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“La scuola di classe”, di Francesco Erbani

Sono soldi veri gli 8 miliardi e 400 milioni dolorosamente tolti alla scuola. Marco Rossi-Doria, maestro di strada, che nei vicoli di Napoli raccoglieva ragazzini e li aiutava nei compiti e anche a riparare i motorini, bastava che non rubassero o spacciassero, poi è stato in America, in Africa e in Francia, sempre studiando formule di scuola che accoglie tutti, ma che fossero praticabili, è ancora per qualche giorno sottosegretario all’Istruzione. Scorre i dati da una tabella: «Sa cosa vuol dire? Vuol dire che nella spesa corrente destinata dalla Repubblica italiana a università, ricerca e istruzione ci saranno per sempre 8 miliardi e 400 milioni di meno. Il precedente governo ha pensato, in qualche modo strano, che la scuola dovesse finanziare il paese».
Era logico il contrario o no? «
Non sappiamo dove siano finiti, quei soldi»
Forse hanno compensato l’abolizione dell’Ici?
«Potrebbe darsi. So per certo che un paese, il nostro, il quale su ricerca e università era molto giù nella lista Ocse, ma sulla scuola non tantissimo, è andato ancora più giù».
È una tendenza generalizzata?
«No. Né rispetto alle scelte macroeconomiche degli altri paesi, che invece investono: gli Stati Uniti e la Germania e poi Cina, Corea, India, Brasile. Né rispetto a tutta la letteratura sulle politiche pubbliche, anche le più moderate, che ritengono strategica la ricerca, per evidenti motivi di innovazione produttiva, e anche la scuola che alla ricerca fornisce il serbatoio dei saperi di base. Solo un paese che fa molto sport diffuso prepara tanti campioni per le olimpiadi. Obama ha nominato la scuola cinque volte nel primo discorso dopo le elezioni».
Anche la spending review del governo Monti ha tagliato soldi alla scuola: 183 milioni. «Sarebbe stato meglio non farlo ».
Monti parla di scuola come Obama?
«Monti nei documenti ufficiali parla di investimenti fondamentali in ricerca e istruzione. Draghi dice che essi sono essenziali. Poi Monti cita Draghi…».
Però Monti ha governato, non doveva solo dichiarare.
«Non abbiamo trovato la soluzione giusta. Ci siamo battuti per non subire la spending review.
Ma 183 milioni non sono 8 miliardi e 400 milioni. Fanno comunque male, perché siamo oltre i minimi tollerabili. Però se riflettiamo sulla lunga distanza, colpisce una cosa».
Che cosa?
«L’Italia poverissima, appena unificata, investiva in ferrovie e istruzione. Si costruivano i tunnel, si modernizzava l’agricoltura. E si progettava la scuola comunale, si estendeva all’intero paese la legge Casati. Giolitti intensificò queste politiche. Durante la Prinon
ma guerra mondiale si compravano cannoni e aerei, ma non si tralasciava la scuola. Persino la dittatura fascista…».
Pensa alla riforma Gentile?
«Non solo. Furono progettate le scuole rurali. Le bonifiche prevedevano soldi per l’edilizia scolastica. Dopo la guerra, ancora per decenni, la scuola fu un cardine dell’azione politica: prenda la riforma della media unificata».
Che insegnamento trae da questa ricostruzione?
«Che l’attuale stagione è in contrasto con le politiche di tutto il mondo e anche con la nostra storia. Perché siamo arrivati a
questo punto?».
Lei ha lavorato un anno come sottosegretario: che risposta si dà? Cogliamo i frutti di un pensiero sbrigativo, quello sintetizzato dallo slogan “la cultura non si mangia”? Oppure i tagli lineari sono il prodotto di una deliberata volontà di tenere ignorante una parte del paese e di lasciare zoppa la democrazia?
«Non amo le risposte secche. Si dice: hanno massacrato la scuola perché c’è la televisione, l’imbonimento diffuso. È evidente che tendenze di questo genere esistono. Ma come escludere sciatteria e pressappochismo? E poi: ha protestato la scuola, però non si sono levate grida da parte di masse di intellettuali, imprenditori, giornalisti. Tutto è stato infilato nella questione politica Berlusconi sì, Berlusconi no, senza maturare una riflessione strategica».
Classi dirigenti di varia natura insensibili a ragionare di scuola?
«Si pensa che la scuola è e sarà immutabilmente quella che ricordiamo lei ed io. C’è un insegnante che arriva in classe, fa lezione, interroga, mette il voto, dà i compiti. Tutto finisce lì».
Non è così?
«Nel mondo il menù è più ricco. In Italia una minoranza di per-
sone lo sostiene da una vita. Tullio De Mauro, per esempio. Pochi ragionano sul fatto che molto precocemente, dappertutto e con tutti bisogna consolidare conoscenze di base. E che mentre si deve difendere l’investimento, mentre si ripara l’eredità del passato, si deve innovare».
Si dice che parte della scuola resista al cambiamento. Inoltre su settori del corpo insegnante grava l’accusa di scarso impegno. Monti voleva imporre ai professori di lavorare più ore a parità di stipendio…
«Ci siamo opposti e questo provvedimento non è passato. Ma il punto è che una gran parte della scuola è già cambiata e non viene riconosciuta. È piena l’Italia di insegnanti che hanno portato i computer a scuola, che fanno esperimenti scientifici, teatro, musica, che guidano i ragazzi a visitare il proprio quartiere. Molti di essi sono precari. Poi ci sono i professori che entrano in classe e dicono leggete da pagina tot a pagina tot. I primi vanno verso il mondo, promettono ai ragazzi di farli uscire da noia e disaffezione. I secondi no. Purtroppo la classe dirigente italiana, nel suo complesso,
fa differenza fra i due modi. Sui primi si deve investire in termini culturali, organizzativi e finanziari».
E invece?
«E invece niente. Nel mondo e anche in Italia si discute su come far funzionare i gruppi docenti, come aiutarli nell’autovalutazione, ma con criteri friendly, sulla base di dati acclarati. Su come sostenere le attività innovative e anche su come incentivare economicamente gli insegnanti. Ma sono pacchetti che devono viaggiare insieme. I proclami del tipo “diamo i soldi ai più meritevoli” da soli non servono».
Mi fa qualche esempio di buone pratiche?
«In zone a rischio della Puglia sono arrivati soldi per incrementare le cosiddette competenze irrinunciabili dalla prima alla terza
media: abbiamo registrato un netto miglioramento nelle prove di valutazione Invalsi. Le scuole in Irpinia dove si sono svolti programmi musicali, allestiti cori e orchestre, dove si è fatta formazione dei docenti, lavoro con i genitori su cosa significa educare, sembrano piovute lì dalla Svezia. E invece siamo nel cuore del Mezzogiorno».
Ma che cosa è necessario perché questi modelli si diffondano?
«Soldi. E poi dirigenti scolastici che sono animatori di comunità, che sanno intercettare fondi pubblici e anche privati. Politiche di vero dialogo fra istituzioni».
Lei, il ministero, il governo che cosa siete riusciti a fare?
«Abbiamo avuto poco tempo. Io ci ho messo l’anima. Con il ministro Fabrizio Barca abbiamo trovato 100 milioni contro la dispersione scolastica nel Mezzogiorno. Abbiamo fornito le indicazioni per i programmi dalle elementari alle medie inferiori…».
E ora?
«Ora la politica riprenda in mano queste cose. Un po’ dei soldi dati via debbono rientrare. Bisogna riparare e innovare».
La Repubblica 15.12.12

“Non bastano leggi e polizia per fermare la follia del Male”, di Gianni Riotta

«Ho aperto Twitter, dice che la mamma è morta, ma continuo a sperare»: la frase della signora Hassinger, figlia di una delle vittime della strage di Newton in Connecticut, parla di morte nell’era digitale. I bambini cadono uno dopo l’altro nella loro scuola. Una delle scuole belle, ben organizzate, con il campo da baseball e da calcio che il mondo invidia agli yankee del Connecticut, sotto i colpi di un killer, Adam Lanza, che uccide la mamma, maestra, il fratello, lontano in New Jersey, e un convivente, secondo le prime notizie. E le mamme, i fratelli, poi i cronisti si tengono legati alla catena di Facebook, da cui emerge subito il volto del killer – vero o presunto che sia che importa?, basta sia un volto umano, basta ci si possa tranquillizzare che non sia un mostro, un alieno -, di Twitter, dei blog, per capire che succede, quali sono i bambini sommersi, quali i salvati.
Usciti dalle aule, gli scolari superstiti davano interviste alla tv con la freddezza dei veterani, in mezz’ora la loro infanzia, come accade ai coetanei nelle zone di guerra, è perduta, sono usciti di casa innocenti in attesa di Babbo Natale, tornano con il cuore pesante degli adulti.
Il presidente Barack Obama ha pianto in diretta, commentando la notizia, la sua voce s’è rotta, ha asciugato le lacrime: ho visto commossi tanti presidenti americani da Carter in avanti, ho scritto di Reagan e Clinton sul punto di piangere, ma non ricordo il pianto di un presidente in carica, davanti alla nazione. È un pianto di impotenza. L’uomo più potente del pianeta Terra, quello che ai tempi della Guerra Fredda si chiamava «leader del Mondo Libero», piange di dolore e di frustrazione. Sa che non basta una legge contro le armi, che pure la sua base gli chiede, per eliminare la violenza assurda che ormai è diventata stagionale, il «New York Times» informa subito che «è la settima strage più violenta», come fosse la classifica del Campionato della Morte. Nella Scandinavia felice le armi da guerra non sono popolari come in Texas, eppure Breivik ha fatto strage con ferocia che associamo all’alienazione americana.
Obama piange, come tanti cronisti alla scuola della strage, come le mamme che stringono un bambino salvato, come quelle che non celebreranno Natale e Channuca con i figli, come i tanti genitori, in America e nel mondo, che provano a spiegare a casa, «Perché Newtown? ». Il Presidente intellettuale, il Presidente che voleva governare il paese e il pianeta con idee, concetti, teorie, piange perché sa che il «Perché» di Newtown non c’è. Armi in eccesso, certo, perfino lo scrittore liberal Jonathan Franzen, nella sua intervista alla «Stampa» del 29 ottobre, invocava il II Emendamento alla Costituzione come difesa del libero porto d’armi: è un assurdo e Franzen ha torto, l’Emendamento parla di armi ai cittadini «nell’ambito di una ben regolata milizia», non in mano ai matti. Un nuovo Brady Bill contro le armi automatiche serve ma non è panacea. Follia personale del killer Lanza, che guida per miglia da Hoboken, in New Jersey, fino a Newtown in Connecticut, per uccidere dopo il fratello, la mamma maestra e i suoi scolari, forse un amico: certo. Ma leggi strettissime sulle armi, consultori psichiatrici diffusi, «le riforme» che ieri notte da internet tanti invocavano dalla Casa Bianca, basterebbero a evitare che Newtown sia solo una nuova stazione della Via Crucis delle stragi? No: e le lacrime in diretta del presidente Obama testimoniano questa frustrazione, è tra noi una violenza che non sappiamo reprimere con il diritto e la polizia, non sappiamo sradicare con la psichiatria libera che sognavano i medici ribelli Cooper e Basaglia, non riusciamo a isolare con le comunità solidali. I credenti parlano del Maligno, della lotta che oppone il Bene e la Luce al Male e al Buio nella nostra vita e nel nostro destino. I laici propongono leggi e pianificazioni, ma infine avvertono un limite oscuro, drammatico, che la razionalità del diritto non sa oltrepassare e civilizzare: il male.
Alla fine della campagna elettorale che ha vinto non senza difficoltà, Obama piange perché sente che nel nostro mondo post industriale, nell’epoca globale delle emigrazioni, dei nuovi lavori, delle identità digitali, quando il Papa teologo, Benedetto XVI sceglie Twitter per il suo apostolato e gli imam islamici più saggi dalla rete predicano pace, troppi di noi brancolano nell’isolamento, in una pazzia lucida, nella necessità di dare morte, non cercare vita, come dice la Scrittura «preferiscono le tenebre alla luce». Piange il Presidente ancora giovane che ieri sembrava invecchiato, canuto, perché non c’è ordine nel suo paese e nel mondo, e in troppi paesi, in Asia e in Africa, la brutale strage che in America o in Norvegia è ancora eccezione, è vita quotidiana. Piange perché, come tutti noi, sa di vivere in un mondo in cui perfino Twitter, il dolce, benigno, affettuoso Twitter che scandisce di notizie e sorrisi la nostra giornata può ad ogni istante ricordarci che il nostro mondo si spezza, «Ho aperto Twitter, dice che la mamma è morta». Quando la speranza va off line, le lacrime, dei Grandi e degli Umili, sono la sola risposta umana.
La Stampa 15.12.12

“Dialoghi sull’Europa” di Marco Meloni

Alla fine degli anni ’90, in contemporanea con l’accelerazione sull’integrazione monetaria europea, ferveva il dibattito sulla natura e sulle prospettive dell’Unione, che poi sarebbe sfociato nel progetto di Costituzione elaborato, tra il 2002 e il 2003, dalla Convenzione europea. Già allora si poneva con forza la questione della democrazia in Europa, della democratizzazione e delle legittimità delle istituzioni comunitarie. Due scritti del 1998 lasciarono un segno fondamentale.
Il grande giurista italiano Giuseppe Federico Mancini, al tempo giudice alla Corte di Giustizia, articolò la necessità di uno Stato europeo (“The Case for Statehood”), non come luogo astratto, ma come spazio in cui esercitare e salvaguardare la democrazia e i diritti di cittadinanza. A suo avviso, “uno Stato europeo composto da una pluralità di nazioni eppure fondato su un demos, che derivi la propria legittimità dal consenso piuttosto che da comuni origini etniche e le proprie possibilità di sopravvivenza da lealtà civiche piuttosto che ancestrali, è senz’altro concepibile”.
Gli rispose un altro grande studioso del diritto europeo, Joseph Weiler, con “Europe: The Case against the Case for Statehood”, argomentando che il nuovo ruolo storico dell’Unione Europea fosse incompatibile con la rigidità della forma-Stato, e in ogni caso difficilmente raggiungibile.
Sono solo dispute accademiche? Non credo.
È una priorità politica capire che il rapporto tra l’Europa e gli Stati nazionali non può prescindere da quella consapevolezza intellettuale e culturale che si costruisce attraverso i pilastri dell’università e della ricerca. E la stessa crisi non può essere ridotta a fattore monetario ed economico, ma va considerata con schiettezza nel rapporto tra politica e cultura. È passato più di un decennio ma, tanto dai discorsi sugli Stati Uniti d’Europa, quanto dalle accelerazioni storiche impresse dall’europeizzazione della politica, compresi i confronti elettorali nazionali, vediamo quanto sia attuale la posta in gioco di questo dibattito, che ci aiuta a pensare l’Europa non in termini astratti e lontani, ma attraverso un “diritto vivente” che si interroga sulle possibilità della democrazia.
Ho ripensato a questo dialogo quando ho appreso che il professor Weiler è stato nominato presidente dell’Istituto Universitario Europeo e inizierà il suo mandato il 1° settembre 2013. L’Istituto è l’espressione più viva dell’Europa nel nostro Paese: nato da una convenzione tra i sei Paesi membri del 1972 e dalla volontà italiana di ospitare un Istituto di Ricerca a Fiesole, è attivo dal 1976. Un meraviglioso spazio di ricerca, che rappresenta una fucina unica per la classe dirigente europea e per la capacità di ricerca dei dottorandi e dei ricercatori: il 71% dei laureati continuano la loro carriera nell’università e in centri di ricerca, il 15% nelle istituzioni europee e in altre istituzioni internazionali, mentre il 14% nel settore privato e nelle pubbliche amministrazioni nazionali. Inoltre, è uno degli esempi italiani della capacità di attirare talenti pienamente inseriti in un dibattito internazionale.
Per questo, facendo a Joseph Weiler i migliori auguri di buon lavoro, li facciamo all’Europa e all’Italia europea. Il giudice Mancini, scomparso nel 1999, non può più continuare il suo dibattito con lui, ma in questi anni decisivi possiamo trarre ispirazione da quelle riflessioni: la sfida politica dell’unità europea può essere vinta colmando la distanza tra quelle posizioni, con la costruzione di un sistema istituzionale che regga una nuova e condivisa sovranità europea, uno spazio dei diritti e della responsabilità democratica. Se progetto e realismo cammineranno finalmente insieme, questi quindici anni non saranno trascorsi invano.
da www.partitodemocratico.it

Beni culturali: Ghizzoni, legge fermata in Parlamento, Governo ratifichi Convenzione di Malta

“La scelta del PdL di porre termine alla legislatura per interessi di parte ha impedito di portare a compimento norme per l’interesse della collettività e arrestato l’iter della legge per il riconoscimento dei professionisti dei bene culturali, tra i quali gli archeologi. Ora è necessario che il Governo compia un passo decisivo per la ratifica della convenzione di Malta, firmata dall’Italia vent’anni fa, per riuscire a gestire, attraverso la pianificazione territoriale, la tutela del patrimonio archeologico. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera dei Deputati, in occasione della manifestazione, organizzata dall’Associazione Nazionale Archeologi, in corso a Roma – La proposta di legge per le modifiche al Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio in materia di professioni dei Beni Culturali era finalmente giunta all’esame della Commissione, ma, a causa della prematura chiusura delle Camere, non ci sarà il tempo per farle vedere la luce, così che permarrà il vuoto normativo. La mancanza di una regolamentazione legislativa delle professioni – spiega Ghizzoni – nega, di fatto, un riconoscimento di tutele e diritti per le lavoratrici e i lavoratori. Il Partito Democratico si impegna ad approvare, con il prossimo Governo e già dall’inizio della legislatura, un testo normativo che preveda un intervento per l’identificazione di un sistema di garanzie che sancisca la qualificazione professionale degli archeologi e degli operatori dei Beni Culturali, perché – conclude la Presidente Ghizzoni – è improcrastinabile garantire qualità e professionalità ad un settore strategico per l’Italia e patrimonio dell’umanità.”

Bersani e l’impegno del Pd: “Quote rose in Parlamento”

Il paese delle donne – spazio alle donne, a partire dal Parlamento. Lo promette il leader del Pd, Pier Luigi Bersani, in un messaggio inviato oggi alla terza conferenza regionale delle donne democratiche dell’Emilia-Romagna in corso a Bologna. “Ci stiamo cimentando nell’affermazione di una democrazia paritaria come principio ineludibile per rinnovare le istituzioni rappresentative”, scrive Bersani. “Lo stiamo facendo con gesti concreti come dimostra il nostro contributo all’approvazione definitiva alla camera della legge che introduce la doppia preferenza di genere per le elezioni nei comuni o l’impegno che metteremo nel garantire la rappresentanza femminile sia nelle imminenti primarie per la scelta dei prossimi parlamentari del pd, sia nella composizione dei gruppi della camera e del senato nella prossima legislatura”, assicura il candidato premier del centrosinistra.
“Sono convinto- aggiunge Bersani- che l’Italia possa riuscire a uscire sia dalla crisi economica più difficile del dopoguerra sia dagli affanni che riguardano la credibilità della politica e della rappresentanza democratica se punterà sulle sue migliori energie anzitutto su quello delle donne”. Non è “possibile che l’Italia sia ancora oggi l’ultimo paese in Europa per tasso di occupazione femminile; non è possibile che una donna rischi il licenziamento o di non essere assunta nel caso in cui aspetti un figlio; non è possibile che lo stato sociale sia giudicato soltanto un costo da tagliare e non una risorsa da valorizzare per lo sviluppo e per la realizzazione di maggiori libertà e opportunità per le persone”, insiste Bersani.
“Trovo anche insostenibile sul piano morale, civile e politico la piaga silenziosa ma continuativa della violenza sulle donne e del femminicidio per cui ogni due giorni una donna viene uccisa dal partner, da un parente, da un cosiddetto amico”, dice ancora Bersani. Così anche “è sempre più inaccettabile la scarsa presenza delle donne nei luoghi delle decisioni e nelle istituzioni nazionali e locali, un dato che contribuisce ad ampliare la distanza e la conseguente diffidenza dei cittadini e dell’opinione pubblica nei riguardi della politica”. Il partito democratico, conclude, “ha bisogno del contributo prezioso di ognuna di voi, di tutta la vostra intelligenza e passione per ricostruire questo paese, per cambiare l’Italia”.
da repubblica.it Bologna

“Le regole chiare che servono alla Rai”, di Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi*

Caro direttore, siamo grati alle acute osservazioni di Aldo Grasso su Sette, il magazine del Corriere della Sera di giovedì 13, che portano in luce un nervo scoperto della Rai, ossia alcune cattive prassi di interferenza da parte dei consiglieri nella gestione aziendale. La Rai ha un grande bisogno di trasparenza e rinnovamento. Vorremmo dunque chiarire alcuni equivoci per favorire tale trasparenza anche nella rappresentazione della Rai sui giornali.
Rileviamo che i riferimenti al regolamento non ne rispecchiano il contenuto. Per esempio, quanto al tema cruciale dei «contatti con i dirigenti Rai per seguire la vita dell’azienda», il nuovo regolamento del Cda riproduce l’esistente. Infatti, già si prescrive che i consiglieri, per acquisire informazioni in materia gestionale, rivolgano motivata istanza al direttore generale, che poi fornisce loro informazioni (nel nuovo, la richiesta è indirizzata anche al presidente). Perché dunque suggerire che una norma sostanzialmente invariata sarebbe alla base del nostro no? Una disciplina già esiste. Dire che bocciando il nuovo regolamento si boccia tout court una «svolta» che limiti talune cattive pratiche non corrisponde ai fatti: se problemi ci sono, questi derivano piuttosto dalla violazione di regole e codici di condotta già in essere, come nell’esempio esposto da Grasso. Il primo e più ovvio strumento per contrastarli è instaurare un diverso clima aziendale e assumere comportamenti chiari nei confronti di amministratori o dirigenti che tengano condotte scorrette. Tuttavia, esiste un tema più ampio, precedente alle discussioni sul regolamento, che attiene al modo in cui si esplica il diritto-dovere dei consiglieri a essere informati e rimanda alle previsioni del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (d.lgs. 31/7/2005 n. 177, e alla «Legge Gasparri» da cui discende), in particolare all’art. 49, che è stato oggetto di approfondimenti con la richiesta di pareri pro veritate. Nel Cda ci sono notevoli divergenze riguardo all’interpretazione del T.u. Per evitare che i consiglieri siano il «terminale della lottizzazione», come scrive Grasso, per parte nostra crediamo che bisognerebbe ragionare sugli effetti che la normativa in vigore ha sulla vita della Rai (come abbiamo già evidenziato in un comunicato del 16 novembre 2012), in modo che non siano lasciati spazi a comportamenti funzionali alle interferenze della politica e di altri interessi. Il tema meriterebbe ampia e pubblica riflessione.
Nell’articolo, sulla base di tali equivoci, viene attribuito al no che abbiamo espresso al regolamento una valenza diversa da quella reale. Il voto contrario non era diretto a difendere la praticabilità di pessimi comportamenti giustamente stigmatizzati da Grasso, bensì a sottolineare l’esigenza di ulteriori riflessioni circa gli strumenti più adeguati a contrastare «cattive abitudini» e situazioni di fatto che a nostro parere ostacolano anche fluidità e linearità dei lavori consiliari. L’abbiamo ampiamente motivato in Cda e con i vertici, come richiede il nostro ruolo. L’articolo di ieri ci induce a spiegarlo pubblicamente. Per inciso, questo illustra come il consigliere che si attiene alla riservatezza già prescritta dal regolamento e in generale consona al ruolo nei rapporti con la stampa può essere frainteso e ne discende una rappresentazione parziale dei problemi in discussione.
La presidente e il direttore generale in Commissione di vigilanza hanno sottolineato la necessità di evitare ingerenze indebite e pressioni dei consiglieri su dirigenti, giornalisti e personale Rai. Si tratta di un doppio richiamo: ai consiglieri, di non abusare del proprio ruolo; al personale, di non subire condizionamenti politici o di altra natura, contrari alle norme del codice etico, alla correttezza, all’interesse del servizio pubblico. Condividiamo senza riserve questo doppio richiamo, ma osserviamo che il problema non sta nel regolamento, ma nelle prassi consolidate e, semmai, a monte, nella legge Gasparri.
*Consiglieri d’amministrazione Rai
Il Corriere della Sera 15.12.12

“Le colpe di un debito da duemila miliardi”, di Massimo Riva

La cattiva notizia, purtroppo, era attesa. Ma ciò non la rende meno indigesta: a fine ottobre il debito pubblico ha superato la soglia dei 2mila miliardi per collocarsi a quota 2.014. Un record storico che spazza via ogni illusione di luci più o meno visibili in fondo al tunnel della crisi. Il cammino verso il riequilibrio dei nostri conti pubblici resta ancora lungo e impervio. Certo, ai più vigorosi aumenti del debito si era assistito, mese dopo mese, già nel corso dell’ultima e più recente gestione governativa del poco raccomandabile duo Berlusconi – Tremonti. Ma è un fatto che il dato comunicato ieri dalla Banca d’Italia fotografa la situazione dopo undici mesi di governo Monti nel pieno di una terapia d’austerità quale il paese non aveva mai conosciuto nella sua vita repubblicana.
Ciò induce, innanzi tutto, a due principali considerazioni. La prima è che, quando il governo dei tecnici ha preso in mano la gestione della cosa pubblica a fine 2011, lo stato dei conti era anche più drammatico di quanto si potesse pensare. Questa continua scalata del debito fa capire che nel bilancio pubblico sono presenti meccanismi, in tutto o in parte automatici, tali da imporre una deriva prepotente verso la bancarotta. La seconda e conseguente considerazione è che la pur massiccia raffica di decreti del governo Monti ha magari indebolito questa deriva, ne ha frenato la forza, ma non ne ha debellato la spinta.
Insomma, si è fatto quel che si doveva fare – o, meglio, non si poteva non fare – per scongiurare la corsa verso l’abisso. Sotto la pressione della straordinaria emergenza contabile si è fatto ricorso, come primo e immediato intervento, alla più classica delle manovre a presa rapida. Ovvero si è messa in campo una serie di aumenti di imposte – dall’Iva portata al 21 per cento fino all’anticipo dell’introduzione dell’Imu – per garantire all’Erario le risorse necessarie a sostenere i suoi obblighi primari, a cominciare dal regolare pagamento degli stipendi del pubblico impiego. Non altrettanto tempestivamente, però, si è provveduto a operare contro quegli automatismi nascosti nel mare grande
della spesa pubblica che da decenni stanno rendendo persa in partenza la rincorsa delle maggiori entrate alla sempre crescente dinamica delle uscite. Per carità, si è anche nominato un commissario straordinario alla cosiddetta spending review.
Ma dopo mesi di salassi fiscali indifferenziati e ben sapendo che un’opera di tal fatta potrà comunque dare risultati significativi soltanto in progresso di tempo e all’inesorabile condizione di colpire i veri centri di resistenza sul fronte della spesa che si annidano soprattutto ai vertici della burocrazia ministeriale, regionale, municipale.
Il risultato è quello di essere caduti anche in questa circostanza nella ben nota politica del prima aumentare le entrate e poi tagliare le uscite che ha sempre prodotto frutti avvelenati.
Purtroppo, non c’è davvero ragione per stupirsi se, lungo questa strada, il debito pubblico – pur con una velocità minore di quella del recente passato – sta continuando la sua corsa al rialzo.
Né è oggi rassicurante che si continui a confermare per fine 2013 l’arrivo al prestigioso traguardo del pareggio di bilancio. La mano fiscale pesante, indispensabile nella prima ora, non è stata compensata in alcun modo con misure di rilancio della domanda anche soltanto in termini di effettive (e non onerose) liberalizzazioni sui mercati. Cosicché i consumi, già deboli, sono in costante calo e fanno presagire un corto circuito anche nella politica fiscale. Sotto la pressione delle maggiori imposte lo Stato sta incassando di più, ma fino a quando? La crisi della domanda interna e le difficoltà dell’export allungano ombre minacciose anche su questo versante. Naturalmente, a nessuno è dato pensare che uscire da questa trappola sia impresa agevole e rapida. Ma forse un governo che ha trovato una «paccata» di miliardi da prestare a una banca nei guai poteva magari immaginare di fare qualcosa di più utile per tutti con quei soldi.
La Repubblica 15.12.12