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“Spostato Sanremo i comici fanno paura”, di Francesco Merlo

La comicità disinnescata come un ordigno militare. Il festival è stato alla fine spostato a dopo le elezioni perché le battute di Luciana Littizzetto e la perfida bonomia di Fabio Fazio spaventavano Silvio Berlusconi più di Bersani e più dei giudici. Sanremo gli sembrava come il congresso dei Soviet o la comune di Parigi, il palcoscenico della sua sconfitta.
Con un foglio d’ordine, Berlusconi ha dunque trasformato il consiglio di amministrazione della Rai che, con la complicità del governo dei tecnici, ancora controlla come una caserma, in un plotone di esecuzione contro le canzonette. Ed è davvero un provvedimento militare inedito nella storia della televisione italiana di intrattenimento che in passato ha censurato Dario Fo, Zavattini e Mastelloni, vale a dire la sovversione l’invettiva e la blasfemia, ma non aveva mai trattato il festival dell’identità nazionalpopolare, la vetrina della “casalinghità” italiana e il contorno spiritoso della gara canora come un territorio occupato dove si annidano i nemici più subdoli, insomma come Israele tratta la Striscia di Gaza.
E chi l’avrebbe mai detto che proprio Berlusconi, che ha inventato e si è nutrito di televisione e che in televisione adesso è ritornato per intossicarsene, avrebbe deciso di mettersi al riparo dalla messa cantata dell’Arcitalia? Lui che ebbe al fianco Sandra e Raimondo, Mike Bongiorno e Iva Zanicchi e tutto l’album dei beniamini della leggerezza e del sorriso, stipendiati ed esibiti come intellettuali di riferimento, si è ora ridotto a una torva caricatura di Breznev. Ha paura di essere seppellito da una risata, è allergico all’ironia, si risente persino per le vignette, non sopporta le allusioni al suo fisico posticcio e malridotto.
Certo, lui avrebbe affidato il festival a Pino Insegno e a Barbara d’Urso, ma neppure con Sallusti e la Santanchè sarebbe riuscito a mettersi al riparo dalla risata contundente verso cui nutre un odio ormai invincibile al punto da avere spento persino il suo fidato vecchio Bagaglino che fu la valvola pacchiana e anarcoide della destra. E bisogna infatti sottolineare che mai Sanremo è stato favorevole a Berlusconi, neppure il festival di Tony Renis, quello dei gangster, che ebbe (ricordate?) Celentano: «Anche io ho amici delinquenti». E nei Sanremo organizzati da Ignazio La Russa per tramite di Mazzi e Mazza (“La Russa e i suo mazzieri” li chiamavano) trionfò comunque Roberto Benigni. La comicità infatti non è berlusconizzabile perché è libertà. E il solo umorismo che Berlusconi ha esibito in venti anni è quello greve delle barzellette sconce da spogliatoio maschile.
Morire di televisione è il contrappasso che si merita per non essere stato capace di affrontare una dignitosa uscita di scena, quando cala il sipario. Berlusconi è lì sulla ribalta a raccogliere non sorrisi ma fischi e lazzi, quelli del pubblico che sono più crudeli di quelli dei comici. È infatti tornato da occupare la tv ma non fa audience, non riesce più a controllarla e dunque deve aggredirla con azioni di disturbo. Per disperazione ha persino chiesto di andare da Santoro. Insomma dalla televisione non riesce a staccarsi perché è il suo karma, e dunque mena fendenti, non si controlla più. E Sanremo, che era il suo sogno, la sua vera meta, la sua ambizione di intrattenitore d’Italia è diventato il suo incubo, la sua nemesi. Non è mai riuscito a conquistarlo e dunque ora vuole abolirlo: muoia Sansone con tutti i filistei.
Quello che sta accadendo è fuori da ogni fantasia, peggio dell’editto bulgaro che aveva una sua odiosa logica repressiva, mentre è un tic da nevrosi totalitaria, un dispotismo da regime in agonia vedere in ogni comico un comunista e in ogni risata un oltraggio. Vedrete che alla fine lo spostamento di Sanremo sarà un doppio autogol perché non solo Berlusconi dovrà metabolizzare l’ovvia sconfitta, ma dovrà sopportare di essere sbertucciato, trascinato in un simbolico carro di Tespi e finire così come Re Carnevale mentre l’Italia gli “sanremerà” dietro.
La Repubblica 20.12.12

Legge di stabilità: Ghizzoni, no a colpi di coda su università

“La scelta ragionieristica di tagliare 300 milioni all’università non solo denuncia una mancanza di visione sulla formazione superiore e sulla ricerca, ma è in netta controtendenza con il tentativo di uscire dalla crisi che le cittadine e i cittadini stanno pagando a caro prezzo. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera dei Deputati, in merito al mancato rifinanziamento dell’università in Commissione Bilancio al Senato durante l’esame della Legge di Stabilità. – Dopo anni di politiche ottuse e di tagli lineari, come denunciato anche dal rapporto Istat che vede l’Italia fanalino di coda nell’UE per le spese in ricerca, l’università non ha più nulla da tagliare, pena non solo la chiusura di molti Atenei, ma il collasso dell’intero sistema di formazione e ricerca. Se solo si leggessero i dati Ocse che rilevano l’importanza di avere un alto livello di formazione in una fase di recessione, e se si assumesse come un dato acclarato che la ricerca è il motore essenziale per la crescita, non si potrebbe non vedere la necessità di finanziare l’università proprio in tempo di crisi economica. Il governo ha il compito di sostenerla nei fatti e non può infliggere, con un colpo di coda a fine mandato, un taglio drammatico sull’intero sistema universitario. È necessario che in queste ore si dia ascolto al grido d’allarme degli organismi di rappresentanza istituzionale del sistema universitario e – conclude Ghizzoni – si torni, con la promozione della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, al rispetto del dettato Costituzionale.”

“Il dilemma del premier”, di Michele Prospero

Un partito solo, il Pd. E intorno aborti di partito, liste di magistrati, di comici, di transfughi. Con combinazioni cromatiche varie e da terre esotiche, miriadi di formazioni politiche sbucano come funghi. Senza storia, marciano verso il voto con un assillo: separare il candidato premier dal capo della coalizione, per entrare così in Parlamento superando le severe soglie del congegno elettorale. Anche il nascituro partito di Monti è solo un cartello elettorale o aspira a una identità e a un radicamento? Se in cantiere è un’altra lista, prosegue la decadenza della forma della politica. Se invece in gestazione è un partito, con un programma e con una fetta di società, è una sfida da valutare nella sua effettiva realizzabilità. Che i moderati intendano recidere la destra antipolitica e occupare uno spazio politico, non è uno scandalo. Qualcosa di simile andrà pur fatta per dare sepoltura a una destra aziendalista refrattaria ad assumere un’anima politica. Il problema è però relativo ai tempi e alle forze disponibili per la sfida. Una mossa solo in astratto coerente con il disegno di normalizzazione del sistema, diventa velleitaria se è in contrasto con i tempi e senza radici nella società.
Una ripresa dell’area moderata non può avvenire con un gesto deciso all’ultimo istante da un casco blu che da costruttore di tregua si muta in soldato che marcia alla conquista del potere. Se entra il lizza, Monti ritiene che la rottura con i custodi della Repubblica, che pure l’hanno inventato nel ruolo, sia un costo da sopportare. Ma può il centro che si oppone al populismo ricostituirsi anch’esso con una tipica sceneggiata populista, come quella di un capo senza partitocheentranell’arenacome un leader solitario in lotta proprio contro i partiti (anzitutto il Pd)?
Al racconto del comico subentra la favola del tecnico che si propone come soluzione all’enigma della «castologia». Il mite populismo del centro può scardinare il rude populismo della destra? I limiti del sostegno sociale al progetto di Monti paiono così evidenti, è inutile scomodare come modello la vecchia Dc interclassista e popolare. I poteri che manovrano il partito dei tecnici sono forti. La finanza, le banche, le grandi industrie, le televisioni, i giornali non godono però di un seguito numerico vicino al loro peso economico e mediatico. Questo mondo della grande influenza e del denaro non riesce ad essere egemone e a catturare gli umori bollenti intercettati dalle destre populiste. Il transito del populismo padano e dello spirito revanscista della destra nei lidi più calmi della tecnica non pare agevole. Il partito di Monti ha limiti espansivi strutturali che ne inibiscono la penetrazione. L’antipolitica non domanda efficienza, lealtà fiscale, competizione, innovazione ma invoca protezione, complicità, opacità.
Economicamente potente ma socialmente fragile, l’area di Monti non ha una forza tale da giocare la partita della leadership di governo. Potrà certo aggregare i tanti centri ora dispersi e rosicchiare anche un marginale consenso alle due grandi aree ma, oltre un’azione di parziale rimaneggiamento, non si dispiegano delle forze tali da alterare gli equilibri già maturati. È arduo che da una manovra studiata a tavolino per determinare un ingorgo al Senato possa scaturire un riallineamento sistemico.
Se ha successo, e cioè ottiene il pareggio al Senato, Monti precipita in un dilemma: o crea instabilità, o collabora con il partito più grande restando però in posizioni marginali. Con l’ostruzionismo, Monti tradisce la ragion d’essere della sua discesa, che è quella di sedare gli incubi dei mercati sulla instabilità della politica. Con la contrattazione post-elettorale, riesuma una pratica deteriore da non rimpiangere.
Nel dopo voto, Monti o adotta inverosimili tattiche di guerriglia a Palazzo Madama scatenando le furie degli investitori, oppure si rassegna ad una subalterna collaborazione con il governo. Se prevale un calcolo cinico, fa saltare tutto in aria. Se vince la cautela, non si vede come Monti possa conquistare lo spazio ora occupato dai populismi e abbozzare un partito alternativo alla sinistra. Se il centro è condannato alla responsabilità, e quindi a bandire condotte corsare, che senso ha sfidare equilibri istituzionali e rendere più arduo il lavoro per le inevitabili ricuciture politiche?
La logica politica di una lista Monti non si comprende sul piano dell’efficacia storica. La creatura è solo competitiva con i progressisti o è alternativa alla sinistra, in piena nostalgia del 1994? Non è questo il tempo per un centro in grado di prosciugare il bacino della destra populista. Una sigla personale di Monti non può acciuffare il consenso del micro capitalismo arrabbiato, dei ceti bruciati dall’antipolitica. Senza un patto con il Pd, riaffiora lo spettro del 1994, con la grande borghesia che, per ostruire il cammino alla sinistra riformista, è disposta a tutto, anche a combinare pasticci.
L’Unità 19.12.12

“Concorso a cattedra, preselettive spietate: passa solo 1 candidato su 3!”, di Alessandro Giuliani

I più abili a rispondere in Toscana, Piemonte, Lombardia e Liguria. Peggio di tutti in Calabria, dove è risultato idoneo 1 ogni 5. Il Miur: la percentuale di ammessi in linea con le aspettative. E alle tante critiche per la proposizione dei quiz da cruciverba, viale Trastevere dice che si usa questa tipologia in tutti i concorsi pubblici, nazionali ed internazionali, a prescindere dalle figure professionali. Ma fare il docente non è una professione qualsiasi….
Nessuna sorpresa. Le ultime quattro sessioni delle prove preselettive per partecipare alle verifiche disciplinari del concorso a cattedra, tornato ad essere bandito dopo 13 anni, ha solo confermato quanto era emerso nella prima giornata: il passaggio della prova ha riguardato una minoranza dei partecipanti. Da un comunicato di resoconto del Miur risulta che “le prove svolte erano attesi 327.798 aspiranti docenti. Di questi, si sono presentati nelle sedi di concorso in 264.423. Hanno superato la prova 88.610 candidati, ovvero il 33,5%. Le regioni con le maggiori percentuali di successo, dove è stata superata la soglia del 40%, sono: la Toscana (44,3%), il Piemonte (41,7%), la Lombardia (41,3%), la Liguria (il 40,3%). Quelle con le percentuali più basse invece sono: la Calabria (20,8%), il Molise (21,3%), la Basilicata (22,5%).
Il Miur ha fatto sapere che “si concludono con un bilancio positivo le due giornate dedicate ai test preselettivi, una prova che almeno per le dimensioni e le procedure innovative rappresentava senz’altro uno dei momenti più complessi dell’intero iter concorsuale. Adesso gli aspiranti docenti ammessi, che grazie al sistema digitale hanno avuto modo di conoscere l’esito della prova pochi istanti dopo la sua conclusione, affronteranno le successive prove in programma: gli scritti (il calendario il 15 gennaio nella Gazzetta Ufficiale ndr) e gli orali, tra cui la novità assoluta della lezione simulata che valuterà la capacità di stare in classe e comunicare agli studenti”.
Sempre secondo il dicastero di viale Trastevere, “la percentuale di ammissione dei candidati, al di sopra del 30%, è in linea con le aspettative, ha dimostrato l’accessibilità del test e, allo stesso tempo, la piena funzionalità della prova”.
Il Miur ha anche voluto rispondere alle tante critiche che si sono accavallate negli ultimi due giorni dopo la somministrazione di quesiti generici e che non hanno nulla a che fare con l’insegnamento: “il test rappresenta un passaggio preliminare per la definizione della platea concorsuale, così come avviene in tutti i concorsi pubblici, nazionali ed internazionali, a prescindere dalle figure professionali. Alle successive prove scritte e orali spetterà invece la valutazione delle conoscenze professionali più specifiche”.
Resta da dire, però, che l’insegnamento non è una professione qualsiasi. E che molti aspiranti docenti non potranno dimostrare di essere in possesso di alte conoscenze e competenze. Per non aver saputo rispondere correttamente a quesiti davvero particolari.
La Tecnica della Scuola 19.12.12
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Secondo giro del concorsone “Io ce l’ho fatta”, di Luciana Cimino
Cinquanta quesiti di logica e lingua straniera in 50 minuti. Anche il secondo giorno delle prove preselettive del concorso della scuola conferma la tendenza: circa il 66% dei candidati non l’ha superato. A questi docenti si prospettano ancora anni di precariato(«resta il doppio binario», ha rassicurato il sottosegretario Marco Rossi Doria ieri). Gli altri (tra cui, Agnese Landini, moglie del sindaco di Firenze, Renzi) si prepareranno alle prove scritte e orali. Tra di loro c’è Luca. Una laurea con 110 e lode presa per mezzo di borse di studio e casa dello studente, poi dottorato, borsa di ricerca all’estero, Siss. In mezzo ha fatto «di tutto: fonico, dj, cameriere, ho lavorato anche per II Cepu, non si può fare altrimenti: quest’anno ho insegnato una sola settimana». Al quizzone di ieri ha totalizzato 50/50, zero risposte sbagliate. Un record. «Ho partecipato perché è l’unico modo per entrare di ruolo, ma è una pagliacciata dice Nella mia classe di concorso, la 037, storia e filosofia, ci sono 26 posti nel Lazio: devo crederci? L’unica cosa a cui credo è che se riesco ad arrivare all’orale con la preparazione che ho e i 10 anni di dottorato alle spalle me li mangio». Racconta che ieri mattina quello che ha visto nella sede del concorso è stata «gente con la canna alla gola, con un clima da assalto ai forni e ultima spiaggia». Che tanti precari con esperienza decennale sono rimasti fuori, mentre professionisti in altri settori sono passati, «di quale rinnovamento parla il Miur se recluta chi a scuola non c’è mai stato invece di fare posto a chi da anni sta lì?». «Ma fa ridere perché non è valido sotto tutti i punti di vista: sotto l’aspetto della retorica giovanilistica, dal punto di vista politico perché costituisce la sconfitta del mondo della scuola ed è deficitario dal punto di vista finanziario». Intanto, mentre l’Anief minaccia altri ricorsi per far ammettere anche i candidati che hanno ottenuto punteggi inferiori a 35/50 («è troppo alta e va ben oltre, in proporzione, ai 6/10 previsti dal Decreto Legislativo 297/94»), e il Codacons chiede siano pagati ai precari i permessi presi per effettuare il concorso, il Ministero dell’Istruzione diffonde i numeri della prima prova. A superare la prova preselettiva sono i candidati più giovani (25/26 anni e 35/37), che hanno più dimestichezza con i test. Iscritti alla prova, senza superarla, anche tre persone di 67 anni. «Quando si fa un concorso si rischia sempre di escludere o penalizzare qualcuno. Tutti i test sono perfettibili. Ma i test sono stati vagliati da gruppi di docenti molto preparati», ha commentato Rossi Doria. Ma il Cip, Coordinamento Insegnanti Precari, non è d’accordo..«Partecipare al concorsone è svilente per la nostra professione, perché i quiz prevedono un’innegabile dose di casualità e fortuna. Ma insegnare è tutta un’altra cosa», dice Elena La Gioia, presidente. Mentre parla di «colossale inganno nei confronti dei concorrenti e dei precari» la Cgil. «Nei test d’ingresso non vi è alcun rapporto con la misurazione delle competenze professionali, didattiche e pedagogiche commenta Mimmo Pantaleo, segretario generale Flc Cgil si è trattato di un meccanismo finalizzato a tagliare il più possibile il numero dei concorrenti. Una lotteria a premi che umilia la scuola pubblica».
L’Unità 19.12.12

“La politica è bella”, di Sara Ventroni

Benigni accende i puri di cuore e manda in subbuglio la bile degli atei devoti. Saltimbanco senza padroni, sarto senza fettuccia e senza gesso, Benigni ha cucito un abito semplice e solenne, uno scampolo di parole sgargianti per la nostra nuda Costituzione. La sua eresia è questa: la politica è bella come la vita. Roberto l’ha vestita con la discrezione che si deve alla più bella del mondo. Non ha voluto esagerare con i fronzoli. Ce l’ha presentata senza trucco, scarna ed essenziale, così come si è svegliata, il 22 dicembre del 1947. Il testo dei padri e delle madri costituenti non suona le note trionfali di Beethoven ma ha la cadenza popolare di una laus semplice, frugale, potente come il verbo fatto carne. Un inno alla gioia. Una lode al creato intelligente. Un canto alle donne e agli uomini che hanno intelletto d’amore.
Benigni, questa volta, invece di strizzare l’occhio ai milioni di cittadini che già lo amano, si è asciugato le labbra disidratate, ha tamponato la fronte madida di sudore per parlare, guardando dritto nella telecamera, all’angelo più bello e ribelle, Lucifero, il dèmone dell’individualismo triste, lo spettro che ammicca, anima in vendita per un pungo di rabbia, angelo caduto nel pozzo della solitudine, affamato di rancore e di vendetta, Narciso che si mira e naufraga, direbbe Napolitano, nel «corso limaccioso dell’antipolitica», nel «qualunquismo istituzionale». In armonia con il patrono d’Italia, Francesco D’Assisi, giullare di Dio, innamorato del Creatore non meno che delle sue creature, Benigni indossa il saio minimalista perché sa bene che la Costituzione, come il Vangelo, si mostra ai semplici e ai bambini. Forza venite gente. Non è mai troppo tardi per dirlo, non è mai scandaloso cantare, come avrebbero detto i Pink Floyd, davanti al muro delle rovine del 900, «together we stand, divided we fall». Insieme ce la facciamo, divisi, cadiamo. Per uscire dall’eterno presente della farsa (domenica c’è stato lo show off di Berlusconi da Barbara D’Urso, lunedì i proclami anticostituzionali del Cavaliere a Quinta Colonna) Benigni ha risparmiato le energie, concedendogli solo un epitaffio, un centone senza più passione e senza convincimento, un pedaggio da pagare per la fine di questo ventennio, un omaggio postremo al Cavaliere Pazzo, che ha perso il senno sulla Luna, piccolo dittatore al quale si vuole bene anche perché non è normale.
Ma il meglio è venuto dopo: sconfitti i Voldemort in doppioppetto, messi da parte i Mangiamorte, anestetizzati i vampiri attaccati al collo del popolo, ci siamo consolati con la lettura del testo sacro nazionale, la Costituzione, l’I-Ching di noi popolari, noi socialisti, noi democratici, noi postcomunisti, noi azionisti, noi buddisti, noi cristiani, noi socialdemocratci, noi ebrei, noi donne, noi popolo, noi cittadini, noi non credenti, noi tutti. Tredici milioni di italiani, bambini compresi, hanno ascoltato i versi minimalisti dei padri della patria. Benigni è stato chiaro. I nemici della democrazia hanno due nomi: Signora Indifferenza e Singorina Astensione. Il poeta De André avrebbe scritto una canzone in ottave, se solo fosse ancora qui con noi.
Schioccando ogni parola come un Mosé alle prese con i comandamenti, Roberto Benigni, ripercorrendo i 12 articoli, sacri come il corpo e il sangue di cui siamo fatti, arrotolati nella bandiera, ha confezionato un pacchetto-regalo per l’Europa. Non è affatto piccolo il dono che portiamo: l’Italia ha fiducia, in nome degli articoli 1, 2, 3, 4, 11, nel dovere appassionato della partecipazione, nell’imperativo morale della solidarietà, nel principio inderogabile dell’uguaglianza, nell’identità di una Repubblica fondata sul lavoro, nel comandamento dell’uguaglianza e nel ripudio della guerra. L’architettura morale, perfetta, dell’articolo 3, ripresa in copia carbone dalla Carta Dell’Onu, è una poesia in cui ogni parola è perfetta, sta bene al suo posto, e nessuno può spostarla.
Scanditi come comandamenti, consacrati come una poesia di Brecht, avvolti nella bandiera tricolore e benedetti da uno sputo scaramantico di fiducia e di speranza, i dodici articoli della Costituzione sono il nostro regalo all’Europa. Buon Natale.
L’Unità 19.12.12

Pdl: rinviare il voto di 15 giorni E blocca Stabilità e taglia-firme”, di Francesco Bei e Umberto Rosso

Allungare l’agonia della legislatura, guadagnare tempo, anche soltanto due settimane in più. Per votare il 24 febbraio o, addirittura, il 3 marzo. È questo l’ordine del Cavaliere: ha bisogno di martellare sulle televisioni prima che scatti la tagliola della par condicio. «Questa fretta di andare alle elezioni è una forzatura inutile», sostiene il Cavaliere da Vespa. Ammettendo poco dopo candidamente la vera ragione della melina: «Io punto al 40% ma dipende dalla quantità di ore televisive che posso avere».
I suoi uomini, puntualmente, mettono in pratica il catenaccio. Ieri il Pdl si è inventato il pretesto della legge di stabilità e del decreto “dimezza firme” pur di impedire a Monti di dimettersi e a Napolitano di sciogliere le Camere. L’offensiva, che non piace al Colle, parte in conferenza dei capigruppo a Montecitorio. Fabrizio Cicchitto
annuncia la novità: «Sulla legge di stabilità abbiamo intenzione di prenderci tutto il tempo necessario per esaminare bene il provvedimento». Quanto al decreto “dimezza firme”, il capogruppo Pdl insiste: «Lo vogliamo esaminare nelle virgole». Che si tratti di pretesti risulta evidente quando da via dell’Umiltà viene diramata una nota per chiedere lo slittamento delle elezioni adducendo un terzo motivo: la macchina per consentire il voto all’estero. Ma il Pd insorge. «Il Pdl – intima Bersani – non usi il Parlamento e la legge di stabilità per i suoi problemini ». Il capogruppo Franceschini su Twitter mette in chiaro quello
che è ormai evidente: «Berlusconi vuole rinviare le elezioni, anche a costo di fare del male al Paese, solo per avere due settimane in più senza par condicio in tv».
Benché non filtrino reazioni ufficiali dal Quirinale, una campagna elettorale lunghissima, sotto il segno delle polemiche laceranti e senza par condicio, non è certo quel che si augura il presidente Napolitano, che ha appena lanciato nel suo discorso alle alte cariche dello Stato l’appello a «non bruciare» nel fuoco della campagna per le elezioni la ripresa di credibilità italiana sui mercati europei. La road map a tempi stretti già delineata, con il voto entro febbraio
(il 17 era la data su cui ci si stava orientando), resta per il Colle la bussola da seguire. La melina del Cavaliere sul voto anticipato rischia oltretutto di riaprire la questione della “parlamentarizzazione” della crisi di governo, dando fiato a chi invoca un passaggio di Monti davanti alle Camere per un voto formale di sfiducia.
È polemica anche sul decreto “taglia-firme”. Per Sel e Lega, con Calderoli che accusa Napolitano di «attentato alla Costituzione per aver firmato il decreto», sarebbe un favore «ai centristi» e «agli amici di Monti nel Pdl» perché esonera dalla raccolta firme delle non meglio specificate «componenti politiche all’interno dei gruppi parlamentari». Sospetti che circolano anche nel Pd. Accuse che non trovano udienza al Colle: nessuna scialuppa di salvataggio offerta ai montiani. Le «componenti politiche » sono quelle del gruppo misto e, ogni caso, devono essere presenti «dall’inizio della legislatura».
La Repubblica 19.12.12
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“Liste pulite, primo via libera al Senato poi il Pdl ci ripensa e fa ostruzionismo”, di Liana Milella
Raccontano che Berlusconi, non appena ha saputo del fulmineo via libera di palazzo Madama sul decreto “liste pulite”, ha commentato: «E certo, è tutta colpa di “quello” Schifani». Il quale, del sì nelle commissioni Giustizia e Affari costituzionali dato in un soffio, si vanta dicendo che «il Senato ha fatto la sua parte». A Montecitorio è andata in tutt’altro modo. Liste pulite? Ancora un attimo. Meglio approfondire, analizzare, magari rinviare. Se proprio si perde la faccia senza approvare il decreto, allora lasciarlo passare ma a denti stretti, quasi fosse un sacrificio, o meglio quello che in effetti è, un sì obbligato.
Dal Pdl arriva l’ultimo stato di suspense sulla giustizia dopo una legislatura all’insegna delle leggi per proteggere inquisiti e condannati, Berlusconi in testa. Ora tocca al decreto con le regole per bloccare l’ingresso in Parlamento dei condannati definitivi. Brutta batosta per il Pdl, per la sua politica protezionista per chi ha avuto a che fare con i giudici. Si muove Enrico Costa, l’avvocato che ancora ieri sera chiacchierava a lungo con Niccolò Ghedini, l’avvocato del Cavaliere, seduto in un divanetto della Camera. Per carità, ragionamento giuridico il suo, ma che ha mandato il tilt le due commissioni riunite e ha provocato il rinvio. Lui assicura: «Giovedì si può votare, non scrivete che il Pdl frena perché non è vero. Scrivete che non vogliamo votarlo a scatola chiusa, come ha fatto il Senato, perché non possiamo cucirci la bocca di fronte ai rilievi fatti dagli stessi relatori, non solo la nostra Santelli, ma pure dalla Pd Ferranti che ha bocciato l’esclusione dei patteggiati ». Il Pdl frena perché Berlusconi potrebbe finire tra le prime vittime se arrivasse a sentenza definitiva il caso Mediaset? Ghedini smentisce: «Se la condanna a 4 anni fosse confermata, ma non lo sarà, scatterebbe l’interdizione, quindi per lui la legge non serve».
Costa parla, e Giulia Bongiorno, la presidente finiana della commissione Giustizia s’infuria. Esce e sbotta: «Adesso basta. Questo è un vecchio film, l’ho già visto un sacco di volte. È il tipico atteggiamento di chi ha sempre avuto da ridire sulle leggi che garantiscono la trasparenza». Poi: «Non si può buttare alle ortiche questo lavoro. Io stessa ho detto che il decreto è un po’ fiacco, ma tra dire così e non portarlo avanti ne passa ». Costa si arrabbia: «Come possono pretendere un nostro sì senza la minima eccezione? Le anomalie ci sono, e sono evidenti. C’è un manifesto eccesso di delega, perché quella votata in Parlamento parlava di reati fino a 3 anni che erano da individuare, invece loro non l’hanno fatto, per cui pure delitti come la diffamazione diventano motivo d’incandidabilità. È assurdo».
Senza la Lega, ben decisa a votare subito sì, il Pdl resta isolato ed è destinato a rimanere in minoranza se si vota. Per questo, alla fine, dirà di sì. Ma è ben deciso a tenere il punto fino all’ultimo. Perfino, per una volta, avanzando le stesse critiche del dipietrista Luigi Li Gotti. Il quale dichiara: «Quando si tratta di amici degli amici il governo è sempre di manica larga. Serviva un’inversione di marcia per garantire un Parlamento pulito, invece il decreto sull’incandidabilità esercita un eccesso di delega per aumentare la platea dei graziati perché anziché fissare l’asticella a 3 anni, come scriveva la delega, la porta quattro». Neanche a farlo apposta, in ambienti berlusconiani, ecco pronto l’attacco alla stampa: «Non ve lo siete chiesto il perché della modifica? Chi viene salvato con questo anno di abbuono? Se l’avesse fatto Berlusconi vi sareste scatenati, invece lo fanno Severino e Cancellieri e state zitti». Pure Bongiorno, proprio con Repubblica, aveva criticato la scelta di passare da tre a quattro anni. Dai ministri le polemiche non vengono raccolte. Quello della Giustizia Severino si augura solo che «la Camera si pronunci in tempi stretti» e annuncia che il governo «è pronto a intervenire », quindi a votare definitivamente il decreto. «Votare subito. Chiudere. Lanciare un segnale preciso sulle liste pulite» sostiene la Pd Donatella Ferranti. Questo potrebbe accadere se il Pdl non s’inventa qualcos’altro per mettersi di traverso.
La Repubblica 19.12.12

“Fiat, Marchionne parla a Melfi e esclude la Cgil dagli incontri”, di Massimo Franchi

Una Pomigliano 2. 0 qualcosa di molto vicino. A quasi un anno esatto dalla presentazione in pompa magna della Nuova Panda nello stabilimento campano, Sergio Marchionne e John Elkann concedono il bis a Melfi. Nello stabilimetip lucano i vertici della Fiat concluderaino un anno tormentato con un messa gio ottimista. Annunceranno i nuovi modelli che saranno prodotti a Melfi dal 2014, due piccoli Suv, realizzati sulla piattaforma B, quella delle utilitarie. Per i 5 mila operai di Melfi però si prospetta un 2013 di grande difficoltà. Proprio ieri la direzione della Fiat Sata ha comunicato ai sindacati un nuovo periodo di cassa integrazione per il mese di gennaio dal 14 al 21 gennaio 2013 e per i giorni 28 gennaio e 1 febbraio. Quello di Marchionne sarà un altro discorso politico, come quello de114 dicembre 2011. Il manager canado-abruzzese lo ha immaginato come un discorso di svolta in cui elogerà Monti e ne chiederà la candidatura e motiverà il cambio di strategia, i nuovi investimenti, proprio con l’opera di governo del premier tecnico che ha ridato lustro al Paese. Un amore ripagato, visto che Monti ha sempre appoggiato l’idea di una «Fiat impresa globale» che può investire dove vuole. Come a Pomigliano, Marchionne parrà alle maestranze e alle autorità (dalore 12) all’interno dello stabilimento p i.. Fiat Sata. Sarà anche l’occasione l iét incontrare i sindacati firmatari degli accordi e che si apprestano a chiude .,e ,anche anche il rinnovo del contratto Fiat. A Ielfi domani infatti scenderanno i segretari generali di Cisl, Uil, Ugl e Fismic. Con Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti, Giovanni Centrella e Roberto Di Maulo i vertici del Lingotto illustreranno le prospettive future del sito, mentre difficilmente parleranno degli altri stabilimenti, a partire da Mirafiori. Ancora una volta è esclusa la Cgil. Con la Fiom che protesterà fuori dai cancelli. Il segretario generale Maurizio Landini e il segretario nazionale e responsabile auto Giorgio Airaudo, incontreranno i lavoratori durante il cambio turno, in contemporanea con la conferenza stampa di Marchionne. «Saremo lì per ricordare a tutti che la Fiat ostentatamente sta ancora tenendo fuori dalla fabbrica i tre nostri iscritti, Giovanni Barozzino, Marco Pignatelli e Antono Lamorte, che hanno vinto la causa spiega Giorgio Airaudo pagandoli senza farli lavorare. In più speriamo che qualcuno dei sindacalisti che incontreranno Marchionne abbia il coraggio di chiedergli il futuro della Grande Punto, di cui non si sa ancora niente. Con la Grande Punto Melfi si assicurava grandi volumi di produzione e occupazione. Invece con i Suv la Fiat prende una strada rischiosa: i due Suv erano stati promessi a Mirafiori e sono rimasti bloccati per molti mesi. Più in generale chiude Airaudo la Fiat sta cercando di portare avanti una strategia stabilimento per stabilimento, ma non paga: a Pomigliano, pur con un nuovo prodotto, più di 2mila operai sono ancora fuori». RICORSO FIOM SU POMIGLIANO E proprio su Pomigliano continua il braccio di ferro legale tra Fiat e Fiom. È di ieri la notizia che il ricorso della Fiom sulla procedura di mobilità per i 19 operai che il Lingotto ha deciso di licenziare per ritorsione contro la sentenza che l’ha costretta ad assumerne 19 iscritti alla Fiom sarà esaminato dal Tribunale di Roma il prossimo 15 gennaio. Proprio pochi giorni prima della scadenza della procedura di mobilità e del tentativo di conciliazione fra azienda e sindacati.
L’Unità 19.12.12