ingerenza (chiamiamo le cose con il loro nome) estera sul voto italiano, e non s’era mai visto il leader di un partito che indica come candidato premier il premier che ha appena sfiduciato.
La prima cosa, cioè il fatto che tutta Europa chieda a Monti di ricandidarsi, è indice di quanta stima goda oltre confine il Professore (tantissima) e di quanta ne abbia goduta il suo predecessore (pochissima per non dire zero). La seconda cosa sembra la prova delle difficoltà che Berlusconi sta incontrando dopo aver annunciato, con la solita metafora calcistica, il suo «ritorno in campo».
Tutti e due i fatti, insieme, appaiono poi come il segno che per il Cavaliere non tira una buona aria. L’Europa non lo vuole, e lui si manifesta in stato confusionale. L’altro ieri, durante quella che in teoria avrebbe dovuto essere la presentazione di un libro di Bruno Vespa, in poco più di un’ora ha dato cinque versioni sulla candidatura a premier: 1) se si presenta Monti io faccio un passo indietro; 2) lo faccio anche se Montezemolo assume la guida del centrodestra; 3) Alfano è in pole position per Palazzo Chigi; 4) se la Lega non mi appoggia faccio cadere le giunte in Piemonte e in Veneto; 5) la Lega ha accolto con entusiasmo il mio ritorno e al momento il candidato premier sono io. Ventiquattr’ore più tardi, cioè ieri, è tornato a caldeggiare un Monti-due, segno che a un Berlusconi-quattro non ci crede neppure lui.
O siamo di fronte a un genio di cui non siamo in grado di capire le mosse, il che è possibile; oppure Berlusconi è davvero in difficoltà, più di quanto abbia immaginato al momento di decidere il proprio ritorno. Cioè quando sapeva che la partita sarebbe stata difficile (i sondaggi non sono mai stati buoni) ma non prevedeva di sbattere contro le porte che la Lega, il vecchio alleato, gli ha chiuso in faccia. Abituato a trattare con l’amico Bossi – con il quale a un accordo, alla fine, si arrivava sempre – il Cavaliere dev’essere rimasto di sale quando s’è sentito dire da Maroni che l’alleanza Pdl-Lega può anche andar bene, ma a patto che lui si tolga di mezzo.
Così stando le cose – con l’Europa contro, con il Pdl sfasciato, con la Lega che lo abbandona – gli ultimi alleati del Cavaliere sembrano rimasti i suoi nemici storici, gli «antiberlusconiani» in servizio effettivo e permanente. Di assist, non mancheranno di offrirgliene.
Il primo sarà l’enfatizzazione del fronte internazionale pro-Monti. Un fronte che ha le sue sacrosante ragioni. Ma anche l’indelicatezza di non capire che basta poco per far rinascere negli italiani, di solito fieramente anti-italiani, l’orgoglio di sentirsi italiani. Se l’ipotesi di un Monti candidato di tutti i moderati Lega compresa svanirà (e svanirà), Berlusconi avrà buon gioco nel gridare alle indebite pressioni, al tentativo di colonizzarci, alle speculazioni dei mercati manovrati dai poteri forti internazionali, che non si sa chi siano ma proprio per questo come «nemico» funzionano sempre.
Il secondo assist glielo stanno già offrendo gli intellettuali, i comici e i giornalisti eccetera che hanno ripreso la battaglia con le armi dei bei tempi che furono, i quali poi furono bei tempi per Berlusconi perché certe campagne finirono per l’ottenere l’effetto opposto. Sono, costoro, in azione sia all’estero che in Patria, e negli ultimi giorni li abbiamo visti confezionare prime pagine con Berlusconi trasformato in mummia o, più gentilmente, che riemerge da un water; li abbiamo letti nei loro articoli sul Cerone di Natale o sul Cainano, li abbiamo sentiti alla Rai mentre invitavano a togliersi dal c. Anche qui, il Cavaliere non faticherà a dimostrare di quanta faziosità sia capace «una certa sinistra»; di quanto odio sia fatto oggetto «la sua persona». E si fregherà le mani.
Il primo ad avvertire questo rischio è proprio Bersani, che infatti ieri ha detto che non farà una campagna elettorale ad personam, avendo capito che il Berlusconi di oggi, a perdere, provvede da solo. Perché il Berlusconi di oggi non è più quello del 1994, anche se molti suoi avversari sono rimasti, un po’ pateticamente, quelli di allora.
La Stampa 14.12.12

“Bersani: saremo noi a garantire l’Europa” di Maria Zegarelli

L’Europa che guarda con preoccupazione all’Italia, al ritorno – ma anche no – di Silvio Berlusconi chiede a Mario Monti di candidarsi di nuovo alla guida del Paese. Come se oltre il Professore non possa che esserci il Professore. Pier Luigi Bersani non sottovaluta l’allarme attorno al nostro Paese ma non ci sta a che l’immagine che passi sia quella di una politica inaffidabile e arida e di un centrosinistra prigioniero del suo passato e del fantasma dell’Unione. Prima «non c’era il Pd e c’erano dodici partiti» nella coalizione. Oggi è tutta un’altra storia. Per questo convoca una conferenza stampa nella sede della Stampa estera per incontrare i giornalisti di tutto il mondo insieme a Lapo Pistelli.
Quando arrivano le domande sulle differenze che ci sono con Nichi Vendola e Sel, il candidato premier sa bene dove si vuole andare a parare. «Nichi Vendola è il governatore di una Regione», risponde che «è una forza saldamente europeista» seppur con «dei punti di dissenso» e quindi un valido alleato «sul tema ambientale e dei diritti». Ma, soprattutto, il Pd, «prodotto di diverse culture», è un partito oltre il 30%, dunque ognuno tiri le somme.
Dimostrare che esiste un partito, il Pd, forte, «europeista», progressista e impegnato «sulle riforme avviate dal governo Monti». Un partito e una coalizione in grado di vincere le elezioni ed avere una maggioranza «numerica e politica» solida alla Camera e al Senato». Questa è la mission del capo della coalizione. Bersani non crede al qua- dro politico incerto e confuso la sera delle elezioni di febbraio, è così sicuro che «non ci sarà frammentazione» da azzardare: «Prendete nota di questo pronostico».
È un Bersani deciso, anche duro quando rimanda nel recinto delle politica spettacolo le ultime performance di Berlusconi. «Non vincerà: perderà le elezioni», risponde ad un giornalista che gli chiede se anche lui sarebbe disposto, come l’ex premier, a fare un passo indietro per la presidenza del Consiglio a Monti.
A fare un passo indietro non ci pensa proprio, né crede che Berlusconi ne possa fare molti nei sondaggi: «Sono esterrefatto dalle sue giravolte, cerca di salvarsi mettendosi al centro della scena con il fatto poi che i problemi veri finiscono in diciassettesima pagina. Ma badate, Berlusconi non è una barzelletta». Le sue posizioni, spiega, assumono sempre più toni populisti, antieuropeisti, per questo, annuncia, «noi da oggi non ci occuperemo più di lui, di Berlusconi sì e Berlusconi no. A questo punto gli italiani sono in grado di decidere». Bersani assicura sulla stabilità della coalizione con Sel e Psi, ribadisce l’intenzione, dopo il voto, di parlare ai moderati, alle forze «del centro eurpeiste e costituzionali», certo non può «giurare» sull’esito dell’operazione, ma non sarà certo il Pd a chiudere la porta. Sullo sfondo la possibile scesa in campo dell’attuale premier ed è quello il tasto che più volte viene premuto. Bersani si sbilancia rispetto a qualche giorno fa. Come spiega anche in un’intervista a Die Welt, Monti «dovrebbe tenersi fuori dalla competizione elettorale, ma se decidesse di candidarsi rispetteremo la sua scelta e segnaleremo la nostra volontà di candidarsi». Ieri in conferenza stampa è stato più esplicito: «Se vinco io il primo incontro ufficiale lo faccio con Monti per ragionare assieme perché deve continuare ad avere un ruolo nel nostro Paese». E di sicuro, dicono i collaboratori del premier, se il professore decidesse di scendere in campo, non lo farebbe mai con Pdl e Lega e di certo non contro il Pd.
Se l’Europa teme che possa inter- rompersi il percorso riformatore, il segretario Pd replica «che rigore e credibilità del governo Monti sono per noi un punto di non ritorno», anzi per quanto lo riguarda si aspetta «in pro- spettiva un’agenda con più riforme e quando mi è capitato le ho fatte. Non pensiamo di governare venendo meno a dei vincoli o essendo pigri sul cambiamento».
Pone una domanda retorica lui. Ma se ci sono dubbi sul centrosinistra, co c’è rispetto all’altra metà del campo, semmai ce ne fosse una? Se non ci fosse il centrosinistra, commenta, in Europa dovrebbero venirlo a cercare. Difende il suo partito, «esperimento inedito» che ormai esperimento non è più, primo partito ovunque, una «delle più grandi forze progressiste europee», fusione «di culture progressiste con una matrice «socialista, una cattolica, una liberale, una ambientale», nuova forma di partito da esportare all’estero superando i vecchi schemi dell’800 e dando vita ad un «netwark» di partiti progressisti, iniziando da una piattaforma comune, quella sovranità «che riguarda il controllo democratico dei grandi processi della finanza ambientali, delle migrazioni». Un partito tanto ostinato nel suo cammino che «testardamente» continua a «rinunciare alle vacanze estive, invernali… di qualsiasi forma, perché la democrazia è una spada che non ha fodero». E allora si fanno gli incontri internazionali e intanto le primarie, perché «il Porcellum non lo volevamo, il centrodestra ha boicottato la riforma elettorale» e quindi i parlamentari il Pd li fa scegliere ai suoi elettori. Se ha convinto la stampa estera lo leggeremo oggi.
L’Unità 14.12.12

“Il cavaliere alieno”, di Massimo Giannini

Colpisce, ma non stupisce, il “processo” pubblico istruito dal Partito popolare europeo nei confronti di Berlusconi. Anche se il Cavaliere lo ignora, quella è idealmente la «casa» di Konrad Adenauer e Helmut Kohl. Di Alcide De Gasperi e di Aldo Moro. Non basta definirsi banalmente «moderati» in un salotto televisivo, o proclamarsi genericamente «europeisti» in una conferenza stampa, per essere riconosciuti come inquilini degni di abitarla, nel solco della tradizione del cattolicesimo liberal-democratico e del “canone occidentale” adottato dai padri fondatori. Reduce dalle «comiche finali» alla presentazione del libro di Vespa, il leader in disarmo di una destra italiana allo sbando ha provato a inscenare anche a Bruxelles il suo solito «show folkloristico» (secondo la formula di Die Welt). Ma come aveva mestamente fallito il giorno prima tra le mura amiche, immerso in una confusione totale che non si spiega con l´analisi psicologica ma con la paralisi politica, Berlusconi ha clamorosamente fallito anche nella trasferta belga. Convinto di riconquistare il Ppe con la sua trita «narrazione» populista e anti-comunista, il Cavaliere ha finito per trasferire la sua disperata impotenza dal teatrino italiano al proscenio europeo. L´effetto è più fragoroso, e per molti versi anche più penoso. Da Martens a Juncker, da Verofstadt a Daul, fino ad arrivare alla cancelliera Angela Merkel: ad eccezione del primo ministro ungherese Viktor Orban (e già questo deve far riflettere) nessuno ha fatto sconti al padre-padrone del Pdl. Perché nessuno, neanche tra i leader cristiano-democratici del Vecchio Continente, dimentica cos´è stato il berlusconismo in questi anni. Tutti hanno imparato a conoscere la miscela di cesarismo autocratico e di nazionalismo autarchico che ha reso e rende tuttora il Cavaliere un «corpo estraneo» per le destre conservatrici di tutta Europa. E questo senso di straniamento politico, e di isolamento fisico, è risultato ieri ancora più plastico. La presenza inedita e imprevista di Mario Monti, nella sala gremita dell´Accademia reale, ha trasfigurato Berlusconi in un «alieno». Un corpo totalmente estraneo dalla cultura del popolarismo europeo.
Non era mai accaduto che un premier, non iscritto, fosse invitato a partecipare a un´assemblea del Ppe. E la motivazione dell´invito («capire la situazione italiana alla vigilia del voto») è già di per sé eloquente. I popolari europei non si fidano della rappresentazione farisaica del Cavaliere, ma vogliono ascoltare la versione autentica del Professore. E così è stato. Monti, anche a costo di intaccare la sua cifra incontaminata di «tecnico», ha incassato assai più del plauso personale per un ex commissario cui l´Europa deve moltissimo. Ha ottenuto un endorsement politico, esplicito e perfino imbarazzante, da tutto il Ppe che lo vedrebbe volentieri candidato alle elezioni. E poi di nuovo presidente del Consiglio di un´Italia che, dopo la rovinosa parentesi berlusconiana, ha ancora tanto da fare e da farsi perdonare.
Siamo ai limiti dell´ingerenza. Ma anche questo, in fondo, è un effetto dell´anomalia berlusconiana di questi anni. Un´anomalia che spinge lo stesso Monti a giocare una partita strana, e in un ruolo a tratti ambiguo. Al momento non ha giacchette da farsi tirare. Non appartiene ai popolari europei, e in passato ha partecipato anche alle assemblee dei socialisti europei. Il Paese che lui rappresenta è irriducibilmente diverso dall´Italietta berlusconiana. Ma è naturale che il Ppe guardi al Professore come a quell´autentico «moderato europeo» che il Cavaliere non è mai stato e non sarà mai.
Berlusconi lo ha capito e lo capisce. Non a caso l´arrivo di Monti a Bruxelles lo ha spiazzato e indispettito. Ha cercato di rimediare, rilanciando la sua Opa, ostile e bugiarda, sul premier: «Mi faccio da parte se fai tu il candidato a Palazzo Chigi, in nome e per conto di noi “moderati”, in un rassemblement che tiene insieme tutti, dal Pdl a Italia Futura, dall´Udc alla Lega». E quest´Opa posticcia ha provato persino a «venderla» ai popolari europei, con l´abituale cinismo del baro: «Vi piace Monti? Ebbene, sono io che ve lo porto in dote, imbarcandolo nel mio caravanserraglio e candidandolo alla premiership».
Non poteva e non può funzionare. Il demiurgo di Arcore è abituato a plasmare fantocci, nel laboratorio di Palazzo Grazioli e del Pdl. Ma Monti è un´altra cosa. Nessuno sa ancora bene che cosa, perché il Professore non ha ancora sciolto la sua riserva e farà bene a scioglierla al più presto. Ma di certo non è e non sarà mai l´utile idiota di Berlusconi, né il suo alleato-candidato in un guazzabuglio di centrodestra che non ha nessun senso logico e politico. E poi c´è un limite a tutto. Se non all´incoerenza, almeno all´indecenza: non si può sfiduciare il governo Monti in aula, imputandogli la rovina economica di quest´ultimo anno, e poi prendere il premier appena silurato a modello, offrendogli addirittura una ricandidatura.
L´Offerta pubblica di acquisto del Cavaliere è un patetico diversivo. È un puro espediente. Serve solo a prendere tempo, anche se nessuno sa in attesa di che cosa. Serve solo a nascondere il vuoto, di idee, di programmi, di futuro. La sesta ri-discesa in campo è un ponte sospeso nell´abisso. Berlusconi è lì, piantato. Non può muovere un passo, perché ogni passo può risultargli fatale. I sondaggi lo danno già irrimediabilmente sconfitto. Il suo partito va in pezzi. Lui non attrae né coalizza più nessuno. Ha un disperato bisogno di una via di fuga, ma non la trova. Deve stare in campo, per difendere la sua fedina penale e il suo impero mediatico. Ma non sa in che ruolo, né con chi. Per questo dice tutto e il contrario di tutto.
I suoi cantori, adesso, lo chiamano «caos organizzato». Ma di «organizzato», stavolta, non c´è più nulla. L´Invincibile Armata che sembra balenare nella testa del Cavaliere, come arma estrema per battere il centrosinistra di Bersani, pare solo l´ultima, e per niente lucida follia di un uomo confuso.
La Repubblica 14.12.12