E pensare che fino a cinque anni fa il grande salto sembrava fatto. L’ultima fotografia globale scattata sugli alunni di dieci anni ci dice invece che le capacità di lettura dei bambini italiani sono retrocesse al livello del 2001. Sia subito chiaro: comunque un buon livello, visto che il nostro Paese occupa un dignitoso 18° posto nella classifica mondiale su 45 nazioni, ma sicuramente negativo se rapportato al trend e alle competenze a cui ci avevano abituato le alunne di sesso femminile: sono state infatti le bambine, storicamente e universalmente più brave nella lettura, a peggiorare. Portando la forbice tra i due sessi a livelli minimi: tre punti appena separano le bambine dai maschietti. Un dato che pone l’Italia al 2° posto dopo la Colombia, mentre la differenza media internazionale è di 17 punti.
La classifica Pirls è stata realizzata dall’Iea, l’associazione internazionale per la valutazione del rendimento scolastico. L’Italia ha riportato un punteggio medio in lettura di 541 punti, lo stesso del 2001, mentre nel 2006 di 551: in cinque anni si sono bruciati dieci punti. Le bambine ne hanno persi due rispetto al 2001 ma addirittura 12 rispetto al 2006. I maschietti, invece, sullo stesso periodo ne hanno persi otto ma sul decennio ne hanno guadagnati tre (nel Centro Italia sono risultati più bravi). Tutto questo mentre Paesi come gli Usa hanno guadagnato complessivamente 14 punti, Hong Kong e Singapore una quarantina.
E dunque: cosa è successo ai nostri alunni di quarta, classe in cui i bambini passano dall’imparare a leggere al leggere per imparare? E soprattutto cosa è successo alle bambine da sempre — per ragioni forse culturali, qualcuno tira in ballo anche la genetica — più brave nella lettura narrativa? Roberto Ricci, responsabile dell’area prove dell’Invalsi (il nostro sistema di valutazione) mette in fila le ipotesi che saranno approfondite con indagini nazionali. La prima, l’introduzione nelle prove di testi diversi da quelli tradizionali narrativi: «Testi informativi, da quelli giornalistici a quelli iconici». La seconda, il cosiddetto singhiozzo statistico: «Cinque anni in cui si sono avuti bambini ma soprattutto bambine meno bravi». La terza, una diversa predisposizione delle nuove generazioni: «Più sensibili a testi diversi da quelli letterari: Internet, tv, giochi di ruolo… Generazioni di nativi digitali che, alle prese con testi tradizionali e non, hanno però gli stessi problemi di comprensione». La quarta ipotesi, la più allarmante, un appiattimento verso il basso delle competenze: «Un arretramento, insomma, delle categorie migliori. La nostra scuola si è concentrata sulla popolazione scolastica più debole, ed è positivo. Lo svantaggio è che questo ha forse portato a un appiattimento verso il basso trasformando in un falso successo la riduzione del divario tra i sessi». I dati sembrano confermarlo: ben l’85% degli studenti dimostra un livello intermedio, ma solo il 10% avanzato (a fronte di un 24% di Singapore). «La scuola deve puntare quindi su una molteplicità di testi e trovare il modo di trasformare le nozioni in competenze».
Anche Mauro Palumbo, sociologo che si occupa di sistemi educativi, legge nei numeri Pirls quell’«appiattimento verso il basso che già affligge la scuola media». Poi fornisce altri due spunti di riflessione: «La presenza sempre più alta di studenti stranieri che non parlavano l’italiano prima di iniziare la scuola». Il 6% tra quelli che hanno preso parte all’indagine (rispetto a un 2% della Francia, a un 3 della Germania). «Quindi una correlazione tra competenze dei bambini e numero di libri che hanno in casa». L’influenza maggiore che subiscono è quella dell’ambiente culturale in cui vivono. E quello nostrano non aiuta visto che i dati Aie ci dicono che i lettori italiani sono il 45,3%, i francesi il 70 e i tedeschi l’82.
La scrittrice Chiara Gamberale non concorda: «In casa mia, con mamma ragioniere e papà ingegnere, i libri li ho portati io. Eppure…». Punta quindi il dito su quella che definisce la «sciatteria» del nostro linguaggio: «Veloce, povero, senza grammatica. Senza storie. I grandi lo parlano e i piccoli, le piccole più sveglie ancora di più, li copiano salvo poi arrancare davanti a una pagina ben scritta. Se fossi nata solo cinque anni dopo forse non sarei quella che sono: per leggere bene ci vuole concentrazione e lentezza».
Il Corriere della Sera 16.12.12
Latest Posts
“Non passa la vendita dei beni mafiosi”, di Jolanda Buffalini
«Non si può abbattere l’emblema dell’antimafia senza una ponderazione adeguata dell’importanza del provvedimento, senza approfondire con la magistratura inquirente, con le associazioni e i sindacati che si sono fatti carico in prima persona della gestione dei beni confiscati alla mafia», Silvia Della Monica, capogruppo Pd al Senato in commissione giustizia, è soddisfatta del lavoro notturno che ha portato alla approvazione degli emendamenti del Pd a quello del governo sui beni sequestrati e confiscati alle mafie. La materia, complicata e importante perché mira, restituendo ai cittadini i proventi di attività illegali, a dimostrare la forza dello Stato, ha bisogno di riforme ma, dice la senatrice, «devono e essere condivise e non inquinate da polemiche, mentre il provvedimento sembrava dominato dall’idea di battere cassa». Quando giovedì si è diffusa la notizia che un emendamento del ministro Cancellieri alla legge di stabilità introduceva la possibilità di vendere i beni mobili e immobili «se questi non possono essere amministrati senza pericolo di deterioramento o senza rilevante dispendio», nei sindacati e nelle associazioni è scattato l’allarme. La questione della vendita dei beni è oggetto da mesi di una discussione serrata ma, quello del governo, è apparso come «un inspiegabile colpo di mano» a Serena Sorrentino, segretario confederale Cgil, Walter Schiavella (Fillea), Stefania Croggi (Flai) e «va ritirato». È partita una lettera al ministro Annamaria Cancellieri firmata da Acli, Arci, Avviso Pubblico, Centro Studi Pio La Torre, Cgil, Legacoop, Libera nella quale ci si richiama all’impegno preso dal ministro su un percorso di «ascolto e dialogo». Al Senato Silvia Della Monica aveva già presentato al mattino un emendamento che raccoglie le linee elaborate dalla Cgil insieme a Pierluigi Vigna. «Per il sindacato spiega Salvatore Lo Balbo della Fillea Cgil un’azienda affidata all’Agenzia è un’azienda come le altre, va gestita bene, soprattutto se è sana, con un piano industriale e con la salvaguardia del lavoro. Solo così si fa un servizio alla società». Fa l’esempio della immobiliare Strasburgo, un’azienda«leader nella compravendita immobiliare di cui l’Agenzia si vuole liberare, senza considerazione delle prospettive dei lavoratori». L’emendamento è stato ritirato, «la materia è complessa», dice Silvia Della Monica, ma esprime la «posizione del Pd per la prossima legislatura». Intanto il governo, i ministri dell’Economia, dell’Interno e della Giustizia, hanno accolto gli emendamenti presentati dal Pd al testo del governo. L’urgenza del provvedimento, tanto da inserirlo nella legge di stabilità, è stata determinata dal rischio che al 31 dicembre l’Agenzia si trovasse nell’impossibilità di lavorare. C’era il parere negativo dell’Economia alla possibilità per l’Agenzia di «avvalersi del personale di altre amministrazioni dello Stato e di stipulare contratti a tempo determinato». A quel punto il ministro Cancellieri ha presentato l’emendamento con l’ok alla vendita dei beni sequestrati e confiscati, con la sola limitazione del divieto di vendere ai parenti dei mafiosi. A quel punto è partito il lavoro di correzione del testo del governo, che ha dato uno stop alla vendita dei beni immobili, messo dei paletti sulla vendita dei beni mobili durante il sequestro, dato più risorse umane all’Agenzia, corretto la struttura dirigente dell’Agenzia. Nel testo del governo c’era una novità positiva (l’ingresso di due manager) ed una negativa, l’esclusione di un rappresentante del ministero della Giustizia sostituito da un prefetto. È stata ripristinata la presenza del ministero della Giustizia. È stata anche modificata la durata dei sequestri, inserendo cause di sospensione
L’Unità 16.12.12
“La scuola sempre più povera. meno attività, sindacati divisi”, di Salvo Intravaia
Scuola sempre più povera. A partire da quest’anno scolastico gli istituti italiani riceveranno dal ministero dell’Istruzione meno finanziamenti per tutte le attività a carico del fondo d’istituto: attività sportive, funzioni strumentali, progetti pomeridiani e scuole in aree a rischio. E’ tutto, nero su bianco, nell’intesa sugli scatti stipendiali sottoscritta qualche giorno fa dai sindacati con l’Aran, l’Agenzia che negozia i contratti dei dipendenti pubblici per conto del governo. E l’unità sindacale faticosamente ritrovata dopo anni si è nuovamente incrinata. Da un lato la Flc Cgil che non ha sottoscritto l’accordo sugli scatti e dall’altro lato tutti gli altri sindacati: Cisl e Uil scuola, Snals e Gilda.
E se, a cominciare dall’anno 2012-2013, le scuole vorranno mantenere lo stesso livello di offerta formativa del passato potranno seguire soltanto due strade: chiedere più risorse ai genitori oppure cercare sponsor che facciano arrivare nelle casse dello Stato risorse fresche. I fondi “sottratti” alle scuole sono serviti a pagare gli scatti stipendiali, previsti dal contratto del personale scolastico (docenti e Ata), che due anni fa il governo Berlusconi aveva bloccato fino al 2012. Per la Flc Cgil è “ancora una brutta pagina sulla scuola”. “L’ipotesi di accordo sul ripristino degli scatti di anzianità – dichiara Mimmo Pantaleo – è una beffa a danno dei lavoratori e un ulteriore taglio alle risorse della scuola pubblica”.
“Gli effetti – prosegue Pantaleo – saranno pesantissimi per tutti ma soprattutto per la scuola dell’infanzia, primaria e media”. Ma l’accordo, secondo la Cgil, “divide ancora i lavoratori: i precari che non hanno diritto agli scatti, buona parte del personale a tempo indeterminato che matura gli scatti nei prossimi anni ai quali non viene data alcuna garanzia e coloro che per effetto dei tagli non avranno la garanzia del pagamento del lavoro già svolto”. E per finire “l’accordo pretende che le risorse prese dal fondo per il miglioramento dell’offerta formativa vengano recuperate in termini di produttività nel rinnovo dei contratto: vale a dire maggior lavoro a parità di retribuzione”.
Ma la Cisl scuola la vede in maniera diametralmente opposta. “L’accordo – replica Francesco Scrima della Cisl scuola – chiude in modo positivo una vicenda che si è trascinata già troppo a lungo e su cui era molto forte l’attesa dei lavoratori. Chi non ha ritenuto di firmare l’accordo definisce “baratto indecente” l’intesa. Di indecente, in questa vicenda, c’è solo il comportamento di chi, incapace di indicare soluzioni diverse, ha cercato fino all’ultimo di ostacolare la chiusura della trattativa, nonostante fosse molto rischioso, in questa situazione economica e politica, perdere altro tempo. Alla faccia dei lavoratori, i cui interessi evidentemente avrebbero potuto attendere”.
Anche Uil scuola, Snals e Gilda sono contenti della trattativa. “Senza minare la qualità dell’offerta formativa – spiega Massimo Di Manna, della Uil scuola – e la sostanza del fondo di istituto si riconosce l’anno 2011 ai fini della anzianità e si garantisce il pagamento con tutti gli arretrati per chi ha maturato lo scatto al 31 dicembre 2011”. “Sono tempi molto difficili – aggiunge Rino Di Meglio della Gilda – e non è stato facile portare a casa questo risultato. Il fatto oggettivo che nel fondo del Migliormaento dell’offerta formativa (Mof) restino risorse per circa un miliardo di euro dovrebbe mettere la parola fine a polemiche strumentali e a informazioni non corrette”.
Ma quanto arriverà nelle casse delle scuole per le diverse attività? Il Fondo d’istituto – con il quale si pagano una miriade di attività, dai progetti alle retribuzioni extra al personale – verrà decurtato del 24 per cento nel 2012 e del 27 per cento nel 2013. Le risorse per l’attività sportiva alle medie e alle superiori, le Funzioni strumentali per l’attuazione del Piano dell’offerta formativa (Pof) e gli incarichi specifici al personale Ata si assottiglieranno, nel 2013, del 26 per cento. E verrà ridotta di un quarto anche la dotazione finanziaria per le scuole che mettono in campo attività volte al recupero della dispersione scolastica.
La Repubblica.it
“Oltre il governo Monti”, di Claudio Sardo
L’Italia ha bisogno vitale di cambiare passo. Di aprire una nuova stagione di sviluppo e per fare questo di ridurre le disuguaglianze sociali, di abbattere le barriere corporative e i privilegi delle oligarchie, di spostare risorse dalla rendita al lavoro, di puntare sulla scuola, la ricerca e l’innovazione, di ricostruire una solidità istituzionale e politica dopo le torsioni della seconda Repubblica.
Il governo di Mario Monti ha salvato l’Italia dal baratro in cui l’aveva sospinta il populismo e l’antipolitica di Berlusconi. I meriti del premier vanno condivisi anzitutto con il Capo dello Stato, e in misura non marginale con quelle forze di opposizione al Cavaliere che hanno posto l’interesse nazionale davanti a quello di parte. I meriti del premier non sono neppure disgiunti da errori e da forti iniquità nelle successive manovre finanziarie.
Tuttavia è chiaro che Monti ha conquistato un credito presso gli italiani. La sua visione politica – ispirata a valori liberali e a culture distanti dalle sinistre cattoliche e socialiste – non gli ha impedito di cercare, nella difficile transizione, un terreno comune di ricostruzione nazionale. E il terreno europeo è stato certamente quello più propizio per rilanciare l’immagine dell’Italia, sfregiata dai governi Berlusconi. Doveva evitare il default e ha agito sul bilancio nei limiti imposti dall’esterno. È la sostanza dell’Agenda Monti, della quale tutti dovranno tener conto (anche i più critici) ma che tutti dovranno necessariamente superare (anche i più ossequiosi). L’obiettivo di un governo di transizione è pur sempre giungere alla meta. Altrimenti fallisce. Nella traversata la ferita più grave è stata quella degli esodati, «cancellati» da un taglio lineare. La riforma più inutile quella del mercato del lavoro, oggi bocciata da tutte le rappresentanze sociali. L’atto forse più forte in termini di recupero di un ruolo internazionale è stato il voto all’Onu a favore dello Stato palestinese: finalmente il ritorno alla storica politica estera del nostro Paese.
Ora Monti deve scegliere cosa fare per le elezioni. Ovviamente è una scelta che attiene anzitutto alla sua libertà. Ma ha già compiuto un atto politico – peraltro di grande forza – che condiziona i passi successivi. Con le dimissioni annunciate, ha scavato un fossato tra la sua politica e quella di Berlusconi e del Pdl. Ha detto, nei fatti, che un’area moderata, liberale, europeista può costituirsi in Italia solo rompendo inequivocabilmente con la demagogia della destra.
Da quel Ppe – che tiene insieme l’austera ortodossia della Merkel, gli europeisti moderati alla Juncker, il populismo di destra alla Orban – è arrivato un invito a Monti affinché si candidi in alternativa a Bersani. Per quante diversità ci siano nel centrodetra europeo, tutti i leader sono accomunati dal comprensibile desiderio di non rivedere più Berlusconi al loro tavolo. Comunque, c’è differenza tra essere capo di un centro che segna un confine invalicabile dal Pdl e un centrodestra indefinito, dove possano approdare, magari travestiti, i vecchi arnesi della destra berlusconiana.
Monti si è dimesso contro la scelta di Berlusconi e il discorso di Alfano alla Camera. Ma per porre i populismi, tutti i populismi, fuori dai futuri governi, non basta un suo auspicio. La decisione personale, se candidarsi o meno alle elezioni come premier, avrà conseguenze obiettive che incideranno sugli assetti di sistema e oltrepasseranno la sua stessa volontà. Se si candiderà premier contro Bersani, non potrà ragionevolmente impedire una convergenza della destra, e forse neppure un sostegno esterno di Berlusconi. Toglierà invece forza a una possibile convergenza post-elettorale, in chiave europea, del centrosinistra e del centro. Monti non sarebbe il premier di quel governo, ma potrebbe dargli un carattere maggiore di continuità, assumendo l’«espulsione» di Berlusconi come un carattere distintivo della transizione.
Qualcuno sostiene che una competizione Bersani-Monti ci avvicinerebbe alla normalità europea. È vero che abbiamo bisogno di tornare in Europa come sistema politico (dopo la vana illusione del modello anglosassone). Abbiamo bisogno di tornare alla dialettica destra-sinistra (alla faccia di chi diceva che non esistono più) ma dobbiamo anche darci un tempo per ricostruire il tessuto del bene comune, strappato dalla seconda Repubblica. Abbiamo bisogno di una legislatura costituente. In Italia e in Europa. In presenza di populismi così forti, anche nel nostro Paese, gli europeisti non possono declinare le loro responsabilità.
Il punto non è in quale misura Monti intenda sostenere la formazione di un nuovo Centro: faccia ciò che crede. Il corso della transizione italiana può mutare invece se Monti decide di candidarsi premier contro chi lo ha sostenuto in questi mesi, e tuttora lo sostiene. Sarebbe una scelta sbagliata. Non per il centrosinistra ma per l’Italia. Perché ci terrebbe imprigionati nella seconda Repubblica, riproducendo, con altri protagonisti, uno schema che ha già prodotto enormi danni. Uno schema dal quale il governo dei tecnici doveva aiutarci ad uscire.
L’Unità 16.12.12
“Mezzo milione di lavoratori in cassa a zero ore”, di Marco Tedeschi
Più di un miliardo di ore di cassa integrazione da inizio anno a novembre; 520 mila lavoratori coinvolti nei processi di cassa a zero ore; una decurtazione del reddito, al netto delle tasse, per oltre 3,8 miliardi, pari a circa 7.400 euro per ogni singolo lavoratore. Sono i numeri principali contenuti nel rapporto della Cgil di novembre sulla cassa integrazione, frutto di elaborazioni dei dati Inps da parte dell’Osservatorio Cig del sindacato. Con 1.004 milioni di ore di Cig in 11 mesi e, con il dato di novembre, ancora una volta oltre 100 milioni registrate in un solo mese, il trend della cassa ripercorre le tappe del catastrofico 2010 che si chiuse con poco più di 1,2 miliardi di ore di cassa integrazione autorizzate. Con quello passato, inoltre, come si segnala nello studio del sindacato, arriviamo al 47esimo mese di una lunga crisi, «che dovrà ancora a lungo dispiegare i suoi effetti negativi», mentre esplode l’allarme sui fondi a disposizione per finanziare la cassa integrazione in deroga nel 2013. Secondo il segretario confederale della Cgil, Elena Lattuada, questi dati «tracciano un giudizio sulla crisi del 2012 dagli effetti devastanti sull’ intero tessuto produttivo e sulla pelle di centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori. Effetti che senza un’ inversione di tendenza ci trascineremo a lungo, e per tutto il 2013». Una consapevolezza, quest’ultima, «alla base dell’allarme che abbiamo lanciato sull’inadeguatezza dei fondi messi a disposizione per la cassa in deroga», aggiunge la dirigente sindacale nel ricordare il presidio nazionale che la Cgil ha promosso per domani a Roma in piazza del Pantheon nelle stesse ore della votazione al Senato della legge di stabilità. La Lombardia è la regione che registra il ricorso più alto alla cassa integrazione. L’analisi della Cgil segnala che sono 222.583.734 le ore registrate da inizio anno, che corrispondono a 115.929 lavoratori (per le posizioni di lavoro a zero ore). Segue il Piemonte con 130.533.112 ore di Cig autorizzate per 67.986 lavoratori mentre terza è il Veneto con 92.390.164 ore e 48.120 lavoratori. Per il centro prima regione è il Lazio con 79.796.632 ore che coinvolgono 41.561 lavoratori. Nel Mezzogiorno è la Puglia la regione dove si registra il maggiore ricorso alla Cig con 58.981.449 ore per 30.720 lavoratori. Meccanica, commercio, edilizia sono i settori più colpiti dalla Cig.
l’Unità 16.12.12
“Piombino, i fantasmi di un’altra Ilva”, di Adriano Sofri
Piombino e Taranto hanno mare e acciaio, e un po’ si assomigliano, fatte le proporzioni – Piombino ha 36 mila abitanti. Di Taranto si sa. Anche Piombino se la vede bruttissima. Alla Lucchini, 2.100 dipendenti (di cui quattro donne operaie, e sessanta stranieri) più 1.500 dell’indotto, età media 32 anni, giovedì mattina si è fermato l’altoforno, in teoria fino all’11 gennaio. Spiega Mirko Lami, operaio e sindacalista: «La produzione era già bassa, dunque anche la temperatura della parte inferiore, il crogiolo, sicché c’è il rischio che la ghisa si rapprenda. Successe già nel 1989, bisognò forare e piazzare la dinamite, poi entrare con le motopale, ma viene giù anche il refrattario e bisogna ricostruire tutto, e costa carissimo. L’altoforno è una bestia larga 14 metri e alta 30, può sfornare 2,3 milioni di tonnellate di ghisa, nell’ultimo anno ne ha tirate fuori solo 1,2 milioni, il minimo. Siamo preoccupati».
Gli impianti siderurgici a ciclo integrale in Italia sono due, Taranto (che di altoforni ne ha cinque, e ne ha appena spento uno) e Piombino. L’Ilva è, finché dura, dei Riva. L’acciaieria di Piombino non è di nessuno, più o meno. Ha una storia più che secolare, e non tanti anni fa ci lavoravano in ottomila. Privatizzata coi Lucchini, passò ai russi della Severstal (stal, acciaio, come Stalin…), che progettarono un nuovo altoforno, tre milioni di tonnellate: «Ci lavorammo sei mesi, e nel 2008, all’arrivo della crisi, in tre giorni liquidarono tutto». Il magnate Mordashov, troppo ricco per essere visibile a occhio nudo, l’ha passata per un euro a un pool di nove banche creditrici, le quali, oltre che ristrutturare il debito, non sanno che farne. Ci si può vedere una conferma della fine del ciclo integrale per l’acciaio: affare di Cina e India, mentre nei Paesi rottamatori è il tempo dei forni elettrici. «Ma solo noi fabbrichiamo le rotaie dell’Alta velocità, 108 metri senza saldatura – avverte Mirko, che un certo orgoglio da produttore ce l’ha – Il rottame è intriso di impurità, e i forni elettrici arrivano solo a 1200 gradi; l’altoforno tocca i 1700 gradi, così da bruciare le impurità». (Tutti i binari italiani sono venuti da qui. Oscar Sinigaglia aveva profetizzato nel 1946: «Verrà un giorno in cui le rotaie saranno fabbricate in un determinato acciaio speciale…». L’ha raccontato su
Repubblica Alessandra Carini il 3 dicembre: L’Ilva e il made in Italy).
Piombino e Taranto sono anche differenti. A Piombino non c’è la diossina, che viene soprattutto dall’agglomerazione (riservata alla Ferriera, stessa proprietà, nel centro di Trieste): dal-l’Ilva di Taranto proviene più del 90 per cento delle diossine industriali
emesse in Italia! Michele Riondino, tarantino figlio dell’Ilva e primattore del film tratto dal romanzo di Silvia Avallone, Acciaio,
dopo aver girato dentro la Lucchini commenta: «Vedere come qui rispettano le direttive europee sulle emissioni inquinanti è stato uno shock». A ridosso di qualche malumore piombinista contro il romanzo, in cui i giovani operai si drogano, si fece notare che ci sono controlli stretti del Sert e l’alcol test dell’Asl a ogni turno, tasso zero.
Ci sono anche alla Lucchini dei parchi minerali scoperti, e nei giorni di scirocco lo spolverio arriva alle case operaie di Cotone e Poggetto. Ma complessivamente a Piombino – che ha altri due stabilimenti siderurgici storici, la Magona, laminazione ora della Mittal, 650 addetti e a mezzo regime, e la Dalmine, tubificio dei Rocca, 140 addetti – non c’è contrapposizione fra città e fabbrica. Il 19 novembre diecimila persone sfilarono per il lavoro con tutti i negozi chiusi per solidarietà. A ottobre fu il sindaco, Gianni Anselmi, con tre operai, ad arrampicarsi su un tetto della Lucchini perché il governo si decidesse a incontrarlo. Era buffo, per chi lo conosce serio serio, vederlo appollaiato lì sopra. Anselmi ha 45 anni, è al secondo mandato: «Il mio primo giorno da sindaco, nel giugno del 2004, morì alla Lucchini un operaio, folgorato da una scarica elettrica, Giancarlo Frangioni. Fu come un monito per me».
Il governo, dunque. «Nessuno di noi è statalista – dice Alessio Gramolati, segretario della Cgil toscana – ma non si può pensare di far vivacchiare la siderurgia senza un piano industriale nazionale ». In realtà, ne occorrerebbe uno europeo. «Veniamo dalla chiusura di nove altoforni in Europa, ne sono rimasti tredici, in Italia sei, cioè cinque, cioè quattro e mezzo. È l’ora di ridistribuire la produzione. A Taranto, benissimo che vada, ci sarà un forte ridimensionamento, non imposto dal mercato. Terni è già andata coi finlandesi, un terzo in Germania, uno dismesso, uno svenduto. Sotto una soglia la siderurgia non è più conveniente: il governo non sa fissare questa soglia.
A Piombino solo un progetto nazionale potrebbe affrontare il revamping dell’altoforno, il restauro e l’ammodernamento, per una domanda più alta».
Si abusa dell’aggettivo “strategico”, ma si lascia andare tutto alla deriva. «Le aziende commissariate, in Italia, erano casi straordinari: oggi sono cinquecento, e grosse». Piombino chiede l’amministrazione straordinaria e la nomina di un commissario governativo. Le banche non ci credono. Il governo – che ormai c’era una volta – concorda, ma non decide. Il “Garante”, ancora fantomatico, del decreto per l’Ilva dovrebbe piuttosto diventare un organismo capace di coordinare l’intera siderurgia italiana. Trieste è – troppo tardi – sull’orlo della chiusura. La ex Severstal ha ancora quattro fabbriche in Italia: quella “buona”, di Bari, è riuscita a venderla agli slovacchi per fare cassa: produce sofisticati aghi da scambi ferroviari, che durano il doppio dei concorrenti. La Toscana del presidente Enrico Rossi ha candidato Piombino come «area di crisi complessa» secondo il decreto sviluppo che da ieri è legge, e riguarda le aree industriali specializzate in cui c’è stata una forte presenza pubblica. Dice il sindaco: «Abbiamo anche la più grande centrale termoelettrica Enel, va solo d’estate, hanno tentato di convertirla a carbone, ci siamo sempre opposti: ha accanto le spiagge a bandiera blu fino a Follonica. Noi dobbiamo tenere assieme l’industria con l’archeologia e la bellezza di Baratti e la città vecchia e le 850 mila presenze turistiche. Lucchini occupa il 60 per cento del sito di bonifica, ostacolando ogni iniziativa di conversione del territorio. Questa invadenza può rovesciarsi in un’occasione per il riuso, gli spazi portuali. Le banche non sono un interlocutore: o un vero imprenditore siderurgico con un piano efficace, o un commissario – non certo i furbacchioni che volteggiano sopra le agonie industriali, e anche nel nostro cielo».
Chiedo dei rapporti in fabbrica, a confronto con l’autoritarismo dell’Ilva, i suoi operai scomodi confinati, i sindacati irretiti a suon di milioni nella ragnatela padronale. «I Lucchini avevano la mano pesante, venivano dal tondino, da Brescia, come i Riva, nemici giurati. È stata dura». Dice Mirko: «Un paio d’anni a contare i gabbiani li ho passati anch’io: ancora un po’, e mi sarei laureato ». Quanto alle elargizioni per addomesticare sindacati e amministratori, il sindaco ride: «Per strappare 20 mila euro ai russi per il Piombino di calcio ho sudato sette camicie».
La Repubblica 16.12.12
“Speriamo che il Premier non cada in tentazione”, di Eugenio Scalfari
Mario Monti è stato tentato. Non è un santo, ma un buon cattolico sì, lo è. Conosce i precetti della Chiesa e li osserva e sa che i santi sfidano la tentazione per mettersi alla prova. Di solito resistono alle lusinghe del tentatore che è lo spirito della terra, cioè Lucifero o comunque si chiami l’angelo decaduto e diventato diavolo. Perfino Gesù sfidò il diavolo ritirandosi nel deserto per quaranta giorni. Ma per lui era facile sconfiggerlo: era il figlio di Dio o credeva di esserlo, perciò sconfisse il tentatore e tornò a predicare la salvezza delle anime.
Monti non si è ritirato nel deserto ma è stato invitato a Bruxelles al congresso del Partito popolare europeo. Non c’era il diavolo a Bruxelles ma i capi del Ppe e i primi ministri europei militanti in quel partito. E tutti – a cominciare da Angela Merkel – si sono congratulati con lui per la politica attuata in Italia e in Europa, l’hanno esortato a continuare l’opera sua anche dopo le elezioni politiche del prossimo febbraio. Non hanno detto esplicitamente con quale ruolo ma implicitamente glielo hanno fatto capire: guidare le forze politiche dei moderati, cattolici o non cattolici. I modi per conseguire quell’obiettivo e guidare anche il governo, questi riguardano lui altrimenti si tratterebbe di un’ingerenza che nessuno in Europa vuole compiere.
Monti si è riservato e farà conoscere le sue decisioni prima di Natale. Perciò nulla sappiamo su quanto deciderà, ci sta pensando. Se cadesse in tentazione commetterebbe un peccato di ambizione. Ambizione legittima ma comunque un peccato. Massimo D’Alema lo ha pubblicamente diffidato: metterebbe in difficoltà il Pd, il partito che più degli altri lo ha lealmente appoggiato fin dall’inizio quando Berlusconi si dimise e il Pd avrebbe potuto chiedere che si andasse subito alle elezioni che probabilmente avrebbe vinto. Bersani respinse quella pur legittima tentazione nell’interesse dell’Italia. Bersani non è certo un santo e non credo neppure che sia un cattolico praticante, ma dette un contributo alle sorti d’un Paese in emergenza.
L’emergenza dura tuttora e il Pd ha dichiarato di mantenere tutti gli impegni che il governo Monti ha preso con l’Europa. Monti a sua volta ha confermato d’esser disponibile a contribuire al superamento dell’emergenza economica se sarà chiamato a farlo dal nuovo Parlamento e dal nuovo governo che uscirà dalle urne. Con quale ruolo non l’ha precisato. Ieri però ha detto al nostro giornale una cosa della massima importanza: non starà mai più con Berlusconi malgrado adesso con una giravolta di grande maestria il Cavaliere si sia dichiarato montiano.
Le cose sono dunque a questo punto: Monti non starà mai più con Berlusconi; darà un contributo se richiesto. Perfetto, ma in quale ruolo? Se cederà alla tentazione il ruolo non può che essere quello di primo ministro; ma qui c’è di mezzo il popolo sovrano chiamato al voto e il presidente della Repubblica cui spetta la nomina del premier e
dei ministri da lui proposti. Se dalle urne il Pd uscisse vincente, rafforzato nella vittoria dal premio previsto dalla legge che assegna al primo arrivato il 55 per cento dei seggi della Camera, la guida del governo spetterebbe a quel partito salvo il risultato raggiunto al Senato dove il premio scatta con un meccanismo del tutto diverso.
A quel punto la parola passerà al centro moderato, guidato o sponsorizzato da Monti; oppure con Monti in panchina “en réserve de la République”, pronto a contribuire sia nell’un caso sia nell’altro. * * * Il centro, allo stato delle cose, è senza testa. È composto dall’Udc di Casini; in posizione più defilata dal gruppo di Fini. Sommati insieme, secondo gli ultimi sondaggi, arrivano all’8-9 per cento. Con Montezemolo e Riccardi possono aspirare al 12. Una lista guidata da Passera (o la medesima) potrebbe arrivare al 18 o forse al 20. Sponsorizzati da Monti fin forse al 25. Guidati direttamente da Monti addirittura al 30 o perfino sfondare al 35. A quel punto il risultato complessivo sarebbe sulle ginocchia di Giove ma la cosa certa è che se Monti scenderà in qualche modo in campo lo scontro politico ed elettorale si svolgerà tra il centro e la sinistra riformatrice con Berlusconi e i suoi relitti in posizione di arbitro e il Movimento 5 stelle altrettanto.
D’Alema ha certamente usato toni sconvenienti nei confronti di Monti, ma le ipotesi fin qui esposte corrispondono alla sostanza delle sue parole e configurano una situazione da incubo non per il Pd ma per il Paese. Se si vuole evitarla Monti deve restare in panchina oppure sponsorizzare insieme il centro e il centrosinistra. Questa sarebbe la soluzione ottimale.
* * *
Si dice: ma Vendola? Ma i popolari di Fioroni? Ma Renzi? Ma la sinistra radicale?
Non credo che i problemi siano questi e semmai possono emergere nel solo caso d’uno scontro diretto tra centro e centrosinistra.
Si dice anche: l’agenda Monti va comunque rispettata, il resto
sono solo chiacchiere. Vero. Personalmente, per quel che vale, l’ho scritto da sempre. Ma qual è l’agenda Monti? Lo sappiamo: rispettare gli impegni presi con l’Europa, in parte già attuati e in parte da attuare.
Quelli attuati riguardano il rigore dei conti pubblici; quelli da attuare riguardano il rilancio dello sviluppo, dell’occupazione e dell’equità sociale.
Bersani si è impegnato a rispettare i primi e ad attuare con equilibrio e gradualità i secondi. Da questo punto di vista l’agenda Bersani coincide con l’agenda Monti e con le richieste dell’Europa e anche con l’agenda del centro con qualche leggera variante. Ma esiste un terzo capitolo, determinante, ed è la costruzione dello Stato federale europeo.
Questo capitolo è al tempo stesso montiano, bersaniano, centrista. È dunque assolutamente chiaro che queste forze politiche debbono stare insieme. Non si esce dall’emergenza se non mantenendo il rigore e rilanciando sviluppo ed equità. E non si costruisce il futuro se
non unificando l’Europa o almeno l’Eurozona.
Questi obiettivi sono al tempo stesso ambiziosi e necessari. In Europa hanno molti alleati. La Merkel è una di questi, specie quando avrà superato le elezioni e tanto più se dovrà allearsi con la socialdemocrazia. Mario Draghi è l’altro pilastro che opera efficacemente e fin dall’anno scorso in quella direzione. Obama ha lo stesso obiettivo che conviene all’America anche se deve scontrarsi con una forte opposizione delle grandi banche d’affari americane.
In Italia c’è un precedente che va ricordato. In un altro periodo d’emergenza nazionale, determinato dal terrorismo, la risposta politica della classe dirigente italiana fu l’alleanza tra Moro e Berlinguer. Moro fu rapito e ucciso dalle Br ma l’alleanza restò in piedi, anzi si rafforzò ancora di più, con Zaccagnini (e Pisanu) e Andreotti e Cossiga da un lato, e tutto il Pci compattamente dall’altro. Se lo ricordi Casini, se lo ricordi Vendola. Montezemolo se lo faccia raccontare.
C’era anche Paolo VI in quell’alleanza, naturalmente nei modi e nelle forme appropriate ad un Pontefice. Lo tengano ben presente Benedetto XVI, il cardinale Bagnasco e il vecchio, ma sempre combattivo cardinal Ruini. Non spetta a loro costruire o incoraggiare un partito; loro debbono perseguire la pace, anche quella politica.
Infine c’è un sostegno determinante per l’attuazione dell’agenda Italia, si chiama Giorgio Napolitano. Le elezioni anticipate hanno comportato qualche difficoltà attuativa ma hanno consentito un fondamentale vantaggio: il regolatore della partita, prima e dopo il responso delle urne, sarà il Quirinale. Noi l’abbiamo sempre sperato ed ora è finalmente accaduto. Per iniziativa di Monti e per decisione di Napolitano.
Tutto è dunque di buon auspicio e suggerisce di resistere alle tentazioni. “Unicuique suum” e “Non praevalebunt” diretto agli anti-europeisti e quindi anti-italiani. È questo che speriamo accada.
La Repubblica 16.12.12