E così con le consultazioni del Capo dello Stato ieri è stato celebrato anche l’ultimo atto formale di una delle più tormentate e sorprendenti legislature degli ultimi anni. «Napolitano scioglie Camere. Finalmente il sipario. Utili gli ultimi mesi. Ma la XVI legislatura in generale ha fatto gran danni», twitta immediatamente Enrico Letta.
Anna Finocchiaro e Dario Franceschini quando lasciano il Colle, invece, le prime parole le dedicano al presidente Napolitano, «per il modo straordinario in cui ha esercitato il suo mandato in un momento difficile». E a Mario Monti, che ringraziano «per aver messo la sua credibilità e competenza al servizio al Paese», ma, aggiunge il capogruppo alla Camera, «adesso si chiude la fase del governo tecnico, la parola torna nella sovranità del popolo». Se si chiuda anche l’esperienza a Palazzo Chigi di Monti, invece, ancora non è certo, bisognerà aspettare ancora qualche ora per capirne di più, anche se le indiscrezioni lasciano capire che l’attuale premier non sia propenso a lasciarsi coinvolgere in un’avventura squisitamente politica. «Noi – spiega Franceschini – agli italiani ci presentiamo consapevoli che l’Italia merita adesso una seconda fase sulla base dei duri sacrifici fatti per uscire dal baratro in cui lo aveva portato il governo Berlusconi. Ora servono politiche pro- gressiste, riformiste basate su un principio semplice: chi ha di più deve mettere di più, chi ha di meno deve mettere di meno».
Ma è evidente che tutta la partita dei prossimi giorni e l’intera campagna elettorale dipenderà dalla decisione di Monti e non è un caso che Franceschini sottolinei, proprio nelle ore in cui il Professore riflette sul da farsi, che il Pd ha «mantenuto l’impegno assunto dopo aver fatto cadere il governo Berlusconi»: lealtà e sostegno a Monti, «non abbiamo scelto l’interesse del partito, ma quello del Paese». Una lealtà e un sostegno che in questi ultimi giorni è stato più volte ricordato al premier da parte dei democratici e dello stesso Bersani. Come a dire al professore che oggi una sua scesa in campo, direttamente o attraverso un endorsement alle liste centriste, equivarrebbe a perdere quella terzietà sulla base della quale il Pd ha rinunciato alle urne quando avrebbe avuto la vittoria in tasca. E Monti si troverebbe per forza di cose proprio il candidato del centrosinistra come avversario alle urne. Certo è che con la paventata candidatura, la suspence per un annuncio sempre rimandato (sembrerebbe anche a causa di dinamiche molto partitiche, ossia posti in lista reclamati dai vari big centristi), hanno raffreddato parecchio gli animi tra i democratici, dal segretario in giù, compresi i montiani più convinti. Pier Luigi Bersani, che ieri ha sentito più volte al telefono sia i due capogruppo, sia i suoi collaboratori più vicini, preferisce non pronunciarsi in questo momento, ma non ha mancato di illustrare a Napolitano e allo stesso premier la sua posizione. Monti farebbe meglio a non candidarsi e ad offrire il suo «prezioso» contributo al Paese in altro modo, senza esclusione per la più alta carica dello Stato. Alla fine è probabile che Monti presenti la sua Agen- da a tutti i partiti ed è altrettanto probabile che proprio questa possa diventare fonte di tensioni interne sia al Pd che alla coalizione di centrosinistra.
Berlusconi, intanto, ha fiutato l’aria e punta alla polarizzazione della campagna elettorale e invita i moderati a non «disperdere» i voti al centro, ma puntare o di qua, dalla sua parte, o di là, «a sinistra». Pier Ferdinando Casini, che non si lascia cogliere di sorpresa dagli eventi, ha già pronto il piano B se Monti dovesse archiviare qualunque velleità politica: presentarsi con il suo simbolo e puntare a fare l’ago della bilancia dopo, se dalle urne non dovesse uscire una maggioranza certa sia alla Camera sia al Senato. Ne ha parlato con il segretario Pd, «noi ci presentiamo comunque per conto nostro», mentre i suoi cercano di sondare – più o meno inutilmente – con i collaboratori del premier.
Bersani aspetta di ascoltare il discorso di Monti di questa mattina, ma è deciso ad andare avanti per la sua strada. Non risponde ad Antonio Di Pietro, che continua a chiedere al Pd un segnale, né ad Antonio Ingroia. Nichi Vendola, suo alleato, non spinge più di tanto sul magistrato in aspettativa (in sospeso anche la sua candidatura), auspica attenzione, certo, ma «è Bersani che ha vinto le primarie…». E il vincitore delle primarie non cambia lo schema: alleanza con Sel e Psi, patto con i moderati dopo le elezioni. Il più critico verso Di Pietro e gli arancioni è Massimo Donadi, portavoce di Diritti e libertà: «Con la loro presenza e un loro eventuale buon risultato elettorale rischiano di essere i veri promotori e i veri sponsor di un pareggio in Senato e quindi di un governo Monti bis». È questo il vero timore dei democratici: che Pdl e Lega alleati in Lombardia e Veneto e il movimento Arancione in Campania facciano mancare i voti necessari ad avere la maggioranza anche a Palazzo Madama.
L’Unità 23.12.12
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I protagonisti del 2012 – I liceali del terremoto diplomati sul campo “Noi teniamo botta”, di Federico Taddia
Lacrime solcano ancora il viso di Bianca, mentre ricorda la prima telefonata alla compagna di banco: la scuola era distrutta, le lezioni non potevano continuare. Il suo tempo diventato improvvisamente libero ora poteva essere prezioso per quei bambini rimasti senza casa che cercavano facce amiche con le quali giocare e alle quali strappare un sorriso. Piange anche Fatma, tornando con la memoria a quelle ore, a quei giorni di strazio e dolore in cui il suo stipendio da cameriera nei fine settimana era diventato l’unica entrata certa in famiglia e il suo buon umore, cercato, difeso, quasi ostentato, l’appiglio a cui far aggrappare i fragili nervi dei genitori, della sorella e dei nipotini.
Per Marco invece la commozione diventa inquietudine, tormento e trepidazione, mentre tutto d’un fiato descrive la sua corsa a trovare la nonna cardiopatica mentre la terra tremava, i giorni passati in auto dopo il primo sisma e l’irriverenza della seconda scossa che lo ha accolto proprio un attimo dopo aver vinto la paura e rimesso il piede dentro casa. «Mi sembrava di impazzire», confessa guardandoti dritto, senza retorica. «Non riuscivo a stare fermo, dovevo rendermi utile, dovevo fare cose: era l’unico modo per non pensare».
Ho trascorso una mattinata con Bianca, Fatma e Marco. E con Simone, Chiara, Gregorio, Laura, Maria e un’altra decina di studenti degli oltre mille che frequentano l’Istituto «Giuseppe Luosi» di Mirandola, in provincia di Modena, un grande prefabbricato sorto dal nulla per far ripartire in fretta l’anno scolastico.
Sono stato ad ascoltare le loro voci, ed è come se fossi stato anche con le ragazze e i ragazzi di Finale Emilia, di Crevalcore, di Sant’Agostino, di Carpi, di Cento, di Mirabello e di tutti i comuni, i paesi e le frazioni dell’Emilia falciata dal terremoto.
Ed è proprio a questa normale gioventù, composta da migliaia di adolescenti che si sono trovati costretti a diventare improvvisamente grandi nel breve ma infinito tempo di un terremoto, che vogliamo rendere onore: una generazione di non eroi, ma sulla quale, istintivamente e senza consapevolezza, ci si è appoggiati, per non deprimersi, per non abbattersi, per non rassegnarsi.
«Gli eroi sono altri, sono i vigili del fuoco, i volontari della protezione civile, quelli che hanno perso la vita», spiega Chiara, con la schiettezza di chi non vuol dimenticare ma vuole anche guardare avanti.
«Noi ci siamo trovati a fare da intermediari tra tutti. C’erano gli anziani nella disperazione totale perchè si era cancellato tutto ciò che avevano conosciuto e costruito nella loro esistenza, i genitori che cercavano di non farsi schiacciare dall’emergenza e i bambini piccoli in balia degli eventi, incapaci di comprendere la realtà e con un bisogno insaziabile di sicurezza e spensieratezza. Ci siamo trovati in mezzo a esigenze diverse, dove nessuno ci ha chiesto nulla, ma tutti ci chiedevano qualcosa: chi un aiuto materiale, chi una parola per sdrammatizzare e chi solo una ventata di buon umore. Non era il momento per chiedersi se fossero responsabilità troppo pesanti per noi: era il momento di agire e basta».
Dalle tendopoli alla parrocchia, dall’animazione con i bambini allo scaricare decine di casse d’acqua, dal prendere per mano la sorella maggiore e spronarla passo a passo verso l’esame di maturità fino a fare la spola in scooter tra i paesi per portare il pane fresco, «ognuno si è guardato attorno e ha subito capito qual era la cosa giusta da fare», aggiunge Suada, che per settimane ha vissuto in una tendopoli insieme ad altre 600 persone e ancora oggi sobbalza a ogni rumore con il pensiero ai genitori che lavorano dentro ai capannoni, in un contrastante mix di emozioni: la felicità per lo stipendio ritrovato e il terrore di quelle travi e quei pilastri che evocano paura e morte.
«Nel campo ero ospite, ma dal primo momento è diventato normale dare una mano e non era certo per farsi dire grazie che si aiutava in cucina, si sparecchiava o si passavano le serate organizzando giochi per i più piccoli».
«A volte sembrava quasi che i ruoli si fossero scambiati, non noi ragazzi che dovevamo coccolare e proteggere gli adulti», dice Gregorio, che si è messo disposizione della protezione civile per il servizio d’ordine nei campi, anche se il pensiero fisso era per il fratellino rimasto a casa e il timore costante che il terremoto potesse tornare nella notte.
«Stavamo svegli fino all’alba per controllare la situazione, e di continuo uscivano dalle tende uomini che avevano solo voglia di sfogarsi: venivano da noi e ci raccontavano la loro disperazione, facevano l’elenco di quello che avevano perduto, cercavano conforto. A noi non restava che trovare la battuta giusta, magari un sorriso oppure anche solo un silenzio di complicità e comprensione: dovevamo nascondere i nostri sentimenti e saper gestire i loro».
Ancora oggi è difficile tornare alla normalità, alla quotidianità. È difficile farlo perchè non esiste più il centro storico, e c’è chi come Fatma non è mai più tornata a vedere la sua piazza per paura di stare male. Perchè mancano quelli che erano i luoghi di ritrovo abituali, e allora, come dice Bianca, bisogna abituarsi a vivere in una cittadina che non è scomparsa, ma sta cambiando.
Anche solo mettere alla finestra le luci di Natale può incidere sulla bolletta di famiglia quando entrambi i genitori sono in cassa integrazione, e quindi la ripartenza sembra solo un’amara illusione. «Bisogna abituarsi ai cambiamenti, che non vuol dire arrendersi o non rimboccarsi le maniche: dobbiamo essere sinceri con noi e sapere che nulla sarà come prima».
È sereno nella sua analisi Andrea, che ancora oggi vive in un container, visto che la sua casa è fuori uso. «Non ci sono più le vecchie abitudini, si sono persi i punti di riferimento, le consuetudini sono da reinventare. E ancora una volta per noi giovani è più facile farlo e quindi diventiamo automaticamente stimolo ed esempio per gli adulti».
Sono teste belle, vive e coraggiose quelle di questi (non) eroi del terremoto. Non lo dicono ma sanno di essere protagonisti del presente e del futuro di questa terra. Non lo dicono ma sanno di essere cambiati, di aver visto stravolte quelle che sembrano priorità assolute e bisogni irrinunciabili. Non lo dicono ma sanno di aver capito sulla propria pelle che può succedere di cadere, ma poi ci si può rialzare.
Prima di salutarci una di loro mi ha timidamente consegnato un foglio sul quale aveva scritto alcune riflessioni personali: «Ho capito che ogni minimo istante è importante. Ho riscoperto la dolcezza di un sorriso, il piacere di qualcuno che ti offre la mano. Ho visto la gioia negli occhi di coloro a cui ho potuto offrire la mia. Andremo avanti, pensando al domani: perché noi teniamo botta».
E quando le ho chiesto come si chiamava, mi ha risposto con uno sguardo traboccante di futuro: «Emilia».
La Stampa 23.12.12
Primarie parlamentari Pd, ufficializzata la rosa dei candidati
La Direzione provinciale ha varato la lista dei candidati che parteciperanno alle primarie
Sono otto, quattro donne e quattro uomini, i candidati che domenica 30 dicembre parteciperanno alle primarie Pd per la scelta dei candidati al Parlamento in vista delle politiche 2013. La Direzione provinciale del partito, nella mattinata odierna, ha varato ufficialmente la lista. Eccone la composizione, con i candidati in ordine alfabetico:
Roberto Adani, manager di reti d’impresa, ex sindaco di Vignola
Davide Baruffi, segretario provinciale Pd
Mariangela Bastico, parlamentare uscente
Manuela Ghizzoni, parlamentare uscente
Maria Cecilia Guerra, sottosegretario di Stato
Giuditta Pini, segretario provinciale Gd
Matteo Richetti, presidente dell’Assemblea legislativa Regione Emilia-Romagna
Stefano Vaccari, assessore Provincia di Modena
La Direzione provinciale del partito ha, inoltre, deliberato di chiedere alla consigliera comunale Giulia Morini (che non ha raccolto il numero totale di firme richiesto dal regolamento per partecipare alle primarie) la disponibilità ad essere, nell’ordine, il nono candidato modenese della lista regionale Pd, senza però partecipare alle primarie di domenica 30 dicembre.
www.pdmodena.it
Primarie parlamentari, le regole della consultazione
Si vota domenica 30 dicembre dalle 8 alle 21 in 112 seggi allestiti a Modena e provincia. La scheda delle primarie per la scelta dei parlamentari del Pd non conterrà la lista dei nomi, ma sarà l’elettore stesso che dovrà scrivere il cognome dei candidati scelti. Si può esprimere una o due preferenze: se si opta per la doppia preferenza si deve votare obbligatoriamente per un uomo e per una donna. Nel caso in cui l’elettore voti due uomini o due donne, il secondo voto sarà annullato. Quando si vota – Domenica 30 dicembre, in Emilia Romagna, si terranno le elezioni primarie per la scelta delle candidature del Pd al Parlamento in occasione delle elezioni politiche 2013. Grazie all’impegno di circa un migliaio di volontari, saranno in funzione, dalle 8.00 del mattino alle 21.00 della sera, con orario continuato, 112 seggi allestiti in tutta la provincia. Ogni elettore dovrà recarsi al seggio che corrisponde al proprio numero di sezione elettorale: l’elenco completo dei seggi per le primarie dei parlamentari Pd si trova sul sito www.pdmodena.it.
Chi sono gli elettori – Possono votare coloro che si sono registrati per partecipare alle primarie del centro sinistra per la scelta del candidato premier (25 novembre/2 dicembre 2012), gli iscritti al Pd nell’anno 2012 e coloro che, iscritti al Pd nel 2011, rinnovino la tessera entro il giorno del voto, ovvero entro il 30 dicembre compreso. Possono votare anche gli iscritti al Pd e ai Giovani democratici, in regola con l’iscrizione per il 2012, che non hanno ancora compiuto i 18 anni.
La scheda – La scheda che verrà consegnata agli elettori delle primarie per i parlamentari non conterrà un elenco di nomi. Avrà, invece, due caselle bianche che l’elettore dovrà riempire con il cognome o il nome e cognome dei candidati scelti. Si possono esprimere una o due preferenze. Se le preferenze sono due occorre votare un uomo o una donna. Se l’elettore inavvertitamente dovesse votare due uomini o due donne il secondo voto viene annullato.
Come si vota – Per esercitare il diritto di voto l’elettore deve sottoscrivere un appello in cui si dichiara elettore del Pd e l’impegno a riconoscere gli organismi di garanzia previsti. All’atto del voto, inoltre, si versa una sottoscrizione di almeno due euro per la campagna elettorale.
“Ancora una grande prova di democrazia che solo il Partito democratico sta dimostrando di sapere mettere in campo. – commenta Cristina Cavani, coordinatrice del Comitato dei garanti delle primarie per i parlamentari – Dopo le primarie per la scelta del candidato premier, visto che i veti incrociati hanno bloccato in Parlamento la riforma della legge elettorale, il Partito democratico ha deciso di dare di nuovo voce ai propri elettori. La scelta di fare le primarie anche per i parlamentari ha proprio questa motivazione: consentire ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti alla Camera e in Senato. Con un valore aggiunto – conclude Cristina Cavani – l’attenzione alla presenza di una solida componente femminile. In questa direzione va la scelta della doppia preferenza da dare a favore di un uomo e di una donna. Vogliamo dare ai cittadini l’opportunità di mandare in Parlamento tante donne, per valorizzarne competenze, saperi e sensibilità”.
http://www.pdmodena.it/
Bersani al rush finale «Lavoriamo uniti», di Maria Zegarelli
«Ora abbiamo il rush finale: portare il Pd per la prima volta al governo del Paese». Mentre Pier Luigi Bersani fa il brindisi natalizio con i dipendenti del Nazareno, i rumors di Palazzo iniziano a far filtrare una notizia che manda nel panico i centristi in cerca d’autore: non è affatto certo che Mario Monti si candidi per la premiership o sia disposto a fare l’endorsement alle liste che attendono soltanto la sua benedizione. Anzi, sarebbe sempre più convinto di dover mantenere la sua posizione super partes.
Sarà che la voce è arrivata anche al candidato del centrosinistra, ma chi ci ha parlato racconta che Bersani «è assolutamente sereno e aspetta di ascoltare dallo stesso premier cosa intende fare» nella conferenza stampa di domani mattina. Non ci sta a farsi tirare dentro questo dibattito fondato sul «si dice», tanto più che quello che pensa lo ha detto chiaramente: Monti è una risorsa per il Paese, per lui ci sarebbe sicuramente un ruolo. Ma, ha anche aggiunto, i partiti che nascono attorno al nome di un leader non gli piacciono.
Eppure è chiaro che se Monti non scende nell’agone politico la strada per il segretario democratico si fa meno impervia verso Palazzo Chigi. Per questo esorta i suoi all’ultimo sforzo, il più importante: «Abbiamo lavorato per quello, per essere utili. Dobbiamo fare l’ultimo sforzo, non dobbiamo sbagliare niente. Le condizioni ci sono, dobbiamo tenere una barra politica intelligente, ma soprattutto dobbiamo tenere viva l’onda positiva, lavorando uniti, con intelligenza e anche con un po’ di umorismo e allegria perché la situazione lo richiede». Basta andare a guardarsi il video di auguri a tutti che campeggia sul sito www.partitodemocratico.it per capire a cosa si riferisce quando parla di umorismo: rimbalza da Youtube a Facebook nel giro di pochi minuti con collaboratori e dirigenti in versione renna natalizia.
ADDIO AL BUROCRATESE
Comunicazione «vivace», esorta il candidato premier, per lasciarsi alle spalle l’immagine di un partito «un po’ greve e burocratico», effetto galvanizzante delle primarie, dirà qualcuno, sta di fatto che Bersani, mostra sangue freddo. Finora ha avuto ragione lui, sulla legittimazione che doveva arrivare da un nuovo passaggio per i gazebo, con tanto di ballottaggio, sulle primarie per i parlamentari a dispetto dei tempi ristretti e sulla strategia politica.
«Gli avversari ci saranno dice ai suoi possiamo aspettarci qualche scherzo qui e là, le difficoltà non mancheranno ma credo che stando sereni e calmi e con determinazione ne veniamo fuori bene con un risultato che la nostra gente si aspetta. Noi siamo nati per questo: governare con una politica riformista». Calmi e sereni mentre al centro della politica c’è il panico. L’unico candidato certo per ora è proprio lui, il segretario Pd. Poi ci sarà Silvio Berlusconi, ma anche no e potrebbe esserci allora Angelino Alfano. Se non ci sarà Mario Monti i moderati dovranno organizzarsi e puntare su un altro cavallo, sapendo che già solo questo li riporta nel recinto dei consensi ad una cifra, sotto il 10%. Per questo Bersani non molla la presa ed è convinto che proprio adesso non si possono sbagliare le mosse, non ci si può «adagiare» sul vantaggio acquisito con le primarie ma si deve continuare il gioco d’attacco perché «quando si accumula un capitale lo si deve reinvestire». Dunque, vale la pena correre il rischio di queste primarieparlamentarie, «perché sono convinto che bisogna sempre correre per andare avanti». Per questo dice provare «apprezzamento e ammirazione» per Anna Finocchiaro e Rosy Bindi che, nonostante i ruoli politici importanti che rivestono nel partito, rispettivamente capogruppo e presidente Pd, abbiano deciso di mettersi in gioco e presentarsi ai gazebo.
Più tardi Bersani si sposta all’ambasciata di Francia per una colazione con il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, a Roma per impegni internazionali e quando incontra i giornalisti non manca di fare una battuta su questo 21 dicembre che doveva essere l’ultimo giorno del mondo secondo i Maya e invece è stato l’ultimo giorno di scuola per tanti parlamentari e l’ultimo di Monti premier. E se il Professore poco prima dice che se il suo governo è finito «non è colpa dei Maya», Bersani ci scherza su: «Peut etre». È possibile.
Torna serio, invece, quando pensa ai primi atti da premier se riuscirà a vincere le elezioni. Soprattutto su un tema che ancora una volta risulta di stretta attualità: il conflitto di interessi. Davanti a Berlusconi che imperversa sui media, i suoi e quelli pubblici, il segretario Pd, parlando con Articolo 21, assicura che conflitto di interessi, norme antitrust e autonomia del servizio pubblico saranno tra i primi nodi da sciogliere durante la prossima legislatura. Prima di lasciare Roma per rientrare a Piacenza il segretario Pd ha incontrato anche il presidente della Repubblica.
L’Unità 22.12.12
“Buon futuro all’Italia”, di Walter Veltroni
Quello pronunciato da Veltroni ieri alla Camera è stato il suo ultimo discorso da parlamentare.
Signor Presidente, oggi sarebbe dovuto finire il mondo, ma non è successo, almeno fin qui. Lo aveva predetto un popolo geniale e moderno, che pensava che il tempo fosse semplicemente un ripetersi di eventi ciclici sempre uguali. Ma avevano torto: la vita e il tempo sono sempre inediti: sono le opere degli uomini, il loro pensiero, le loro azioni, che possono ripetersi. Ma se una previsione apocalittica incontra tanta attenzione è perché la nostra civiltà è oggi dominata dal più pericoloso dei sentimenti, l’unico del quale avere davvero paura: la paura.
Oggi più prosaicamente finisce una legislatura, non la vita degli uomini. Ma possiamo per una volta non rivolgere il nostro sguardo al passato? Possiamo non rimproverarci responsabilità dalle quali ciascuno in misura diversa, nessuno tra i soggetti organizzati della società italiana, è esente? Possiamo parlare agli italiani di ciò che sarà e non di ciò che è stato? Lo dico per uscire dal carattere ciclico, da quella specie di maledizione dei Maya che riporta in televisione, come uno stanco cinegiornale Luce, le parole di una lingua senza significato che ripete le stesse cose da troppo tempo e che è fatta dalla cicuta della politica: le promesse facili e ciniche, quelle parole che vengono da chi, in questi anni, sembra sia stato in vacanza su Saturno e non a Palazzo Chigi (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Il passato ha bisogno di verità per chiudersi, come si chiude questa legislatura, dopo la quale il Paese è più fragile, le istituzioni più logorate dal non essere, in particolare, state cambiate da un disegno di insieme e il sistema politico è più frammentato ed esposto ad ondate emotive che trovano reale alimento in fenomeni ormai dilaganti: la corruzione e l’illegalità che sono – ce ne vogliamo rendere conto – il primo problema italiano.
L’Italia ha bisogno di futuro, e non di passato, e ha bisogno di idee serie e di persone serie che possano guidarla fuori da questo tunnel come ha saputo fare – e dobbiamo tutti ringraziarlo – Giorgio Napolitano (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Siamo nel momento più drammatico della nostra storia, della nostra storia di italiani del secondo Novecento. Negli anni Trenta la recessione in Europa ha significato il nazismo e poi la guerra, perché a Weimar le istituzioni collassarono sotto i colpi dell’instabilità politica e delle conseguenze economiche e sociali della recessione; e venne la dittatura, che è la faccia politica della paura, la stessa che armava la mano nel portafoglio degli agrari che foraggiavano le squadre fasciste, la stessa che individuava nei bambini ebrei una minaccia. La paura, figlia e madre dell’odio, genera un altro mostro, che è il problema italiano: il populismo.
Gobetti diceva che, senza conservatori e senza rivoluzionari, l’Italia è diventata la patria naturale del costume demagogico e per un liberale le uniche e vere rivoluzioni sono quelle che non si sono trasformate, come accadde a quella russa e a quella fascista, in dittature: le rivoluzioni democratiche, quelle che preludono a nuove libertà, a nuovi diritti, a nuove opportunità per esseri umani nuovi. Ma nel limbo limaccioso, impastato di risse ideologiche e di immobilismo, che è stata la storia italiana di questi anni, può davvero prosperare il più pericoloso dei mali per un Paese sfibrato e impaurito: il populismo, ossia dire a tutti quello che si vogliono sentire dire, bellicare conservatorismi e particolarismi, fare politica urlando quello che i sondaggi sostengono essere la cosa più popolare in quel momento. La politica è straziata, ridotta a merce fasulla, illusionismo da circo di provincia: «fuori dall’euro», «abbasso la Germania», togliere tutte le tasse a tutti e condonare ogni orrore; promesse irrealizzabili, inganni cinici, è voto contraffatto, è voto di scambio: io potente ti vendo un’illusione, tu, cittadino, ci metti la tua disperazione (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Così si distrugge un Paese, così si uccide la politica. L’Italia ha bisogno di altro! Da vent’anni, come un maleficio, una delle otto potenze del mondo è paralizzata da una dialettica rumorosa e immobile. Con le urla e gli insulti di questi anni ci si può riempire l’oceano. Ma cosa è cambiato in Italia dal 1994? È migliorata la scuola? Si è aumentata la produttività? Si è garantito un lavoro stabile ai nostri ragazzi? Si è resa più trasparente la vita pubblica? Promesse e urla, il nostro inferno. Paralizzata dal berlusconismo e dell’antiberlusconismo la seconda Repubblica ha consumato anche il bipolarismo, che è stato dialettica negativa, ostruzione, tatticismo.
Io, come è noto, non sarò più parlamentare, con altri colleghi, e colgo l’occasione per ringraziare tutti voi, a cominciare dalle donne e dagli uomini del mio gruppo e, in particolare, lei, Presidente, e tutto il meraviglioso personale della Camera, dai commessi al segretario generale, per avere potuto vivere questa esperienza di confronto e di democrazia (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Credo mi si possa dare atto di aver ascoltato e sempre rispettato anche le idee più lontane dalle mie, perché ho sempre pensato che è l’esistenza del pensiero degli altri che salva il mondo e la libertà. A quelli di voi che saranno qui vorrei dire che il nostro Paese non può tornare al tempo, che fu anche di stragi e di debito pubblico alle stelle, che è dietro le nostre spalle. Futuro, non passato.
Mi auguro che il nostro Paese evolva verso un bipolarismo civile, fatto principalmente da un centro democratico e da uno schieramento riformista, da persone che si riconoscano e si stimino e possano collaborare, ciascuna nel suo ruolo, nell’interesse della nazione, come fanno i democratici e i repubblicani americani o come succede in Germania o in Inghilterra.
L’Italia non può più permettersi odio e immobilismo: ha bisogno di una profonda rivoluzione, una rivoluzione democratica; ha bisogno di riprendere il viaggio magnifico che iniziarono quegli italiani che, smarriti, si guardarono negli occhi nell’aprile del 1945. Intorno a loro c’erano macerie e nelle famiglie i vuoti della guerra e dei bombardamenti, delle leggi razziali e dell’odio tra fratelli.
Vent’anni di demagogia e di populismo, di dittatura e di intolleranza, avevano devastato persone e cose, ma gli italiani seppero rialzarsi e inventarono cose da produrre e idee che hanno attraversato il mondo. Siamo stati un Paese di innovatori e di coraggiosi, di contadini che venivano in città ad aprire bottega, di padri di famiglia che lasciavano la loro terra per andare lontano a cercare di sopravvivere; lo stesso viaggio che – non dimentichiamolo mai – fanno ora a migliaia su battelli che nessuno ha il diritto di affondare (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Siamo caduti e siamo risorti perché siamo un grande Paese, che ha bisogno della stessa energia di innovazione di allora. È questa oggi la grande sfida del centrosinistra riformista che Bersani è stato chiamato a guidare.
Perché l’Italia riparta c’è una precondizione: bisogna dichiarare una guerra alle mafie e a ogni illegalità, costi quel che costi (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico, Misto-Alleanza per l’Italia e di deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Futuro e Libertà per il Terzo Polo).
E ora che inizia la campagna elettorale il mio appello a tutti, nessuno escluso, è: rifiutate i voti sporchi (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Bisogna unire i produttori, capire che c’è una comunità di destino tra il piccolo imprenditore e il suo operaio, che insieme cresceranno e insieme perderanno. Questo significa più produttività e salari più civili, uno Stato amico che anche fiscalmente colpisca i furbi e premi chi investe, chi rischia e fatica per creare ricchezza, una ricchezza che sia equamente distribuita. Non si può avere insieme il 10 per cento della popolazione che controlla la metà del patrimonio privato nazionale e 11 milioni di persone che non sanno come arrivare alla fine del mese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico)! Non si può avere insieme 280 miliardi di euro di evasione fiscale e aliquote sulle imprese o sulle persone ben oltre il 50 o 60 per cento. Per me, dal Lingotto, valgono le parole del socialdemocratico Palme: noi non siamo contro la ricchezza, siamo contro la povertà.
E poi dobbiamo convincerci che lo Stato non può far tutto, che ci vuole responsabilità sociale diffusa, protagonismo sociale. Lo Stato e le istituzioni devono essere lievi, gestire di meno e preoccuparsi di promuovere e garantire diritti. Poi, il bello della nostra società: la scuola, la ricerca, la cultura, l’ambiente, il nostro talento, ciò che nessuno potrà mai riprodurre o delocalizzare.
Il Presidente Monti ha fatto molto, in un breve periodo, per questo Paese: ha tenuto insieme una maggioranza innaturale, che è nata dall’emergenza e che non si ripeterà; si è caricato sulle spalle responsabilità non sue; ha restituito all’Italia l’onore e il prestigio che meritiamo; ha chiesto al Paese sacrifici. Non riconoscerlo ora, in ragione delle sue scelte future, sarebbe intellettualmente disonesto, anche perché lo abbiamo fatto insieme, come lo facemmo con Ciampi e come lo abbiamo fatto con Romano Prodi. Noi non faremo come chi, in questi giorni, un giorno dice che Monti ha distrutto il Paese – con norme che, peraltro, sono state votate dagli stessi – e il giorno dopo invita Monti a guidare i moderati e quello dopo ancora dice che è un piccolo uomo.
Noi consideriamo quest’anno importante, ma vogliamo andare oltre. Noi siamo una forza seria, che vuole più Europa, che sa prendersi le responsabilità più difficili, che sa che prima di tutto viene l’interesse della nazione. Noi pensiamo che l’Italia abbia bisogno di qualcosa di inedito, di una rivoluzione democratica che sfidi tutti i conservatorismi e proponga a ciascuno in questo Paese un destino in una missione collettiva.
Non ho citato fin qui l’onorevole Berlusconi, perché ho sempre pensato che l’Italia debba andare al di là di lui, che non basti additarlo come nemico per cambiare radicalmente il Paese. È lui che fa così da anni e per questo porta più responsabilità di ogni altro italiano per lo stato del Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico). Ma ora voglio citarlo, perché un giorno Berlusconi, senza accorgersene, ha reso lineare e plastica la differenza tra noi, la differenza tra conservatori e riformisti o, se si vuole, fra destra e sinistra.
Era il 2006 e Berlusconi partecipava all’unico confronto che abbia mai fatto in TV dal 1994, e disse la frase che cito dall’Ansa: «La sinistra propone di rendere uguali il figlio del professionista e quello dell’operaio». Vede, noi non vogliamo che nessuno sia uguale all’altro, la società aperta misura capacità e ambizione di ciascuno e valorizza queste differenze, ma – e questa è la profonda storica diversità tra noi – noi vogliamo proprio che il figlio del professionista e quello dell’operaio abbiano le stesse possibilità di riuscire nella vita (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Noi vogliamo che l’Italia che produce, che paga le tasse, che lavora e fatica onestamente, che rischia da poliziotto o da magistrato, che insegna o ricerca, si senta chiamata fuori dalla trincea e si renda disponibile ad una nuova stagione di dinamismo e di innovazione. È questa – unire i riformisti, creare le condizioni del più radicale cambiamento di cui l’Italia ha bisogno – la nostra missione, la missione del Partito Democratico: fare incontrare i riformismi, far ripartire il Paese. Buon lavoro a voi e buon futuro all’Italia (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico, Misto-Alleanza per l’Italia e di deputati del gruppo Futuro e Libertà per il Terzo Polo – Congratulazioni).
l’Unità 22.12.12
“Non basta più la par condicio”, di Giovanni Valentini
Se uno vuole farsi ascoltare dagli altri, non deve alzare la voce, bensì abbassarla; è questo che suscita autentica attenzione. (da “Il senso di una fine” di Julian Barnes – Einaudi, 2012 – pag. 33)
Si chiama “sostegno privilegiato”. Ed è quello che le aziende editoriali e televisive non possono prestare ai loro proprietari o azionisti di controllo, titolari di cariche di governo: vale a dire, testualmente, “qualsiasi forma di vantaggio, diretto o indiretto, politico, economico o di immagine”.
Lo stabilisce il combinato disposto di quella che proprio qui in passato abbiamo denominato “legge Frasparri”, l’intreccio perverso tra l’infausta legge Frattini sul conflitto di interessi e la famigerata legge Gasparri sulla riforma televisiva. Due aborti; due misfatti commessi dal centrodestra nel 2004 per proteggere gli interessi il-legittimi di Silvio Berlusconi, il premier-tycoon che ha fondato il suo potere sul regime televisivo.
Oggi, come si sa, il Cavaliere non ha (fortunatamente) cariche di governo, ma s’è già ricandidato (purtroppo) alla presidenza del Consiglio ed è comunque il leader di un partito politico. Al momento, dunque, a stretto rigor di legge non si può parlare di “sostegno privilegiato” da parte delle sue reti.
Ma che cos’è allora quello che hanno già cominciato abbondantemente a prestargli in questa vigilia elettorale le tv domestiche, dal soliloquio di “Domenica Live” su Canale 5 con la compiacente Barbara D’Urso all’oneman- show su Retequattro? Come vogliamo chiamarlo? Sostegno di privilegio o privilegio di sostegno?
Che differenza c’è, sotto questo profilo, tra un uomo di governo e un leader politico? Quale che sia la sua carica “pro tempore”, non ne ricava comunque un indebito vantaggio, a danno dei concorrenti o avversari? E se poi l’uomo politico diventa uomo di governo anche per effetto di un tale trattamento di favore, non rischia di risultarne inficiata la sua stessa legittimazione? Non sarebbe il caso, allora, di estendere la normativa sul “sostegno privilegiato”, applicandola magari “erga omnes”?
Di fronte all’incontinenza televisiva del Cavaliere, francamente sarebbe stato lecito attendersi dalla nuova Autorità sulle Comunicazioni qualcosa di più della rituale litania su “imparzialità, equità, completezza, correttezza, pluralità dei punti di vista ed equilibrio delle presenze dei soggetti politici”. Ed è fin troppo ovvio che tutto ciò va garantito già adesso, prima della campagna elettorale: la “par condicio”, evidentemente, non basta più. Con tutto il rispetto per l’Authority dei “tecnici”, questa “sentenza” ricorda più Ponzio Pilato che Salomone.
La verità però è che il vizio sta all’origine, cioè in quel conflitto di interessi (al plurale, per carità!) che deriva dal contrasto tra la funzione pubblica dell’uomo politico e il ruolo privato dell’imprenditore. Di più: nel caso specifico, dall’insanabile incompatibilità con il suo status giuridico di concessionario pubblico, titolare di un contratto con lo Stato e quindi controparte di se stesso.
È questa la ragione irreversibile per cui, anche nel nostro sventurato Paese, un concessionario pubblico dovrebbe essere ineleggibile. In altri termini, non dovrebbe neppure mettere piede in Parlamento né tantomeno al governo. E ciò vale, naturalmente, sia per le concessioni televisive sia per quelle ferroviarie o di qualsiasi altro genere.
Prendiamo in parola allora Pierluigi Bersani quando promette che quella sul conflitto di interessi sarà eventualmente la sua “prima legge” e auguriamoci che una buona volta il centrosinistra mantenga davvero l’impegno. Una nuova legge, appunto, imperniata su un’autentica normativa anti-trust e su una rigorosa disciplina delle incompatibilità. Regole di democrazia economica che appartengono alla cultura capitalistica liberale, non all’ideologia comunista o alla tradizione rivoluzionaria.
La Repubblica 22.12.12