Nelle crisi, spiegava Gramsci, le oligarchie del denaro si scagliano contro le élite della politica e rivendicano il potere. Come vent’anni fa. Allora l’assalto fu condotto con una coalizione che usava il dialetto periferico dell’asse del Nord, ora nella scalata al governo si parla il linguaggio cosmopolitico dell’alta finanza. La crisi italiana non può però trovare rimedio nelle nuove alchimie trasformistiche dei poteri forti. La pretesa di arrestare il declino con cartelli confusi, a sostegno di un capo che invoca lo scettro per grazia ricevuta, ha un che di tragico.
Significa non aver compreso nulla della dinamica storica che ha accompagnato la seconda Repubblica verso la catastrofe. Negli anni ’90, l’Italia ha vissuto uno sconvolgimento radicale nelle sue classi dirigenti, nel modello economico-sociale, nelle mentalità.
Fu una vera «crisi di egemonia», con il fallimento delle classi dirigenti nel mantenere la rappresentanza degli interessi sociali di riferimento e nel preservare una cornice unitaria alla disordinata rivendicazione dei territori. Il collasso dell’élite politica lasciò senza rappresentanza spazi e interessi rilevanti. Con la grande trasformazione dell’economia degli anni ‘80, e con il vincolo europeo che annunciava costi elevati per il risanamento dei conti, i gruppi sociali del Nord, privati di rappresentanza, si difesero con nuovi investimenti in politica. Populismo, come forma simbolica della rivolta contro le élite, e scorciatoia carismatica, come semplificazione dell’offerta politica, divennero i loro nuovi referenti di senso. Con questi accorgimenti, e con la fuga dalla cultura di governo, il micro capitalismo dei territori e fette di lavoro autonomo ritrovarono una identità, nelle forme però della alienazione, della separatezza, dell’antipolitica.
La crisi della funzione rappresentativa suggerì una scaltra autorappresentazione. Da qui il precipitare della funzione politica in ottica economico-corporativa, con ceti ossessionati dal fisco, nemici irriducibili degli imperativi di una moderna statualità capace di fornire beni pubblici. Con l’invenzione di un nuovo ceto politico e amministrativo connotato da improvvisazione, folclore e protesta, il micro capitalismo ha reciso ogni possibilità di governare con lucidità i tempi dell’innovazione competitiva. Proprio l’autorappresentazione degli interessi economici e territoriali più ristretti, che in politica prese subito le maschere devianti del populismo legislativo senza confini a destra, inibì le condizioni necessarie per la crescita e la modernizzazione. La vecchia politica era rimasta senza soggetti sociali forti da rappresentare, i nuovi ceti dal canto loro procedevano senza più coltivare la meta di una funzione politica generale. L’asse del Nord camminava in un pantano corporativo orfano del generale e si incagliava in una palude immobilista incapace di prospettare le strutture amministrative delle grandi decisioni politiche.
Il tratto organico della crisi italiana è riconducibile proprio all’egemonia del blocco sociale immobilista che ha conquistato il potere sulle rovine della grande industria e sul ritiro della mano pubblica come veicolo di investimenti produttivi. Con la decostruzione della macchina statale, con le sue istanze antifiscali e con i miti ostili al pubblico, il blocco sociale della destra si è rivelato incapace di sorreggere la crescita e di gestire l’innovazione. Se la decrescita è stata la condizione prevalente, la debolezza strutturale del governo politico (ovvero: partiti personali effimeri, amministrazione carente, decentramento ai limiti della de-formazione dello Stato) ha influito nel congelare i pilastri dello sviluppo e nell’arrugginire i motori della competizione. Una società sfibrata dai limiti congeniti del nano capitalismo, sfilacciata dalla destrutturazione della macchina pubblica e dal codice del populismo ha bisogno di una grande politica capace di ridefinire i tratti della statualità in un’economia globalizzata. Il contrario di quanto stanno architettando le oligarchie che in modo cieco si scagliano contro le élite politiche, che con difficoltà stanno ricomponendo la frattura tra politica e società. Il protagonismo delle oligarchie può solo svuotare il centro, che da autonoma dimensione politica viene trasfigurato in aggregazione di potenze economiche e finanziarie. La vana volontà di potenza delle oligarchie traccia un percorso regressivo e ribadisce un destino di immobilismo per l’Italia. Ostacolando la ricomparsa di autorevoli classi dirigenti, le oligarchie ossificano le contraddizioni del nano capitalismo, senza avere il trasporto egemonico per curarne l’alienazione politica, e favoriscono lo stallo delle forze produttive. Per tracciare un nuovo modello di statualità e ridisegnare un necessario patto tra democrazia e capitalismo che sconfigga la decrescita, servono anzitutto partiti forti che prendano in mano il governo della ricostruzione.
L’Unità 17.12.12
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“Il dilemma del Professore”, di Ilvo Diamanti
La seconda Repubblica è finita, ma non del tutto. Il leader che l’ha inventata e guidata, per quasi vent’anni, è ancora lì. Silvio Berlusconi. Non si decide a uscire di scena. Per il bene del Paese. E, in primo luogo, «per i miei interessi», come ha esplicitamente affermato negli scorsi giorni. Da ciò la difficoltà di costruire una democrazia “normale”, fondata sull’alternanza possibile. Da ciò la difficoltà di Mario Monti, nella ricerca di un ruolo, dopo le prossime elezioni. Monti: vorrebbe continuare l’opera avviata un anno fa. Ma sulla base di un’investitura democratica e non aristocratica. Per volontà popolare e non del Presidente. Dopo una consultazione elettorale in Italia e non per scelta degli “altri”. Su Monti, come si è visto anche nell’ultima settimana, “investono” i Popolari europei. La Merkel in testa. Ma anche il presidente francese, Hollande, socialista, ha espresso la sua stima verso il Professore. I leader politici (oltre ai mercati) internazionali si chiedono perché mai gli italiani debbano esporsi al rischio di eleggere – democraticamente – un governo “populista”. Oppure una maggioranza fragile, condizionata da forze politiche anti-europee. Com’è già avvenuto in passato. I leader e i mercati stranieri: si chiedono (talora apertamente) perché gli italiani debbano andare al voto, quando dispongono già di un premier “affidabile” (dal loro punto di vista).
“Purtroppo” la democrazia ha le sue regole. E i suoi rischi. Da troppo tempo – per citare Marc Lazar – l’Italia costituisce un interessante “laboratorio” dei cambiamenti – e delle distorsioni – delle democrazie europee. E, per questo, opera in una situazione instabile. Sarebbe ora che entrasse in una “noiosa” condizione di “normalità”. Superando le deviazioni della Seconda, ma anche della Prima Repubblica. Non è ancora possibile, pare. Come dimostrano i dilemmi di Monti, in questa fase. Il Professore vorrebbe, infatti, riproporsi come premier, dopo le elezioni. Ma è difficile trovare una posizione adeguata alle sue – legittime e comprensibili – aspirazioni. La “casa” più sicura e coerente, in base all’esperienza recente, sarebbe il centrosinistra. In particolare: il Pd. Che i sondaggi stimano in largo vantaggio. Soprattutto dopo le primarie. Le quali, tuttavia, hanno garantito un largo consenso a Bersani. Indicare un candidato diverso – o un premier diverso, dopo il voto –significherebbe vanificare la volontà degli elettori. Dire loro – e a tutti – che il centrosinistra aveva scherzato.
Un’altra ipotesi, di cui molto si parla, prevede che Monti venga candidato dalle forze politiche di Centro. L’Udc, Fli, la lista promossa da Montezemolo. Una soluzione che potrebbe fare del Terzo Polo l’alternativa vera al centrosinistra. Anche perché l’attuale sistema elettorale, il cosiddetto Porcellum, concepito in era berlusconiana e mantenuto con il concorso determinante di Berlusconi, ha prodotto un duplice effetto: maggioritaria e personale. Spingendo, cioè, la competizione elettorale in senso bipolare e presidenziale. Ha, infatti, opposto fino ad oggi Berlusconi al candidato della sinistra. Prima Prodi (l’unico ad averlo battuto, per due volte). Poi Veltroni. Ma oggi Berlusconi ha un consenso personale limitato. La sua parabola si è conclusa nell’autunno di un anno fa. Quando ha dovuto “arrendersi” e rassegnare le dimissioni. Costretto da vincoli esterni, ma prima ancora interni. Dalla crisi di fiducia nel Paese e dall’incapacità di tenere insieme la sua maggioranza. Oggi, il suo ritorno politico ha permesso al Pdl di risalire. Ma di poco: 3-4 punti. Il suo partito: non arriva al 20%. E poi: è diviso. Berlusconi. La stessa Lega: esita ad allearsi con lui. Come potrebbe dimostrare la propria volontà di rinnovamento, ripresentandosi di nuovo al voto con Berlusconi?
Per questo, se Monti divenisse il candidato premier del Centro, il Terzo polo potrebbe trasformarsi nel Secondo. L’alternativa al centrosinistra. Egli stesso diverrebbe, a sua volta, l’alternativa a Bersani. Il suo avversario. Per l’improponibilità di Berlusconi. Per il basso grado di legittimità delle forze di centrodestra. Ma anche per il consenso personale di cui dispone il Professore – risalito oltre il 50% nell’ultima settimana (come segnalano i sondaggi di Demos e Ipsos).
Chiarisco subito che, a mio avviso, si tratterebbe di una prospettiva “normale” e, anzi, auspicabile – in altri tempi e in altri contesti. Proporrebbe, infatti, l’alternativa fra due candidati e due aree politiche “compatibili”. Una più lib e l’altra più lab. Entrambe, sostanzialmente, europee e democratiche. Il problema, tuttavia, è che in questa fase e in queste condizioni, un Patto di Centro guidato da Monti attrarrebbe non solo i voti “moderati”, ma anche il sostegno personale di Silvio Berlusconi. Il quale, anche ieri, nel lungo monologo “recitato” a Canale 5, ha ribadito la propria disponibilità a fare un passo indietro. Ma solo se Monti si candidasse. In altri termini, Monti apparirebbe non solo “colui che unisce i moderati”, ma il garante del Cavaliere e dei suoi.
Per questo oggi Monti si trova in una posizione critica. Perché non può essere candidato dal centrosinistra. Neppure in modo furbescamente mascherato. L’ipotesi di staffetta, di cui si è parlato negli ultimi giorni, appare, infatti, discutibile. Perché gli elettori hanno il diritto di sapere per chi e perché votano. Al momento del voto. Per quale premier e quale maggioranza.
Ma se Monti (per citare Eugenio Scalfari) “cadesse in tentazione” e si candidasse con il Centro, diverrebbe l’alternativa a Bersani. In particolare se Berlusconi facesse un passo indietro. Difficilmente potrebbe, domani, allearsi con il centrosinistra. Tanto meno divenire premier di una coalizione di “unità nazionale”. Se non nel caso che nessuno, al Senato, ottenesse la maggioranza dei seggi (ma Monti, per questo, dovrebbe tifare per la Lega e il Cavaliere, nelle regioni del Nord).
C’è, infine l’ipotesi, avanzata ieri, che Monti promuova una propria lista personale. In autonomia da tutti gli altri. In questo modo si metterebbe davvero in gioco. Tuttavia, per questo, rischierebbe molto. Alcuni sondaggi recenti (Swg, per esempio) gli attribuiscono intorno al 6%, che salirebbe al 15%. Però, appunto, insieme alle forze di Centro. Troppo poco, per coltivare ambizioni di premiership. Al contrario, abbastanza per comprometterle.
Per continuare a svolgere un ruolo di primo piano, nei prossimi anni, penso che il Professore debba, dunque e comunque, rifiutare, apertamente, l’offerta, ma anche i voti del Cavaliere. Prendere esplicitamente le distanze da lui. E quindi decidere. Se, come e con chi scendere in campo.
Ma solo “restando fuori”, a mio avviso, potrebbe occupare, in seguito, ruoli istituzionali importanti. Oppure ruoli di governo. Nella coalizione vincente. O al di sopra delle parti. In caso di particolare emergenza.
Mario Monti, più di ogni altro, oggi può contribuire a “normalizzare” la nostra democrazia. Spezzando, definitivamente, il filo che ancora ci lega alla Seconda Repubblica. Cioè, a Silvio Berlusconi.
Ma, proprio per questo, deve “restare fuori”.
La Repubblica 17.12.12
L’appello: democrazia paritaria i partiti decidano
E’ molto viva nel paese l’esigenza di un forte rinnovamento della “ politica”, unita purtroppo a una disaffezione al voto e a una critica generalizzata agli esponenti politici. Non v’è dubbio che le donne hanno un diritto imprescindibile a una rappresentanza che rifletta il loro ruolo nella società attuale, alla quale partecipano a tutti i livelli e in tutti gli aspetti, anche se la politica le tiene troppo spesso fuori dai luoghi decisionali. Inoltre, le donne si sono rivelate meno coinvolte nelle pratiche di scambio e di corruzione sempre più diffuse. Per il duplice lavoro sia nel mondo professionale sia nella cura e educazione dei figli, sono portatrici di un diverso punto di vista sul mondo del lavoro, sui bisogni delle famiglie, sulla emarginazione dei giovani, più in generale sui problemi che oggi angustiano la comunità sociale, essenziali per salvare la convivenza civile e ridisegnare una società a misura di donne e di uomini, che promuova salute, cultura, relazioni pacifiche, qualità della vita, godimento dei diritti.
Più donne nella politica e nelle istituzioni significa dunque di per sé un loro profondo rinnovamento e un maggiore interesse del cittadino nei confronti della res pubblica.
Per queste ragioni le 44 associazioni, gruppi e reti femminili aderenti all’Accordo di azione comune per la democrazia paritaria, in vista delle imminenti scadenze delle elezioni in tre importanti regioni (Lazio, Lombardia e Molise) e di quella per il rinnovo del Parlamento nazionale, rivolgono un pressante appello ai partiti politici attualmente presenti nel Parlamento uscente e/o nelle Assemblee regionali e locali, nonché alle formazioni, ai movimenti e ai promotori di liste “civiche”, che si preparano a partecipare alle prossime competizioni elettorali, affinché assumano un chiaro impegno onde favorire, in conformità con il dettato degli articoli 3 e 51 della Costituzione, la presenza paritaria delle donne nelle eligende assemblee. In particolare si chiede:
a) di presentare nelle liste un numero di candidature femminili pari al 50% dei candidati;
b) di presentare un egual numero di donne e di uomini quali capilista;
c) di presentare candidature femminili nel cinquanta per cento dei collegi ritenuti conquistabili;
d) di invitare i propri elettori ed elettrici, laddove è prevista l’espressione di una preferenza, a utilizzarla con particolare attenzione per le candidate;
e) di presentare nei “listini” o nelle liste bloccate candidate e candidati in ordine alternato per favorire la elezione di una consistente percentuale di donne;
f) di far conoscere i criteri di scelta delle candidate e dei candidati alle primarie;
g) qualora si ricorra, per la scelta delle candidature a elezioni primarie, prevedere la doppia preferenza di genere, come quella regolamentata nella legge 23/11/2012 n.215 (“Riequilibrio della rappresentanza di genere nei Consigli e nelle giunte degli enti locali e dei Consigli regionali”);
oppure presentare in elenchi separati i nomi dei candidati e quelli delle candidate per poi inserire nelle liste, in ordine alternato, i maggiormente votati/e della lista maschile e di quella femminile.
h) di assicurare nelle tribune elettorali televisive la presenza paritaria delle candidate e dei candidati.
i) di rendere pubblico come sia stata realizzata l’utilizzazione della quota dei rimborsi elettorali destinata per legge a promuovere la presenza delle donne in politica;
Riconosciamo che il Parlamento uscente è stato in grado di adottare importanti, (anche se parziali), leggi ispirate al principio di promuovere la partecipazione delle donne nei centri di decisione:
– la legge 23 novembre 2012 n 215 (in G.U n.288 dell’11 dicembre 2012, in vigore dal 26 dicembre 2012) – disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei Consigli e nelle Giunte degli Enti locali e nei Consigli regionali.
– la legge 120/2011 per la parità di accesso agli organi di amministrazione delle società quotate;
– la disposizione, contenuta nella legge 5 luglio 2012 n. 96, che i contributi pubblici spettanti a ciascun partito o movimento politico siano diminuiti del 5% qualora il partito o movimento abbia presentato un numero di candidati del medesimo genere superiore ai due terzi del totale.
Tuttavia lo slancio necessario ad una vera e propria politica paritaria non è avvenuto. E’ spiacevole ricordare ad esempio che in recenti modifiche delle leggi elettorali e degli Statuti regionali da parte di alcune Regioni non si è provveduto a inserire norme per il riequilibrio di genere e neppure si è, alla data odierna, modificata in tal senso la legge elettorale nazionale.
Le Associazioni firmatarie dell’appello, sottolineando l’importanza del voto femminile, che può avere un impatto notevole come dimostrato nelle ultime elezioni statunitensi, chiedono pertanto, in assenza della modifica delle legge elettorale , che siano i partiti, le formazioni e i movimenti ad adottare comportamenti e atti per garantire una vera e propria democrazia paritaria fin dai prossimi importanti appuntamenti elettorali, cui si apprestano a partecipare.
Le Associazioni
NOI RETE DONNE AFFI – ASSOCIAZIONE FEDERATA FEMMINISTA INTERNAZIONALE
SE NON ORA QUANDO
AGI ( Ass. Giuriste Italiane – sez. romana) AIDOS ANDEASPETTARE STANCA ASSOCIAZIONE ALMA CAPPIELLOASSOCIAZIONE BLOOMSBURY ASSOCIAZIONE DONNE BANCA D’ITALIAASSOLEICENTRO ITALIANO FEMMINILE COORDINAMENTO ITALIANO LOBBY EUROPEA DELLE DONNE COORDINAMENTO NAZIONALE DONNE ANPI COMMISSIONE DIRITTI E PARI OPPORTUNITÀ ASS.NE STAMPA ROMANACORRENTE ROSACRASFORM Onlus
DONNE CHE SI SONO STESE SUI LIBRI E NON SUI LETTI DEI POTENTI
DONNE E INFORMAZIONEDONNE IN QUOTA
DONNE IN RETE PER LA RIVOLUZIONE GENTILE
FILOMENAFONDAZIONE ADKINS CHITI – Donne in musicaFONDAZIONE NILDE IOTTIGIO (Osservatorio studi di genere, parità e pari opportunità)GIULIA (Giornaliste Unite Libere Autonome)IL PAESE DELLE DONNEINGENERE
LA META’ DI TUTTO
LE NOSTRE FIGLIE NON SONO IN VENDITALIBERE TUTTE – Firenze LUCY E LE ALTRE
MOUDE (Movimento Lavoratrici dello spettacolo)
MOVIMENTO ITALIANO DONNE PER LA DEMOCRAZIA PARITARIA
NOI DONNE
NOIDONNE 2005PARIMERITO
PARI O DISPARE
RETE ARMIDA
RETE PER LA PARITA’
SOLIDEAUDI USCIAMO DAL SILENZIO WOMEN IN THE CITYL’appello
L’Unità 17.12.12
“Silvio frantuma il Pdl”, di Carmelo Lopapa
Doveva essere il giorno delle primarie. Sancisce invece il via alle scissioni e apre la grande fuga dal Pdl, ormai in rotta. Ma soprattutto, Berlusconi trasforma il 16 dicembre nel B-day e lancia al grande pubblico tv la sua candidatura alla premiership. Soffocando così sul nascere aspettative e ambizioni dei montiani Pdl e del gruppo dirigente riuniti in un teatro romano. Mentre in un altro auditorium la Meloni e Crosetto (presente Storace) tengono a battesimo l’ala anti-montiana, un piede già fuori dal partito. E oggi La Russa annuncia il decollo del suo “Centrodestra nazionale”. Tutto si sbriciola, in campo resta solo il Cavaliere.
Per il capo, del resto, l’ipotesi di una corsa in sostegno di Mario Monti era già archiviata. Sebbene ieri l’abbia ancora caldeggiata in pubblico, sia nella lettera inviata ai suoi dirigenti di “Italia popolare”, sia nel pomeriggio nell’intervista di un’ora in diretta a Barbara D’Urso a “Domenica5live”. Il succo è un altro. Berlusconi rientra in serata ad Arcore da Roma per un faccia a faccia con Roberto Maroni, già saltato la sera prima e nuovamente aggiornato a stamattina (stavolta causa nebbia). E si sfoga col suo entourage: «Monti ha già scelto e per noi poco male: otto nostri elettori su dieci non lo volevano e da solo non va oltre il 10 per cento. Il candidato premier sono e resto io». Davanti alle telecamere di Canale5 lo ammette, del resto: «Sono tornato a essere, e sono, il candidato alla presidenza del Consiglio ». Compie anche un passo avanti. Se pure Monti dovesse accettare l’«occasione storica» che gli offre, lui comunque farebbe la sua campagna elettorale. Resterebbe insomma in campo, in ogni caso. Una deterrente per le residue prospettive di un “sì” del Professore all’offerta. Che Berlusconi fosse in piena campagna era evidente, la performance di 80 minuti di ieri dalla D’Urso, con
tanto di annuncio di programma («Imu assolutamente da abolire ») è stata solo l’ultima tappa dell’escalation. Pianificata con direttori di rete mobilitati in breafing settimanali. Intervista al Tg5 sabato sera, a Studio Aperto dieci giorni fa, puntata a Mattino5 mercoledì, senza contare il servizio sui risultati dei governi Berlusconi andato in onda il 6 dicembre al Tg5 o Rete4 che mercoledì notte ha mandato in replica l’integrale del Cavaliere alla presentazione del libro di Vespa. Lui è in campagna, i dirigenti Pdl rassegnati e in fuga. La manifestazione “Italia popolare” organizzata da Alemanno e Sacconi, Lupi e Formigoni, Quagliariello e Augello, tra gli altri, doveva segnare lo strappo dei cattolici e dei “montiani”. Ieri mattina si è trasformata invece in una manifestazione di partito ancora «berlusconiano », col segretario Alfano (che arriva in mattinata da Arcore) e il capogruppo Cicchitto a
suggellare e garantire fedeltà al capo. Berlusconi racconta in privato di fidarsi poco o nulla di loro, ormai. Sospetta che «tramavano » per farlo fuori, che dietro il sostegno a Monti ci fosse il tentativo di convincerlo a compiere il passo indietro per investire lo stesso Alfano, come chiede Maroni (che oggi riunirà a Milano il Consiglio federale per decidere la linea leghista). Alemanno nel suo intervento introduttivo alla kermesse lo dice: «Monti è il candidato ideale, ma se dice no, allora la strada sarebbe quella che porta ad Alfano». L’exploit tv del Cav è servito anche per cancellarli mediaticamente. La delusione, espressa in anonimato dagli organizzatori della manifestazione, è profonda («Si è trasformata in tutt’altro»). Scena clou, il segretario Alfano, lo stesso che il 6 dicembre col suo intervento ha decretato la crisi del governo tecnico, che sale sul palco per chiede a Monti di accettare l’investitura del Pdl. Salvo poi chiudere con un «non ci faremo imporre il candidato dalla Lega, un leader ce l’abbiamo, è Berlusconi». Frattini fa solo un collegamento audio, Fitto non si vede, disertano tra gli altri Ronchi e Rotondi. C’è invece Mario Mauro, in rotta ormai con Berlusconi. Assenti come previsto tutti i fedelissimi berlusconiani. Al Teatro Olimpico, comunque colmo, età media elevata. Pieno e soprattutto di ragazzi l’Auditorium della Conciliazione da dove la Meloni e Crosetto hanno lanciato fendenti a destra e a manca. D’accordo su un punto: «Monti non può essere l’orizzonte e la candidatura di Berlusconi sarebbe un errore». Né con l’uno, né con l’altro. «Siamo pronti a costruire altro» dice la Meloni. Dopo la prova di forza, oggi ci sarà anche lei alla riunione che La Russa ha in programma con Corsaro, Rampelli e altri ex An per formalizzare la scissione. Sostengono di avere in mano un sondaggio che li accredita di un 4-7 per cento. «È stata una giornata che ha chiarito molte posizioni, oggi sarà il momento di tirare le somme, non c’è più tempo» dice La Russa già proiettato verso il suo “Centrodestra nazionale”.
La Repubblica 17.12.12
“L’Europa progressita si schiera con Bersani e il Pd”, di Simone Collini
Ieri c’è stato l’assaggio. Ma il vero appuntamento sarà il 9 febbraio, a Torino, quando a pochi giorni dalle elezioni (la data del 17 viene data per praticamente certa) verranno a lanciare la volata a Pier Luigi Bersani primi ministri e leader dei principali partiti progressisti europei. Bisognerà vedere da qui a tre settimane quali saranno le offerte politiche, ma se pure Mario Monti alla fine dovesse decidere di partecipare alla competizione, sarebbe difficile continuare a sostenere che tutte le speranze dell’Europa sono appese a un bis.
Sotto la Mole, a schierarsi a favore della candidatura a Palazzo Chigi del leader del Pd, ci saranno il primo ministro francese Jean-Marc Ayrault e quello belga Elio Di Rupo, il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz e il candidato Cancelliere che sfiderà Angela Merkel alle elezioni tedesche dell’autunno prossimo Peer Steinbrück, il leader della Spd Sigmar Gabriel, quello del Labour Party Ed Miliband, quello del Partito socialista francese Harlem Dèsir e molti altri. L’appuntamento è la versione italiana dell’iniziativa organizzata a marzo a Parigi per offrire una sponda a un François Hollande che rischiava un isolamento a livello internazionale (si parlò anche di pressioni da parte di Merkel per non farlo ricevere dai capi di Stato e di governo). Come allora, a lavorarci è la Fondazione europea di studi progressisti (Feps) presieduta da Massimo D’Alema. E come allora, ci sarà una giornata seminariale, venerdì 8, e poi una dal taglio squisitamente elettorale, con appelli al voto, sventolio di bandiere, photo opportunity.
Il carattere elettorale è stato volutamente lasciato in secondo piano ieri, alla prima conferenza della “Progressive Alliance”. I leader progressisti arrivati da praticamente ogni angolo del mondo hanno discusso di come superare la crisi, della necessità di affiancare alle misure per il rigore precise politiche per lo sviluppo, di come garantire il welfare e migliorare la giustizia sociale. All’appuntamento organizzato dal dipartimento Esteri del Pd guidato da Lapo Pistelli hanno parlato di come rafforzare il fronte progressista e superare le politiche dei conservatori. E in ogni intervento i leader del Ps francese, della tedesca Spd, del Partito dei lavoratori brasiliano, del Partito del congresso indiano, dei Democratici statunitensi e del greco Pasok, hanno sostenuto la necessità che anche in Italia ci sia un governo di centrosinistra.
«In Bersani sono riposte le speranze dei progressisti, non solo in Italia ma in tutta l’Europa», dice Dèsir. «Tutti sappiamo quanto è impegnativo affrontare una campagna elettorale – osserva Gabriel – in questa situazione il Pd ha trovato la forza per organizzare una manifestazione del genere, non va sottovalutato». I progressisti, sottolinea il direttore del Wto Pascal Lamy «devono lavorare per costruire un’alternativa». Dice il segretario del PvdA danese Hans Spek- man: «Mi auguro che tutti i progressisti europei vincano, per rendere il mondo migliore». E Peter Shumlin, governatore del Vermont e presidente dei governatori Democratici Usa: «Lavoriamo insieme per governi progressisti democraticamente eletti in tutto il mondo».
Bersani, che domani incontra il presidente dell’Anp Abu Mazen, incassa e dice che l’«incoraggiamento» che arriva dai leader progressisti degli altri Paesi carica il Pd di una «responsabilità ulteriore» perché la posta in gioco è «un cambiamento possibile negli equilibri politici italiani e anche europei»: «Prendo qui l’impegno a vincere molto per noi ma un pochino anche per voi». La sfida per i progressisti, sottolinea il leader Pd, è quella di ridare sovranità alla politica di fronte a mercati che sembrano onnipotenti, di rimettere al centro l’economia reale per fermare regressione e spinte populiste, di affrontare la crisi non solo dal lato dell’austerità e di ridare senso alla parola solidarietà.
Ad applaudirlo ci sono il leader di Sel Nichi Vendola, quello del Psi Riccardo Nencini e tutti gli altri. La foto a fine giornata è tra il segretario del Ps Dèsir e quello della Spd Gabriel. Al quale dice: «Sarei felicissimo di festeggiare un bel risultato italiano in Germania». Gabriel fa segno ok col pollice alzato. Una vittoria del Pd in Italia, dopo l’arrivo all’Eliseo di Hollande, sarebbe una buona seconda tappa di avvicinamento alle elezioni tedesche del prossimo autunno.
l’Unità 16.12.12
“Le maestre eroine che hanno fatto da scudo”, di Massimo Gaggi
«Hug a teacher today», abbracciate un insegnante. Lo striscione bianco — un pezzo di lenzuolo e una scritta fatta con la vernice spray — pende sulla fiancata di una casa di mattoni all’incrocio tra Riverside, la strada principale di questo villaggio incantevole di un New England da cartolina, e Washington Avenue: la strada che porta verso la casa nella quale Adam Lanza, uccisa la madre, si è preparato per la sua impresa folle.
Adesso la gente della cittadina, ancora incredula e intontita dall’enormità di quanto avvenuto e dall’assalto dei media di tutto il mondo, riesce solo a esprimere un dolore quasi rassegnato: ovunque trovi cartelli che invitano a stringersi attorno alle famiglie delle vittime. Commuove e inorgoglisce la storia delle tre educatrici — la preside Dawn Hochsprung, la psicologa Mary Sherlach e la giovane insegnante Victoria Soto — che, mentre altri docenti si nascondevano sotto i tavoli coi bimbi, hanno affrontato il killer e sono state uccise, assieme a tre colleghe, 12 bimbe e otto bimbi. Victoria, un’ispanica di 27 anni che qualcuno non amava perché masticava chewing gum in classe, è l’eroe di Newtown: dicono che quando il killer è entrato nell’aula numero 10, lei ha fatto scudo agli alunni col suo corpo.
Pianti, preghiere per i caduti, ma niente invettive contro l’eccessiva libertà di armarsi, le armi automatiche che finiscono anche nelle mani di malati di mente.
Dall’altra parte dell’incrocio, nel Sandy Hook Deli, il bar-ristorante del luogo, dispensatore di biscotti italiani e di tortellini surgelati, Joseph Praino, il padre del proprietario del locale, racconta la sua scelta di venire qui: «Siamo italiani, ce ne sono molti qui. Quasi tutte famiglie che vivevano a New York. Volevamo una vita diversa, lontana dal caos e dai pericoli della grande metropoli. E così una quindicina d’anni fa siamo venuti qui. Il posto più tranquillo del mondo. Fino a ieri. Uno dei bambini uccisi giovedì aveva cenato da mia figlia».
Anche Michelle Urbina, cresciuta nel Bronx, davanti allo Yankee Stadium, è venuta a vivere qui — meno di cento chilometri da New York — col marito Curtis: «C’era quello che volevo: aria pulita, buone scuole, una società meno materialista, gente che sorride». Venerdì anche Michelle ha ricevuto la «robocall», la chiamata automatica della scuola assaltata. È andata col cuore in gola alla caserma dei pompieri, il luogo di raccolta in caso d’emergenza. E non smette di ringraziare il cielo perché lì ha trovato la sua Lenie. Ma sono state ore agghiaccianti, coi genitori ben presto divisi in due gruppi a uno dei quali, in un angolo del garage dei mezzi antincendio, un poliziotto ha dovuto dare la notizia tremenda: non c’erano altri bambini vivi di ritorno dalla scuola. «Capisce? L’avevo portato lì un’ora prima e dovevo tornare alle 2,30 per uno degli appuntamenti natalizi: fare coi bimbi i biscotti al ginger. E adesso il mio Jesse non c’è più». Neil Heslin trova la forza di raccontare al New York Post la fine atroce del suo bimbo di 6 anni «che amava l’aritmetica e i cavalli», ma nemmeno lui inveisce contro l’America giungla delle armi da fuoco.
«Io sono favorevole a controlli più stringenti, ma qui la gente non pensa che sia questo il problema» spiega Steve Wruble, uno psicologo di una città limitrofa venuto qui per una consulenza professionale. «Il Connecticut ha regole severissime per gli standard Usa. Più che sulle armi, bisogna interrogarsi sulla società americana: i comportamenti violenti, le ossessioni, lo spirito di emulazione di menti distorte, il malato di mente che manifesta il suo dolore moltiplicandolo attorno a sé».
Arrivi indignato — l’europeo che viene da un mondo dove queste cose non succedono — e te ne vai anche tu un pò rassegnato. Una società tranquilla, quasi tutti bianchi e benestanti (il reddito medio, da queste parti, supera i 100 mila dollari l’anno). Qui la gente, quando esce, non chiude nemmeno la porta. Ma anche case isolate, boschi nei quali si aggirano gli orsi. Chi può negarti il diritto ad avere un’arma?
Ma perché tante? Perché armi semiautomatiche a portata di mano di un ragazzo problematico, un ventenne incapace di socializzare, forse autistico, con la sindrome di Asperger? Nessuno ha la risposta. Chi conosceva la madre dice che era molto premurosa, che seguiva da vicino il figlio. Ma nel villaggio, quando si è sparsa la voce che ad uccidere era stato Brian Lanza — l’assassino aveva indosso un documento d’identità del fratello — tutti hanno subito intuito la verità: il killer non poteva che essere Adam, quel ragazzo misterioso e introverso, quasi invisibile, che non sta su Facebook e non aveva voluto comparire nemmeno nelle foto scolastiche. Adam ha deciso di scatenare l’inferno prima di togliersi la vita. E quella parola, inferno, assieme a un’altra — il male, male assoluto — sono le espressioni che tornano continuamente nelle veglie di preghiera e nelle dichiarazioni dei leader della comunità. Come il senatore del Connecticut, Richard Blumenthal che, incontrati gli investigatori e le famiglie delle vittime, se ne va promettendo che il Congresso si occuperà del problema delle armi. Arriveranno restrizioni? «Credo di sì», mi risponde, ma appena si illumina la telecamera di una tv Usa cambia tono: «Dobbiamo avviare una conversazione con l’America. Ci sono molte cose da fare per evitare il ripetersi di simili tragedie: la creazione di reti di sicurezza… E, sì, anche più controlli sulle armi».
Il Corriere della Sera 16.12.12
La vittoria di Ambrosoli: «Avanti insieme», di Andrea Senesi
«Ora però inizia il difficile», dice Umberto Ambrosoli sommerso dagli applausi. Sono le dieci di sera ed è ufficiale: ha vinto, anzi stravinto, le primarie lombarde, le primarie che lui ha voluto «civiche» perché fosse chiaro che i partiti erano i benvenuti ma non i padroni.
Centocinquantamila e 375 elettori nei gazebo, «solo» uno su tre è tornato ai seggi dopo le primarie nazionali. Tanti, pochi? Un successo, secondo l’avvocato. Altroché: «Abbiamo sconfitto neve e ghiaccio». E in effetti le condizioni di partenza sembravano proibitive. La terza primaria in un mese, il freddo, il Natale in arrivo. Ha vinto largamente, l’avvocato figlio di Giorgio Ambrosoli. Ha raccolto il 57,64 per cento dei voti (a Milano città il 52), staccando di netto gli avversari (il secondo si è fermato a quota 23), con picchi da plebiscito (a Brescia il 70). Un successo largo, ma sperato. Perché Ambrosoli ha raccolto da subito l’appoggio del Pd, di tutto il Pd, e di larghissima parte dell’opinione pubblica. Anche i sindaci erano con lui. Quarantuno anni, un profilo moderato, ma neanche troppo. «Io poco di sinistra? Non si tratta di essere più o meno di sinistra», risponde lui, «ma di fare proposte concrete che sappiano interpretare i valori della sinistra».
Di ispirazione liberale, l’avvocato ha avuto però parole durissime contro il formigonismo morente. Aveva titubato a lungo, aveva anche detto «no, grazie». Poi però s’è convinto. Non si può fuggire dalle responsabilità, uno con quel cognome lo sa bene.
Pronostici confermati, dunque. Ora Ambrosoli dovrà sfidare due signori che si chiamano Roberto Maroni e Gabriele Albertini (oltre a una sua coetanea che correrà con il Movimento 5 Stelle). Una battaglia durissima anche coi sondaggi a favore. Per questo dice ai suoi competitor (che incontrerà già oggi pomeriggio) che «ora bisogna andare avanti tutti assieme»; per questo a caldo picchia giù duro contro gli avversari: «Siamo forti non per le falsità che portano avanti gli altri, ma perché siamo liberi, e non siamo legati alla mentalità dell’affiliazione. Sappiamo quanto la menzogna sia utilizzata dai nostri avversari, ma noi non abbiamo paura». Oppure: «Il centrodestra ci ha abituato a tutto, dalla compravendita dei ruoli a quelle delle responsabilità, mentre il mondo del centrosinistra ha dimostrato diverse volte che è possibile vincere contro tutti».
Grande sponsor di Ambrosoli è stato, da subito, Giuliano Pisapia: «C’è chi come Penelope disfa oggi quello che ha tessuto ieri; c’è chi sta aspettando Godot e c’è chi come questo centrosinistra aperto e plurale non ha paura della mischia e si butta per vincere la partita». Tutti soddisfatti nella notte milanese. Anche gli sconfitti. Andrea Di Stefano, giornalista ed esperto di economia, era il candidato della Federazione della sinistra e di larga parte di Sel. Discreto il sui 23 per cento, con buone performance a Milano città. «Voglio far pesare il mio consenso sul programma che si andrà a scrivere insieme». Chiude Alessandra Kustermann, ginecologa alla Mangiagalli, l’unica della compagnia a non aver avuto un partito alle spalle eppure l’unica ad avere in tasca una tessera (quella del Pd).
La «primaria alle primarie» si dichiara comunque soddisfatta: «Io sono a disposizione del mio partito e porterò al centrosinistra l’enorme forza raccolta camminando in giro per la Lombardia e le mie idee soprattutto sulla sanità».
Il Corriere della Sera 16.12.12