Non più mutilazioni genitali femminili, basta con una barbara consuetudine che ogni anno, in una trentina di Paesi, mette a rischio la vita di milioni di ragazze. Lo ha deciso l’assemblea generale dell’Onu, adottando per consenso la risoluzione di messa al bando universale di questa pratica efferata. È una vittoria delle donne e dei diritti umani, perché l’orrendo “taglio rituale” perpetua quella relazione di diseguaglianza tra l’uomo e la donna, non solo nei Paesi di origine ma anche in quelli di immigrazione. Si stima che 140 milioni di donne siano state sottoposte a questa tortura, negazione della dignità della persona, inibizione della sessualità femminile e gravi rischi per la salute. «Hanno vinto il coraggio
e la tenacia, e la convinzione che non tutte le tradizioni sono giuste. Ci sono tradizioni nefaste, come questa, che vanno superate», ha commentato la vicepresidente del Senato, Emma Bonino, che da anni si batte in prima persona contro le mutilazioni.
La risoluzione esorta gli Stati membri dell’Onu a intraprendere «tutte le misure necessarie e a varare leggi che proteggano le donne e le ragazze da questa forma di violenza, mettendo fine all’impunità ». Soltanto in Africa ogni anno circa 3 milioni di ragazze subiscono questo supplizio, e in alcuni Paesi quali Somalia, Sudan, Eritrea, Djibuti, Egitto, Sierra Leone, Mali e Guinea è un’usanza quasi universale. Ma le mutilazioni sono abbondantemente praticate anche nello Yemen, nel Kurdistan iracheno e in Indonesia.
Le vittime sono per lo più bambine o adolescenti, e le mutilazioni vengono effettuate con rasoi e forbici ma anche, in mancanza d’altro, con una scheggia di vetro o un pezzo di latta appositamente affilato.
Ci sono diversi tipi di mutilazioni genitali femminili, tutti efferati e cruenti. Il più spaventoso è forse la infibulazione, che consiste nell’asportazione del clitoride, delle piccole labbra e di parte delle grandi labbra vaginali, cui segue la cucitura della vulva, lasciando aperto solo un foro. Altre prevedono la cauterizzazione dei genitali o innaturali perforazioni o perfino raschiamenti. Le conseguenze per la donna sono tragiche, perché – a causa della rimozione del clitoride – perde la possibilità di provare piacere sessuale. Non solo: i rapporti diventano dolorosi e difficoltosi, spesso insorgono cistiti, ritenzione urinaria e infezioni vaginali. Al momento del parto, possono sorgere altrettanto gravi problemi, poiché il bambino deve attraversare tessuto cicatrizzato e poco elastico. Secondo José Luis Diaz, rappresentante di Amnesty International presso l’Onu, «è un momento importante per tutti coloro che sono impegnati nella lotta contro le mutilazioni genitali femminili ». La risoluzione prevede misure punitive contro chi viola le leggi, e anche assistenza sanitaria e psicologica alle donne vittime. Resta tuttavia una domanda. Quanto tempo ci vorrà affinché il bando venga rispettato anche nelle campagne o nelle savane più remote del pianeta?
La Repubblica 21.12.12
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“Le mie figlie non saranno ferite come me così cambiamo il futuro delle donne”, di ALIX VAN BUREN
ASSETOU Billa Nonkane aveva tre mesi quando sua madre la sottopose alla clitoridectomia in Burkina Faso, il suo paese d’origine. Ma lei alle sue due bambine ha voluto risparmiare questa «terribile ferita». Una sfida agli imperativi culturali della sua patria, che ne ha fatto la portabandiera di una campagna che conduce da oltre un decennio. In Italia, dove vive a Pordenone, festeggia il voto delle Nazioni Unite.
Soddisfatta, dopo tanta lotta contro una delle più odiose violenze sul corpo della donna?
«E come non esserlo? È la prima volta che l’Onu si pronuncia sull’argomento. Questo aiuterà a cambiare il futuro di milioni di bambine, e non soltanto in Africa. Clitoridectiomie e infibulazioni
dovranno diventare una cosa del passato».
Per lei, però, e per molte donne della sua generazione, è troppo tardi? Il suo impegno nasce proprio dalla mutilazione subita da bambina?
«È vero, la cicatrice che porto sul mio corpo non scomparirà. Ma posso fare in modo che lo stesso non accada ad altre, a cominciare dalle mie figlie. Non volevo che perdessero una parte così importante del loro corpo. Ho dovuto proteggerle dalle pressioni della comunità ogni volta
che tornavamo in patria».
Lei, invece, non ha avuto scelta?
«Io avevo soltanto tre mesi, quando mia madre mi sottopose alla clitoridectomia. Era una donna analfabeta, e quella era la tradizione. Nessuno, all’epoca, osava sottrarsi alla pratica: farlo, sarebbe stato una fonte di disonore per l’intera famiglia. Avrebbe significato una perdita d’identità».
L’identità si fonda su una simile violenza?
«Bisogna capire che nei villaggi, in particolare rurali, devi essere uguale a tutte le altre se vuoi far parte di quella comunità, se vuoi trovare marito, se vuoi essere rispettata. Stiamo parlando di
usanze tramandate dagli antenati, difficili da estirpare».
Sua madre oggi è pentita di quel che le ha fatto?
«Lei pensava di farmi del bene: io neonata, gran parte del dolore fisico mi sarebbe stato risparmiato. In più, la cultura locale sottolineava l’aspetto “protettivo” della mutilazione».
Una protezione da cosa?
«Rispetto a desideri considerati illeciti sotto il profilo sociale: ad esempio il sesso prematrimoniale, oppure fuori del matrimonio, oppure ancora la masturbazione, un aspetto che non riguarda direttamente il maschio».
Il piacere della donna è immolato sull’altare dell’egemonia maschile?
«Tutto questo nasce in tempi antichi: prima che arrivasse da noi l’Islam, gli uomini avevano molte più mogli. Perché non cercassero altrove il piacere, perché fossero brave donne e mamme, se ne impose la mutilazione. Poi, con la religione islamica, il numero delle mogli è stato limitato a quattro. Ma la tradizione degli antenati è rimasta. Però, bisogna pensare anche alle colpe delle donne».
Quali sono?
«Loro sono state le prime guardiane della tradizione. Di madre in figlia, hanno imposto le stesse ferite pur di preservare la coesione sociale, la rispettabilità. Oggi ho mio marito al mio fianco: lui ha condiviso e difeso la mia scelta di non mutilare le nostre figlie».
Nel Burkina Faso la legge proibisce già dal ’96 le mutilazioni femminili. Quanto tempo passerà prima che la legge venga applicata?
«Già si sono viste molte incriminazioni, e tante donne, come me, hanno rifiutato di mutilare le proprie figlie. Ma la mentalità non si cambia da un giorno all’altro. Serve il voto dell’Onu, e anche il tempo».
La Repubblica 21.12.12
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“Bersani sfida Monti: basta partiti personali”, di Simone Collini
Gliel’ha detto a quattr’occhi, incontrandolo a Palazzo Chigi, che sarebbe stato più utile al Paese se fosse rimasto «fuori dalla contesa». Poi Pier Luigi Bersani ha atteso ancora qualche giorno, per vedere cosa avrebbero prodotto le riflessioni di Mario Monti. Ma ora che si parla esplicitamente di una lista con il nome del premier nel simbolo, il leader del Pd batte un colpo: «Non fa bene all’Italia costruire le formazioni politiche intorno alle persone».
Bersani vuole sentire una parola definitiva dal capo del governo («sono curioso anch’io di sapere quale sarà la conclusione delle riflessioni del presidente Monti»), ma se dovessero rivelarsi fondate le indiscrezioni che ormai da quarantott’ore stanno filtrando da Palazzo Chigi, il giudizio del leader Pd non sarebbe affatto positivo. «Noi siamo stati lealissimi verso il governo Monti», dice a SkyTg24, «francamente, non avevo immaginato che potesse essere nella contesa e non so se sarà questa la sua scelta». Fosse questa la decisione del presidente del Consiglio, il Pd non avrebbe «nessuna difficoltà, nessun problema particolare» a giocare la partita avendo di fronte un nuovo competitor. Dice però Bersani facendo entrare in una nuova fase il confronto con il premier: «L’unica cosa di principio che ho sempre posto al presidente Monti è che non credo faccia bene all’Italia costruire formazioni politiche intorno alle persone. Io ho detto che il mio nome sul simbolo non lo metterò mai. In nessun Paese democratico al mondo si procede così. Le formazioni politiche devono essere guidate da persone ma devono essere costruite intorno ai programmi, non alle persone».
CON CHI STANNO I CENTRISTI?
Ormai è chiaro che a meno di un ripensamento da parte del premier, a giocare un ruolo da protagonisti in questa campagna elettorale saranno in tre: Bersani, Monti e Berlusconi, che il leader Pd è pronto a incontrare in un confronto televisivo («dove c’è Berlusconi come si fa a mancare? risponde con un sorriso a SkyTg24 Io sono disponibilissimo, mi pare una cosa utilissima, seria»).
La novità è che il leader del Pd, al quale non è piaciuta la visita di Monti con Marchionne allo stabilimento Fiat di Melfi, ha deciso di giocare ora la partita insistendo sulla differenza del suo partito rispetto alle altre formazioni. Per questo insiste sulla decisione di organizzare le primarie per i candidati parlamentari, che il segretario democratico mette in contrapposizione con le due operazioni che vanno sotto il segno del personalismo. «Ho una fiducia enorme nella partecipazione e una sfiducia enorme nell’uomo solo al comando». Una frase che in passato ha più volte pronunciato con riferimento polemico a Berlusconi, e che però in queste ore si carica di un nuovo significato.
In questo caotico finale di legislatura c’è bisogno di fare chiarezza, secondo Bersani, di definire i campi di gioco e gli schieramenti. Per questo il leader Pd non esita a sfidare apertamente Monti e per questo prova a stanare i centristi che da troppo tempo ormai si muovono sul filo dell’ambiguità. Così, il giorno dopo che il ministro Andrea Riccardi ha detto che «il centro di Monti sarebbe alternativo alla sinistra», Bersani rilancia la proposta di un patto di legislatura tra progressisti e moderati, e però al contrario del passato ci aggiunge una richiesta di chiarezza: «Io voglio costruire un centrosinistra che abbia disponibilità ad incontrare un centro moderato, europeista, saldamente costituzionale. Che io abbia o non abbia la maggioranza. Sarebbe interessante chiedere a queste formazioni centrali cosa pensano loro del Pd, perché noi siamo il partito più grande. Sento cose a volte contraddittorie: qualcuno dice “siamo alternativi”, altri dicono “siamo colloquiali”. Io non mi sento alternativo al centro moderato, mi sento alternativo a Berlusconi e alla Lega».
LA PARTITA DELLE LISTE
Mentre Bersani centra la sua strategia contro le liste personali, nel partito si discute delle deroghe da concedere a parlamentari europei, sindaci di Comuni oltre i 5000 abitanti e consiglieri e assessori regionali che vogliono candidarsi alle primarie, e anche dei nomi da inserire nel 10% esonerato dalla sfida ai gazebo. Al comitato elettorale, riunito ieri fino a tarda sera, sono arrivate oltre cento richieste di deroga. Il criterio seguito è stato però quello di limitare al massimo il via libera, anche per evitare un effetto domino con lo scioglimento anticipato di molti consigli comunali. Di segno opposto è l’iniziativa della Direzione del Pd di Modena, che ha approvato un ordine del giorno in cui si chiede che un sindaco dell’area colpita dal terremoto «o comunque una personalità della società civile rappresentativa dell’impegno nel fronteggiare il post-sisma venga inserito nel listino delle candidature appanaggio del segretario».
Questo 10% di nomi è però ancora al centro di trattative tra le diverse anime del partito. Al momento sembra ci debbano essere tutti i segretari regionali del Pd e chi ha corso alle precedenti primarie del partito (Matteo Renzi non ci sarà, ma verranno inseriti i membri del suo comitato). Una curiosità che sta emergendo a scorrere l’elenco di chi correrà alle primarie: nel prossimo Parlamento Sandra Zampa potrebbe essere l’unica prodiana, visto che Parisi, Magistrelli, Santagata, Barbi e gli altri parlamentari vicini al Professore stanno pensando di non ripresentarsi.
L’Unità 21.12.12
“Salvataggio Alitalia, tutto da rifare vendita scontata a Air France o ritorno nelle mani dello Stato”, di Ettore Livini
I conti, malgrado il lavoro della cordata dei patrioti, non quadrano ancora: la compagnia perde 630mila euro al giorno, i 735 milioni di rosso accumulati nei quattro anni di gestione privata hanno bruciato quasi tutto il capitale, la liquidità in cassa si è assottigliata a 300 milioni. E i soci – divisi tra di loro e a corto di quattrini – si preparano a giocare il jolly della finanza creativa (lo spinoff con maxi-rivalutazione delle Mille Miglia) per evitare di dover metter mano al portafoglio e ricapitalizzare l’azienda. Il redde rationem comunque è vicino. Il prossimo 12 gennaio scatterà la campanella del “liberi tutti”.
Gli azionisti, scaduto il vincolo del lock-up, potranno vendere le loro partecipazioni. E nell’arco di pochissimi mesi si deciderà per l’ennesima volta il futuro dell’aerolinea tricolore, sospesa tra la tentazione di una rinazionalizzazione strisciante (la politica, in allarme, ha già iniziato a muovere le sue pedine) e una cessione a prezzi d’affezione a quella stessa Air France che nel 2008 aveva messo sul piatto 2,4 miliardi per farsi carico della società. Senza lasciare, piccolo particolare, un euro di spesa a carico dei contribuenti tricolori.
LA CHIMERA DELL’UTILE
Come si è arrivati (o per meglio dire tornati) a questo punto? Il piano Fenice redatto da Banca Intesa e dagli imprenditori guidati da Roberto Colaninno prevedeva di arrivare all’utile operativo nel 2011. Ridimensionando il network, ringiovanendo la flotta e spostando l’hub a Roma. In un quadriennio sono stati fatti passi avanti (la flotta Alitalia a gennaio sarà la più giovane d’Europa), la pax sindacale è stata garantita e «la compagnia è viva e nuova », come dice ottimista il nuovo ad Andrea Ragnetti. Peccato che i numeri – l’unica cosa che conta davvero – non tornino ancora. La chimera dell’utile operativo è stata spostata al 2014 («nel 2013 lo scenario peggiorerà», mette le mani avanti l’ad). Da gennaio a settembre – complice il boom del greggio, la crisi economica e la concorrenza di treno e low cost – l’aerolinea tricolore ha perso 173 milioni, 150 in più del 2011. E da allora le cose sembrano essere peggiorate, con la navetta Milano-Roma (ex gallina dalle uova d’oro del gruppo) che viaggia con il 15% di passeggeri in meno rispetto al 2011 e con i piloti, sussurrano in camera caritatis alcuni di loro, costretti a zavorrare la parte anteriore degli aerei per bilanciarli, visto che si vendono solo i posti in coda, quelli meno costosi.
IL NODO DELLA LIQUIDITA’
I 300 milioni in cassa a fine settembre dovrebbero consentire di lavorare ancora senza troppi patemi almeno per un po’ di tempo anche se da oggi fino (almeno) a marzo Alitalia continuerà a mangiare cassa. Il vero problema è a monte e si chiama ricapitalizzazione. Le perdite accumulate in quattro anni – in tutto 735 milioni – hanno bruciato due terzi del capitale. Degli 1,16 miliardi versati dai soci a inizio 2009 (323 messi da Air France, 827 dai 20 “patrioti”) ne sono rimasti circa 400. Troppo pochi. A norma di codice civile sarebbe necessaria una ricapitalizzazione. Peccato che molti dei soci dell’aerolinea – basti pensare a Gavio, Fonsai e Riva – abbiano altre gatte da pelare e non vogliano buttare altri soldi in quello che rischia di rimanere ancora per un po’ un pozzo senza fondo. Risultato: l’unica in grado di metter mano al portafoglio è Air France, portandosi via per poche centinaia di milioni di euro il mercato aereo tricolore e la stessa società per cui nel 2008 aveva messo sul piatto senza batter ciglio dieci volte tanto. Il management, per evitare un finale di questo tipo, ha dato fondo ai manuali di finanza creativa cavando il coniglio dal cilindro: la “societarizzazione” delle Mille Miglia. In sostanza lo spin-off di una scatola vuota cui conferire il piano di fidelizzazione (l’ha già fatto Air Canada) rivalutandone il valore. Un’operazione di ingegneria contabile in grado di far emergere a bilancio il valore dell’asset – i più ottimisti parlano di un’iniezione virtuale di liquidtà di 200 milioni – allontanando lo spettro dell’aumento di capitale e cavando le castagne dal fuoco a un azionariato con le tasche vuote.
TRA ROMA E PARIGI
Si tratta, come ovvio, di una soluzione tampone. In grado al limite di posticipare di qualche mese le scelte radicali necessarie per salvare di nuovo Alitalia. La strategia dei soci privati – concentrarsi sul mercato domestico e sul medio raggio, affidand—osi per l’intercontinentale ai partner Air France e Klm – non ha pagato. Sul medio raggio l’aerolinea tricolore non è in grado di competere con Easyjet e Ryanair. E l’avvento dell’alta velocità ha ridimensionato i margini sul mercato interno.
«Come uscire dall’impasse? La politica e la finanza tricolore hanno già iniziato a mettersi in azione. Il governo Monti (Corrado Passera 4 anni fa è stato il regista del salvataggio made in Italy) ha sondato con discrezione la Cassa depositi e prestiti. Obiettivo: cooptare il Fondo strategico italiano come cavaliere bianco per scongiurare terremoti occupazionali. Una sorta di ritorno tra le braccia dello Stato. Il progetto però non è di facile realizzazione, se non altro perché lo statuto del fondo prevede investimenti solo in aziende in equilibrio finanziario. Identikit in cui non rientra l’aerolinea. Lo stesso Giovanni Gorno Tempini, ad del Fondo, ha ammesso ieri che «Alitalia non ha le caratteristiche per un eventuale investimento».
Air France sta studiando a distanza la situazione. Lazard ha un mandato per studiare la fusione tra Parigi e Alitalia. L’operazione, numeri alla mano, è praticabile visto che il rally dei titoli del vettore transalpino (raddoppiati in sei mesi) rende realistici i valori di un concambio. Ma il matrimonio non è facile. Fonti della banca francese confermano che al momento siamo ancora ai pour parler.
Air France sa di avere il coltello dalla parte del manico, ha il tempo dalla sua e non vuole strapagare. Mentre i soci italiani non sono pronti ad accettare offerte che non consentano loro di rientrare del capitale investito. Ipotesi, allo stato, quasi dell’irrealtà. Intanto la sabbia continua a correre nella clessidra. E l’Alitalia salvata da Silvio Berlusconi, pochi ne dubitano, sarà una delle prime patate bollenti sul tavolo del nuovo governo.
La Repubblica 21.12.12
“Chi tradisce l’Università”, di Pietro Greco
Duole constatarlo. Ma anche i tecnici, in Italia, pensano che l’università e la ricerca non siano la priorità del Paese. Non uno tra i principali problemi da risolvere, ma la priorità assoluta.Il primo punto dell’agenda politica ed economica. Che anche i tecnici, in Italia e quasi solo in Italia, non lo pensino è la cronaca di queste ore a dimostrarcelo in maniera plastica. Il decreto di legge Stabilità la vecchia legge finanziaria scritto dal governo dei tecnici che è stato approvato ieri, con voto di fiducia, al Senato, prevede solo 100 milioni di incremento per il Fondo di finanziamento ordinario delle università, contro i 400 milioni necessari per il loro normale funzionamento. Il che significa come ha detto il presidente della Conferenza dei rettori, Marco Mancini che molti atenei italiani non avranno nel 2013, i soldi necessari per pagare gli stipendi ai loro dipendenti e/o le bollette ai loro fornitori e/o le borse di studio agli studenti che hanno il torto di essere meritevoli senza essere ricchi. Tuttavia occorre dire che non pensano all’università come alla priorità del Paese anche molti tecnici che non sono al governo, ma sono in Parlamento, anche tra le fila del centrosinistra. Per esempio, lo diciamo col massimo rispetto, Pietro Ichino che lo scorso 10 dicembre, insieme a Daniele Terlizzese, ha firmato, sul Corriere della Sera, un articolo nel quale sostiene che sono i poveri, in Italia, a pagare l’università ai figli dei ricchi. Le tesi è controversa. Ma non è di questo che vogliamo parlare. Quanto della conclusione dell’articolo e dell’argomentazione. Secondo i tecnici Ichino e Terlizzese, infatti: «La scuola è e deve essere per tutti: è lì che si devono davvero creare le pari opportunità. L’università è altra cosa». Sottintendendo che l’università non è e non deve essere per tutti, ma solo per un’elite di meritevoli. Sia chiaro, Ichino e Terlizzese sostengono che l’università deve essere solo per i «veri» meritevoli, indipendentemente dal reddito dei loro padri. E tuttavia è quell’assunto che non ci convince. Che l’università non debba essere per tutti. Magari severa, ma per tutti. Le due posizioni, quella del governo dei tecnici e quella di Ichino e Terlizzese, per quanto molto diverse, hanno un tratto in comune: sottostimano entrambe il valore strategico non solo per la cultura (e non sarebbe poco), me per l’economia e dunque per la società dell’università. Non siamo più nel XIX secolo. L’università non è più il luogo dove si formano le classi dirigenti di un Paese. Non siamo più neppure nel XX secolo: le università non sono più il luogo dove si formano, in maniera democratica, le classi dirigenti estese di un paese. Siamo nel XXI secolo: il secolo della conoscenza. Il secolo in cui la popolazione in età da lavoro tra i 25 e i 65 (anzi, i 70 anni ormai) sarà e in parte è già formata da persone che hanno tra i 20 e i 25 anni di studio alle spalle (ovvero almeno una laurea e possibilmente un master post-laurea o un dottorato). Non è uno scenario accademico. È già una concreta realtà. Nei Paesi dell’Ocse il 40% della popolazione giovanile (tra i 25 e i 34 anni) ha almeno una laurea. La percentuale sale e persino supera il 55% in Paesi molto diversi tra loro, come il Canada, il Giappone, la Russia. Tocca, addirittura, la punta del 63% in Corea del Sud. L’Italia, invece, ha solo il 20% di laureati in questa fascia di età. E la percentuale è destinata a scendere, visto che negli ultimi anni sono scese le iscrizione all’università. E continuerà a scendere, visto che molte università pubbliche correranno il rischio di chiudere o quantomeno di ridimensionarsi. La questione che qualsiasi governo, tecnico o politico, a iniziare dal prossimo deve porsi è: possiamo sostenere questa forbice che va allargandosi rispetto al resto del mondo? Possiamo immaginare un futuro degno per l’Italia, se fra trent’anni la gran parte dei paesi del mondo conterà una popolazione in età da lavoro costituita per oltre la metà di persone con 20 o 25 anni di studio alle spalle e noi potremo contare su una popolazione che per oltre l’80-85% avrà meno di 15 anni di studio alle spalle? Non correremo il rischio di un paese, l’Italia, fuori dall’economia che conta l’economia della conoscenza che sarà costretto a esportare all’estero l’unica ricchezza di cui potrà disporre: tante braccia invece che tanti cervelli? Non vedremo di nuovo i nostri giovani, privi di un titolo alto di studio, andare in Canada o piuttosto in Corea o in Russia per svolgere i lavori che i canadesi, i coreani, i russi, per lo più laureati, non vorranno più svolgere? Cari tecnici, l’università pubblica, con buoni fondi e aperta tendenzialmente a tutti, non ha alternative. Se non il declino definitivo, civile ed economico, del Paese.
L’Unità 21.12.12
“Anno 2012, la rivincita della vecchia televisione”, di Ilvo Diamanti
IL 2012 è l’anno di Monti. Non solo dal punto di vista politico, ma anche dell’informazione. Del rapporto fra gli italiani e i media. L’intreccio fra Rai e Mediaset, quasi indissolubile al tempo del governo Berlusconi, si è allentato. RaiSet si è spezzata. Almeno, agli occhi degli italiani. È ciò che emerge dal sondaggio di Demos-Coop, per l’Osservatorio sull’informazione, pubblicato oggi. Lo dimostra, anzitutto, la fiducia nel Tg1, il notiziario “istituzionale”. Durante la direzione di Augusto Minzolini aveva subito un pesante declino. Dal 2007 (quand’era direttore Gianni Riotta) al 2011, infatti, era collassata: dal 69 per cento al 50. Nell’ultimo anno è risalita al 56 per cento. Peraltro, il suo pubblico si è, politicamente, riavvicinato al Centro. Dopo essere scivolato fortemente a destra, negli ultimi anni. È interessante notare come gli altri tg cresciuti maggiormente, sotto il profilo della fiducia, nel corso del 2012, siano il Tg2 e, ancor più, il Tg4. Che, evidentemente, ha “beneficiato” dell’allontanamento di Emilio Fede: quasi 9 punti in più rispetto a un anno fa.
Tutti gli altri notiziari hanno mantenuto indici di fiducia analoghi a quelli degli anni precedenti. Con pochi scostamenti. Il Tg3 resta il più apprezzato (oltre 60 per cento di giudizi positivi). Seguito dagli altri tg della Rai e dal tg di La 7. Il notiziario che, negli ultimi cinque anni, ha visto crescere maggiormente il gradimento (oltre agli ascolti). Insieme a RaiNews24 e SkyTg24. A conferma dell’importanza assunta dai canali tematici, che offrono informazione a flusso continuo.
In generale, la televisione pare aver riconquistato credibilità, agli occhi degli italiani. Anche se di poco (oltre 2 punti più del 2011). Tuttavia, il mezzo più affidabile
resta internet. Considerato il canale dove l’informazione è più «libera» e «indipendente» da oltre il 41 per cento degli intervistati. In lieve crescita rispetto all’anno scorso. Mentre la fiducia nei giornali e nelle radio è scesa, seppure in misura limitata.
L’ascesa di Monti, dunque, pare aver restituito credibilità alla tv, luogo emblematico del Berlusconismo. I dati del sondaggio Demos- Coop mostrano, inoltre, come l’interesse verso i talk e i programmi di approfondimento politico non sia calato. Sostenuto, sicuramente, da fenomeni politici nuovi e mediaticamente significativi, emersi nel corso del 2012.
Come Beppe Grillo e il M5S. Le primarie del Pd. E, nell’ultimo mese, la crisi di governo. Insieme al ritorno di Berlusconi. La stessa “antipolitica”, in fondo, ha offerto motivo di “spettacolo”. Politico. Così, gli indici di attenzione e di fiducia verso i programmi di informazione e approfondimento non si discostano da quelli — piuttosto elevati — dell’anno scorso. In particolare, Ballarò, condotto da Giovanni Floris, continua ad essere consideratoilpiùaffidabile(54per cento). Seguito da Report, di Milena Gabanelli (46 per cento). A conferma della “specialità” della Terza rete Rai, nell’ambito dell’informazione e del dibattito. Affiancata, in questo ruolo, da La 7. Dove Otto e mezzo, condotto da Lilli Gruber, ha visto crescere ulteriormente il proprio credito, fra gli italiani. Oggi ha raggiunto il 40 per cento: risulta il programma che ha ottenuto il maggiore incremento: 4 punti più di un anno fa, maoltre15piùdel2007(quand’era condotto da Giuliano Ferrara). Significativo l’indice di fiducia verso Servizio Pubblico, di Michele Santoro (quasi il 42 per cento). Approdato a La7 dopo un anno “senza rete”. Scende, invece, il consenso verso il programma di Bruno Vespa, Porta a Porta (35 per cento), e verso l’Infedele di Gad Lerner (33 per cento). Il quale, peraltro, ha cessato le trasmissioni, dopo dieci anni.
Hanno, invece, sofferto maggiormente i programmi di satira e i talk popolari. D’altronde, è difficile ridere del Professore. E della politica. Tanto più in tempi di crisi economica segnati da un crescente clima antipolitico. Peraltro, il protagonismo politico del Cavaliere, dopo il ritorno, supera e spiazza ogni possibile ironia. È al di là di ogni satira.
Tuttavia, Striscia la Notizia, di Antonio Ricci, continua a piacere a oltre il 60 per cento degli italiani. Anche il programma di Fabio Fazio, Chetempochefa, e le Iene mantengono un livello di gradimento
molto elevato (superiore al 50 per cento).
Crozza nel Paese delle Meravigliesi colloca su livelli più bassi (35 per cento). D’altronde, La7 garantisce ascolti più limitati. Maurizio Crozza, tuttavia, firma l’apertura (e il momento di maggiore ascolto) di un programma di successo come Ballarò.
Nel 2012, peraltro, proseguono alcune tendenze, nel rapporto fra cittadini e informazione, già emerse in modo chiaro negli anni precedenti.
In particolar modo, la perdita di spazio della radio, ma soprattutto dei giornali in edizione cartacea. I quali, però, vengono letti e consultati con altri mezzi. In particolare: Internet. Utilizzato, quotidianamente, dal 40 per cento degli italiani (nel 2007 erano il 25 per cento) per informarsi. Infatti, oltre 6 internauti su 10 frequentano assiduamente le edizioni online dei quotidiani. Ma il 50 per cento di chi frequenta la Rete ne fa un canale di discussione e di partecipazione civica diretta. Attraverso i social network e i blog. È il “popolo” della Rete. Rispetto alla media, più giovane, istruito, politicamente critico, ma anche interessato e consapevole. Più orientato a sinistra.
Il principale canale di informazione, tuttavia, resta la televisione. Utilizzata,
ogni giorno, dall’80 per cento della popolazione. Gli italiani si fidano poco della tv e ricorrono, in misura crescente, ad altri media e altri canali di informazione. Ma quasi tutti continuano a «consultarla». E oltre il 20 per cento si informa «solo» attraverso la tv. Si tratta, per lo più, di donne, anziani, pensionati, di livello di istruzione e ceto sociale medio basso. Queste persone tra-
scorrono davanti allo schermo oltre 4 ore della loro giornata. Sono politicamente incerti. Oltre metà: indecisi se e per chi votare. Per questo la televisione e il suo pubblico, soprattutto quello esclusivo e fedele, continua ad essere importante per i leader politici dei partiti principali. Per questo interessa tanto a Berlusconi. Per questo il Cavaliere, ri-disceso in campo, una volta ancora, dopo un anno di sosta, ha deciso di occupare e di affollare nuovamente i talk politici delle reti private e pubbliche. Perrivolgersialsuo“popolo”. La Rete gli è ostile. Ma la Tivù è il suo elemento. E conta di moltiplicare il proprio consenso, moltiplicando il tempo e lo spazio in tivù.
L’attenzione e l’audience — eccezionali — ottenuti dall’orazione dedicata da Roberto Benigni alla Costituzione, tuttavia, suggeriscono che il clima d’opinione sia cambiato. E sollevano un dubbio. Che l’ennesima replica del Tele-Berlusconismo possa, infine, esaurirsi nella noia.
La Repubblica 21.12.12
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Dai blog ai social network la carica dei “cittadini 2.0”, di LUIGI CECCARINI
Li possiamo definire cives.net.
È una “community” di cittadini che usa la rete anche per seguire la politica. I nuovi media, ormai non più così “nuovi”, fanno parte della vita degli italiani. Ma anche del loro modo di informarsi, discutere, partecipare: di essere cittadini.
L’Osservatorio Demos-Coop, che ogni anno si concentra sul rapporto tra media e politica, conferma questa tendenza, già registrata nelle scorse edizioni. Il 58 per cento della popolazione ha accesso ad Internet e il 44 per cento lo usa tutti i giorni. Per il 40 per cento è una fonte quotidiana di informazione. Rispetto a un anno fa, il solo canale che fa registrare una piccola, ma significativa, crescita nell’utilizzo è proprio la rete: + 3 punti percentuali.
Cala, invece, la fruizione degli strumenti tradizionali: la tv, la radio, i giornali. Internet continua ad essere considerato il luogo dove l’informazione è più libera e indipendente: 41 per cento. Un aspetto non da poco per la democrazia. Per la Tv il dato è il 24 per cento. Ciò significa che la si guarda senza fidarsi troppo. Per i giornali si scende al 17 per cento. Se poi consideriamo i soli cittadini in rete, il 63 per cento di questi legge i quotidiani on-line. Il 57 per cento partecipa a un social network. Il 50 per cento discute o si informa di politica nel Web(2.0). Una quota ridotta, ma significativa, mette in pratica anche azioni più “impegnate”: l’11 per cento ha postato commenti o partecipato a qualche discussione di politica nei blog o nei social network. Il 9 per cento segue un partito, un leader o un gruppo politico attraverso Facebook, il 4 per cento su Twitter.
Coloro che utilizzano la rete anche per discutere e informarsi di politica (quota pari alla metà degli internauti, cioè il 29 per cento della popolazione) fanno un uso più intenso di questo strumento. Ad esempio frequentano di più i social network (63 per cento). Rimangono connessi per più tempo, anche in mobilità con gli smartphone e i tablet. Del resto sono più giovani e scolarizzati, studenti, ceti medi impiegatizi e professionisti. Di genere maschile. Si riconoscono maggiormente nell’area di sinistra o di centrosinistra, ma anche nel MoVimento di Grillo. Si dicono particolarmente interessati alla politica. Si mobilitano più spesso, sottoscrivendo, ad esempio, campagne di opinione, petizioni, e non solo online. Oltre ad Internet, per informarsi, usano di più la tv satellitare e meno quella generalista. Ma è interessante sottolineare che il loro coinvolgimento non resta confinato nella dimensione online. Il 64 per cento, il doppio di quanti navigano senza però informarsi di politica, discute di questioni pubbliche anche nel circuito delle proprie reti sociali: gli amici, la famiglia, i colleghi. Internet diventa così uno stimolo al confronto, un luogo concreto della cittadinanza.
Il Web (2.0) si pone come estensione della sfera pubblica. E non si configura come spazio a sé stante. È sicuramente vero che mobilita, anzitutto, quei soggetti già attivi e con forti attitudini all’impegno. Ma l’intreccio tra rete e partecipazione è ormai evidente. E i cives.net ne sono l’espressione.
La Repubblica 21.12.12
“Il male oscuro dopo il terremoto”, di Michele Brambilla
Chi, uscendo dall’autostrada a Modena, salisse su nella Bassa fino a Mirandola, passando per Carpi Medolla e Cavezzo, e magari deviando anche verso Finale San Felice e Rovereto sul Secchia, non avrebbe l’impressione di attraversare una terra che, se non la fine del mondo, la fine di un mondo l’ha già vissuta, e solo sette mesi fa.
Non si vedono – se non di rado: e si tratta di vecchie cascine sparse qua e là. Oppure di antiche chiese – non si vedono più, dicevamo, case distrutte; né tendopoli, baracche, container. Certo alcuni segni del Mostro si scorgono ancora: in qualche strada, in uno spazio aperto, dietro le transenne che cintano pezzi di centri storici. Ma l’impressione è che non solo il peggio sia passato, ma anche che la vita sia ripresa come in quel bel tempo recente, quando questa piccola fetta di Emilia produceva, da sola, il due per cento del Pil nazionale. Eppure il Mostro si agita ancora. È invisibile, perché si manifesta nella sua forma più subdola: la paura. Ma si agita e uccide. Tre settimane fa, a Mirandola, c’è stata una tavola rotonda sulla ricostruzione e alla fine il sindaco, Maino Benatti, ha detto che purtroppo anche quella giornata era stata funesta, perché s’era avuta notizia di un suicidio. Di un altro, di un nuovo suicidio. Quanta gente s’è tolta e ancora si toglie la vita, per colpa di quei maledetti 20 e 29 maggio scorsi? «Non ho cifre sicure, ma io ne ho sentiti cinque, negli ultimi due mesi, solo qui», mi dice Benatti nella scuola che ospita provvisoriamente la sede del Comune, in una strada intitolata a Dorando Pietri, un altro emiliano di tenacia e sfortuna. «Non lo so», continua il sindaco, «se sono più del solito. Certo adesso ci si fa più caso». Ed è certo anche che il terremoto ha aumentato il male di vivere. «Non ci sono ancora statistiche comparate con gli anni passati. Ma di sicuro un rischio di maggiori comportamenti autolesivi c’è», spiega il dottor Fabrizio Starace, responsabile del dipartimento di salute mentale dell’Ausl di Modena. «È aumentato, ad esempio, il consumo di alcolici… E abbiamo molte diagnosi di stati ansiosi e depressivi ». Come combattere questo nemico che ama agire di nascosto? «Abbiamo allertato i medici di base: state attenti a cogliere i primi segni di malessere. L’abbiamo detto anche ai professori nelle scuole: occhio ai ragazzi, soprattutto a quelli che hanno cambiato comportamento dopo il sisma. I prof, appena hanno un segnale, ci avvertono. Ma è dura, perché anche i prof sono vittime del terremoto. Anche loro si svegliano di notte e pensano: non succederà ancora? ». A Medolla, in piazza Donatori di sangue, c’è un piccolo container. È l’ambulatorio del dottor Nunzio Borelli, uno dei quattro medici del paese, mille e quattrocento pazienti a carico. Nei nove comuni del cratere, i medici di base sono 67: il 60 per cento è ancora in container. Borelli, che è anche un rappresentante sindacale della categoria, ha appena partecipato, a Carpi, a un incontro di aggiornamento professionale con uno psichiatra: «Ci ha riportato un dato ormai consolidato dalla letteratura mondiale: dove c’è stato un terremoto, nel primo anno i suicidi aumentano del 63 per cento. Dopo cinquant’anni, la gente del posto ha ancora paura. Io ho quattro figli, la più piccola ha diciotto anni, l’altro giorno ho pensato: a 68 anni Benedetta avrà ancora paura. Ormai il terremoto è entrato nel nostro Dna». Gli chiedo in quanti suicidi s’è già imbattuto. Dice che bisogna stare attenti a diffondere dati, c’è il rischio emulazione, «e comunque sono, nei nove comuni del cratere, una decina negli ultimi due-tre mesi». Altri dati sono comunque inconfutabili: «Noi 67 medici di famiglia di quest’area vediamo quattromila pazienti al giorno. Un terzo è per patologie di tipo psicologico. Guardo le ricette: c’è un più trenta per cento di benzodiazepine e antidepressivi ». Dice che le situazioni più a rischio riguardano persone che mai, prima, avevano sofferto di disturbi del genere: «I166 per cento di quelli che stanno male adesso appartiene a quella categoria lì: nessun problema prima del terremoto», dice Borelli. Ma non sono forse, gli emiliani, gente forte? Ho in mente la prima immagine che mi si presentò il 29 maggio a Rovereto sul Secchia. Era l’ora di pranzo e pochi minuti prima c’erano state tre scosse tremende: magnitudo 5,4; 4,9 e 5,2. Avevo davanti il signor Gino, un uomo grande e grosso che alle 9 del mattino, durante la prima scossa di quel giorno, aveva tirato fuori dalle macerie della chiesa il parroco, che gli era poi morto fra le braccia. Mentre mi raccontava l’accaduto, il signor Gino mescolava un enorme pentolone di pastasciutta per dar da mangiare alla gente in piazza. Mi sembrò l’immagine dell’Emilia che riparte subito. «Sono quelle che chiamiamo “reazioni eroiche”», mi spiega il dottor Starace. «Quelli che l’hanno avuta, però, a volte hanno un calo nei mesi seguenti. È come se si dicessero: ora mi concedo anch’io il diritto di star male». Si soffre e si muore ancora, insomma, in Emilia, di terremoto. «Il 90 per cento delle attività produttive è ripartito, non c’è più quasi nessuno senza casa, anche il problema delle tasse è stato risolto con dilazioni e rateizzazioni. Dei 12 miliardi di euro di aiuti che dovevano arrivare, 9 sono già arrivati. Il disagio dunque non è legato a danni economici e materiali», dice il sindaco di Mirandola, Benatti: «È che abbiamo vissuto qualcosa più grande di noi». Ed è che l’uomo non è fatto di sola materia, e nell’animo si è aperta una ferita che lascerà sempre, almeno, una cicatrice.
Dopo il sisma i prof, appena hanno un segnale, ci avvertono. Ma è dura, perché anche i prof sono vittime del terremoto. Anche loro si svegliano di notte e pensano: non succederà ancora? ». A Medolla, in piazza Donatori di sangue, c’è un piccolo container. È l’ambulatorio del dottor Nunzio Borelli, uno dei quattro medici del paese, mille e quattrocento pazienti a carico. Nei nove comuni del cratere, i medici di base sono 67: il 60 per cento è ancora in container. Borelli, che è anche un rappresentante sindacale della categoria, ha appena partecipato, a Carpi, a un incontro di aggiornamento professionale con uno psichiatra: «Ci ha riportato un dato ormai consolidato dalla letteratura mondiale: dove c’è stato un terremoto, nel primo anno i suicidi aumentano del 63 per cento. Dopo cinquant’anni, la gente del posto ha ancora paura. Io ho quattro figli, la più piccola ha diciotto anni, l’altro giorno ho pensato: a 68 anni Benedetta avrà ancora paura. Ormai il terremoto è entrato nel nostro Dna». Gli chiedo in quanti suicidi s’è già imbattuto. Dice che bisogna stare attenti a diffondere dati, c’è il rischio emulazione, «e comunque sono, nei nove comuni del cratere, una decina negli ultimi due-tre mesi». Altri dati sono comunque inconfutabili: «Noi 67 medici di famiglia di quest’area vediamo quattromila pazienti al giorno. Un terzo è per patologie di tipo psicologico. Guardo le ricette: c’è un più trenta per cento di benzodiazepine e antidepressivi ». Dice che le situazioni più a rischio riguardano persone che mai, prima, avevano sofferto di disturbi del genere: «I166 per cento di quelli che stanno male adesso appartiene a quella categoria lì: nessun problema prima del terremoto», dice Borelli. Ma non sono forse, gli emiliani, gente forte? Ho in mente la prima immagine che mi si presentò il 29 maggio a Rovereto sul Secchia. Era l’ora di pranzo e pochi minuti prima c’erano state tre scosse tremende: magnitudo 5,4; 4,9 e 5,2. Avevo davanti il signor Gino, un uomo grande e grosso che alle 9 del mattino, durante la prima scossa di quel giorno, aveva tirato fuori dalle macerie della chiesa il parroco, che gli era poi morto fra le braccia. Mentre mi raccontava l’accaduto, il signor Gino mescolava un enorme pentolone di pastasciutta per dar da mangiare alla gente in piazza. Mi sembrò l’immagine dell’Emilia che riparte subito. «Sono quelle che chiamiamo “reazioni eroiche”», mi spiega il dottor Starace. «Quelli che l’hanno avuta, però, a volte hanno un calo nei mesi seguenti. È come se si dicessero: ora mi concedo anch’io il diritto di star male». Si soffre e si muore ancora, insomma, in Emilia, di terremoto. «Il 90 per cento delle attività produttive è ripartito, non c’è più quasi nessuno senza casa, anche il problema delle tasse è stato risolto con dilazioni e rateizzazioni. Dei 12 miliardi di euro di aiuti che dovevano arrivare, 9 sono già arrivati. Il disagio dunque non è legato a danni economici e materiali», dice il sindaco di Mirandola, Benatti: «È che abbiamo vissuto qualcosa più grande di noi». Ed è che l’uomo non è fatto di sola materia, e nell’animo si è aperta una ferita che lascerà sempre, almeno, una cicatrice.
La Stampa 20.12.12
“Italiani-tedeschi non è più tempo di pregiudizi”, di Francesca Sforza
«E’ stato uno scambio tra professori, è vero, ma non si può dire si sia trattato di un’operazione accademica» dice Carlo Gentile, docente di storia all’Università di Colonia e autore tra l’altro del libro La presenza militare tedesca in Italia 1943-1945 (Roma 2004). Il professore fa parte della commissione di storici, composta da cinque membri italiani e altrettanti tedeschi e presieduta da Mariano Gabriele e Wolfgang Schieder, che ha iniziato i suoi lavori nel 2009 con lo scopo di analizzare gli avvenimenti del periodo 1943-1945 e in particolare il destino in gran parte dimenticato fino a oggi, come si legge nella premessa degli italiani deportati in Germania.. «Direi che l’obiettivo era quello di dar vita a un’azione di più ampio respiro, che definirei in primo luogo culturale». Si trattava di andare alle radici dei pregiudizi che gli italiani hanno dei tedeschi e i tedeschi degli italiani, con un convincimento di fondo: in origine è stata la seconda guerra mondiale. È lì che è cominciato tutto: i tedeschi ne sono usciti come un popolo «duro, inflessibile, a tratti crudele», gli italiani come «inaffidabili, simpatici e sostanzialmente cialtroni».
Professor Gentile, il vostro rapporto, al posto di considerazioni accademiche, ha offerto «raccomandazioni» come l’istituzione di una fondazione o la concessione di borse di studio. Si può definire un contributo politico?
«Resta il lavoro di una commissione di storici, ma è vero che ha avanzato delle proposte molto concrete: penso alla fondazione sulla storia contemporanea italo-tedesca, col contributo non solo di istituzioni pubbliche dei due Paesi, ma anche di aziende e organizzazioni che impiegarono gli internati militari in Germania; penso all’ampliamento della banca dati sui crimini commessi dai tedeschi in Italia in quel periodo e la realizzazione di una sorta di atlante delle violenze; penso anche all’idea di organizzare summer school su temi attinenti la storia contemporanea italo-tedesca e all’iniziativa di appoggiare un fondo per incentivare le traduzioni di importanti pubblicazioni scientifiche in questo settore».
Com’è stato lavorare con i colleghi tedeschi su temi così cruciali come il ruolo avuto dai due Paesi, Italia e Germania, durante la seconda guerra mondiale?
«Si è partiti da una considerazione reciproca molto alta, ci siamo ritrovati come studiosi, ma a nostra volta inseriti in una comunità più ampia, in cui le dimensioni nazionali non erano in primo piano, né hanno prevalso nel corso dei tanti incontri che abbiamo avuto dal 2009 a oggi. Al centro di tutto si trovava l’interesse per la materia, e la volontà di far luce su alcuni momenti della nostra storia comune per dar vita a una cultura comune della memoria. Con i colleghi tedeschi ci possono essere diversità nelle mode o nei temi, ma le radici metodologiche sono le stesse».
Nel rapporto si parla anche della necessità, da parte dei nostri due popoli, di decostruire i pregiudizi accumulati nel passato. Quali sono i più resistenti, dal punto di vista storico?
«Da parte italiana resiste lo stereotipo di una Wehrmacht (le forze armate tedesche istituite nel 1935 e sciolte nel 1946, ndr) assimilabile alle SS naziste, ma certo non si può dire che la Wehrmacht sia stata un’organizzazione criminale. Teniamo presente che ogni tedesco ha in famiglia un parente che ha prestato servizio per la Wehrmacht, è evidente che la sensibilità su questo tema è molto alta».
E da parte tedesca?
«Sicuramente il ruolo e il significato dei partigiani. Nei tedeschi resiste l’idea che si tratti di banditi, quando non di terroristi, gente che faceva attentati contro le truppe regolari senza cogliere la portata politica dei propri stessi gesti. È chiaro che la nostra lettura è molto più complessa e sofisticata».
Sulla persecuzione degli ebrei ci sono letture divergenti?
«Su questo la lettura è condivisa sia dagli italiani sia dai tedeschi: nessuno nega che in Italia ci sia stato l’antisemitismo, così come nessuno nega che la persecuzione degli ebrei sotto il regime italiano sia stata ben diversa da quella sotto il regime tedesco. Non a caso la persecuzione si trasforma in pericolo di vita per gli ebrei italiani quando comincia l’occupazione tedesca, e questo è un dato oggettivo». “PROPOSTE CONCRETE «Un atlante delle violenze commesse in Italia, un fondo per incentivare le traduzioni» Da parte nostra resiste lo stereotipo di una Wehrmacht assimilabile alle SS naziste Da parte loro, l’idea dei partigiani come banditi che non coglievano la portata politica dei propri gesti”
La Stampa 20.12.12
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«Italiani brava gente» Un mito da sfatare al pari della Wehrmacht
di Maurizio Caprara
In 172 pagine di un rapporto su italiani e tedeschi nella Seconda guerra mondiale tanti punti possono colpire l’attenzione. Ma uno assume particolare importanza se si considera che il testo è stato scritto da una commissione di dieci storici provenienti da entrambi i Paesi su incarico dei rispettivi governi, benché gli autori sostengano di aver esercitato il mandato «in modo completamente indipendente». Il punto è questo: «Così come oggi non può sopravvivere in Germania il mito del corretto comportamento della Wehrmacht sul suolo italiano, altrettanto inaccettabile è la sopravvivenza del mito degli “italiani brava gente” in riferimento alla Seconda guerra mondiale».
È un invito a «entrambe le parti» ad «assumersi le proprie responsabilità storiche» il corollario di quell’affermazione. Wehrmacht era il nome delle vecchie forze armate tedesche. Nel rammentare «la stretta collaborazione tra i regimi dittatoriali di Mussolini e di Hitler» e le comuni guerre in Francia, Grecia, Jugoslavia, Africa, Unione sovietica, il rapporto aggiunge: «I tedeschi devono riconoscere che gli italiani non sono stati soltanto collaboratori, ma anche vittime; e gli italiani, da parte loro, devono accettare di non essere stati soltanto vittime, bensì, anche, in certa misura complici e collaboratori».
Sia chiaro, non ci sono indennizzi in vista e fu proprio l’esigenza di attenuare le diffidenze di alcuni nostri connazionali che volevano risarcimenti rifiutati dalla nuova Germania a spingere il governo tedesco, nel 2008, a concordare con quello italiano di formare la commissione. A presiederla poi furono chiamati i professori Mariano Gabriele e Wolfgang Schieder. Alla base dello studio, presentato ieri a Roma dai ministeri degli Esteri Giulio Terzi e Guido Westerwelle, c’è il proposito di favorire «gli ideali di riconciliazione» che sono le fondamenta della costruzione europea dalle sue origini nel dopoguerra. Le principali proposte operative del rapporto consistono soltanto in tre inviti. La prima: per tener vivo il ricordo degli italiani costretti a lavorare per la Germania, ampliare il memoriale nell’ex campo di Berlino-Niederschöneweide. Lì furono detenuti alcuni dei circa 600 mila militari del nostro Paese deportati dopo l’armistizio del 1943 con gli Alleati. La seconda proposta: riservare a quegli internati un «luogo della memoria» a Roma. La terza: una fondazione italo-tedesca di studi storici.
È nelle pieghe del rapporto che ci sono materia per far discutere e spunti per integrare le conoscenze di una storia non certo destinata a scoperte tali da farla ribaltare rispetto a come la conosciamo. Sul «collaborazionismo degli italiani» con gli occupanti tedeschi nella Repubblica sociale, secondo la commissione, esiste «una grande lacuna» nella ricerca storica. Italiani collaborarono a tante deportazioni di ebrei in Germania.
A giudizio della commissione tra ’43 e ’45 ci fu la «sovrapposizione di tre conflitti»: la guerra dei tedeschi contro gli Alleati salvo «casi eccezionali» condotta «in conformità al diritto internazionale», quella «contro i partigiani condotta da unità della Wehrmacht, delle Waffen-Ss e della polizia d’ordinanza — non di rado affiancate dalle milizie fasciste — con particolare durezza e scarso rispetto del diritto internazionale», poi «il conflitto tra truppe tedesche d’occupazione e la popolazione civile, che in momenti e regioni determinate degenerò in una vera e propria guerra contro la popolazione civile, condotta con mezzi criminali». Nel 20% dei casi i crimini di militari tedeschi furono reazioni o rappresaglie, ha fatto notare agli autori il presidente dell’Associazione nazionale partigiani Carlo Smuraglia, e nell’80% «barbarie gratuite».
Il Corriere della Sera 20.12.12