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“Oltre il vecchio sistema politico”, di Michele Prospero

La conferenza stampa di fine anno di Mario Monti riconduce d’un tratto alle consuetudini linguistiche della prima repubblica. Il suo pacato discorso presenta infatti delle studiate zone di opacità che sollecitano un arduo lavoro di decodifica per poterne af- ferrare il senso. Le parole del premier, ad un rudimentale setaccio ermeneutico, possono essere lette al tempo stesso come un ritiro da ogni ruolo partigiano ma anche come un impegno diretto nell’agone politico.
Con il suo linguaggio «polisemico» che nasconde e al tempo stesso disvela, Monti ha cercato di proteggere l’immagine super partes che non può permettersi di tradire il patto originario con i custodi della costituzione e con i partiti che più hanno sostenuto il governo. E però, nella formale aderenza al ruolo istituzionale neutrale, egli ha compiuto un passo ben visibile nell’arena politica con l’ambizione della leadership.
Lo ha fatto preoccupandosi però di dissipare la sensazione di una riedizione di un novello partito personale. Con la creazione di una lista personale Monti avrebbe spinto a riscrivere la storia istituzionale della fase che ha visto la caduta di Berlusconi e la genesi di un governo tecnico. Escogitata come una tregua per consentire ai partiti di riorganizzarsi, l’esperienza non poteva inopinatamente tramutarsi in uno spregiudicato sfruttamento del plusvalore politico associato alla premiership per tentare il colpo grosso di un nuovo cartello personale che rivendica la proroga del potere.
Con la sua agenda programmatica, Monti sollecita un sostegno che scavalca i partiti e poggia sulla credenza che la coppia destra-sinistra, vitale in tutti i sistemi politici europei, sia ormai da archi- viare in Italia. Il rischio che una tale formula sprigiona è quello di evocare una generica chiamata alle armi che attrae spezzoni di partito, singole personalità dalla variegata estrazione culturale. Con l’ambiguità di una aggregazione di persone, sigle e liste, Monti ragiona in un quadro di tipo trasformista che ostruisce un riallineamento del sistema politico secondo più trasparenti moduli europei.
Il disegno sistemico montiano prefigura una attrazione centripeta di porzioni di èlite che taglia i ponti con il populismo berlusconiano ma edifica paletti anche verso la sinistra di governo alleata con il Partito Democratico (e distribuisce patenti di affidabilità scrutando persino nella geografia interna al Pd). Il richiamo a De Gasperi sorregge una operazione che dovrebbe condurre ad un centro liberale (poco attratto dal lavoro e dal disagio sociale) che è nettamente alternativo alla destra e competitivo con la sinistra, con la quale non esclude convergenze.
Con la sua copertura programmatica, Monti ipotizza una rapida lievitazione delle forze di centro che apre ad una competizione almeno tripolare. In un quadro politico ancora esplosivo, che vede l’arco delle forze costituzionali (di sinistra e di centro) attestarsi intorno al 50 per cento dei consensi, riscaldare una competizione più marcatamente tripolare, senza avere la reale capacità di arginare la destra populista, comporta delle incognite, da non trascurare. Con troppa fretta si rubrica la bolla di sapone berlusconiana come una cosa del passato.
Incapace di pescare a destra per sgonfiare il populismo (guai a sottovalutare la capacità di fuoco del nuovo Cavaliere, materialista e agitatore che predica la crudezza della crisi e denuncia le nuove povertà), la eccessiva visibilità politica di Monti potrebbe condurre a un miope duello con il Pd che scompagina proprio l’area della lealtà costituzionale e della fedeltà europea. Una corsa a tre non può dispiegarsi in maniera produttiva con una legge elettorale come quella vigente che premia chi arriva primo, con qualsiasi percentuale di voto.
Poiché, almeno a Montecitorio, una maggioranza (e molto ampia) è prefigurata dalla tecnica elettorale, le speranze di Monti di tornare a giocare un ruolo di primo piano si rivolgono a Palazzo Madama. Ma anche la riedizione delle più sfacciate delle contrattazioni post-elettorali non può espropriare della dimora di Palazzo Chigi il leader del partito più votato alla camera.
Per questo il piano politico di Monti, nella congiuntura storica attuale, o conduce ad un tragico rimaneggiamento del Pd, con conseguenze incalcolabili per il sistema, o si limita a favorire una aggregazione del centro che manovra in aula riesumando una predilezione al ricatto e alla minaccia. Monti, che non è intenzionato a calcare la scena come leone ruggente, può davvero ricomparire come cinico giocatore d’azzardo che semina trappole nell’Italia del dopo voto?
L’Unità 24.12.12
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“Il Paese che potremmo fare”, di MARIO CALABRESI
Il discorso più politico della vita di Mario Monti non aveva niente che ricordasse il linguaggio della politica. Nessuna allusione, nessun dubbio di interpretazione: le critiche, anche durissime a Berlusconi come alla Cgil o a Vendola, erano chiarissime e lineari, così come le speranze, le paure e l’orgoglio. Il linguaggio usato efficace, perché ogni parola voleva dire esattamente quello che il suo suono conteneva. Tanto che la critica più forte rivolta ad Alfano e al partito che ha messo fine in anticipo alla legislatura è di aver parlato con troppa leggerezza e disinvoltura, dimenticando che la forza delle parole sta nel loro significato originale.
Il discorso del Professore che si è appassionato all’arte di governare (intesa come possibilità di fare la differenza nelle scelte cruciali per il destino di un Paese) cade in un momento di passaggio fondamentale per l’Italia, che è anche passaggio d’anno e fine di legislatura. E’ un discorso che potrebbe anche non avere alcuna conseguenza pratica, perché è difficile immaginare quali processi aggregativi possa mettere in atto e perché il percorso non è chiaro, ma quello che mi ha colpito è la forza di una testimonianza di quello che siamo e di ciò che potremmo essere.
È la forza di richiamare al dovere della chiarezza e della verità le maggiori forze politiche italiane che concorrono alla guida del Paese.
Mario Monti ha voluto dire alla società italiana che il mondo è profondamente cambiato, che corre veloce intorno a noi, che la distinzione destra-sinistra non basta più a risolvere i problemi e a spiegare le sfide, ma che la vera discriminante è tra conservatorismo e voglia di futuro, tra il coraggio della verità e la demagogia degli slogan. Ha parlato del bisogno di fare bambini, di restituire fiducia e di scommettere sulle donne per avere una società che cresce.
«Promettere di abolire l’Imu è bellissimo, ma se lo si facesse dopo solo un anno si sarebbe costretti a rimetterla raddoppiata», ha detto sottolineando che non è più tempo di giochi, spacconate, che nessuno nel mondo è più disposto a tollerarle e a sopportare la nostra inclinazione alla scorciatoia.
C’è bisogno di «una politica forte e con le spalle larghe, che non corre a nascondersi» e che non deve avere paura di assumersi responsabilità ma che soprattutto «non svenda il futuro dei giovani solo per farsi rieleggere».
Ho pensato spesso all’uscita di Monti da Palazzo Chigi, mi aspettavo che fosse simile alla sua entrata e al suo stile: immaginavo se ne andasse senza fare proclami, ringraziando per l’opportunità, e che, dopo aver restituito le chiavi e salutato, avrebbe preso un treno per Milano. La foto dell’uomo che saliva sul treno avrebbe fatto il giro del mondo, l’uscita di scena avrebbe di certo spaventato i mercati ma sarebbe stato anche un grandioso segno di normalità (cosa a cui nessuno è abituato quando si parla di Italia). Nei giorni successivi mi immaginavo sarebbe rimasto in silenzio e lo avremmo visto al massimo passeggiare per Milano o in qualche località di montagna con la moglie e i nipotini. Sarebbe diventato l’ideale Riserva della Repubblica e il più forte pretendente alla successione di Giorgio Napolitano al Quirinale.
Invece Mario Monti ha scelto di parlare per oltre due ore, di lanciare un suo manifesto sul futuro dell’Italia, di mettersi a disposizione per guidare una nuova stagione politica. Perché lo ha fatto? Direi per un solo motivo: per paura che gli sforzi dell’ultimo anno potessero essere vanificati, per paura che i conservatori potessero tagliare in fretta i primi faticosi germogli di cambiamento. Ieri ha detto con chiarezza quali sono i mondi che lo spaventano e che secondo lui possono mettere in discussione il futuro del Paese: da un lato il ritorno di Berlusconi e delle sue promesse irrealizzabili, quel modo di intendere gli impegni che in Europa ci procurerebbe di nuovo solo risatine e alzate di spalle; dall’altro la visione conservatrice di Vendola e della Cgil, soprattutto sul lavoro.
Durante l’estate il Professore ha capito cosa significa governare – tanto che per lui la maggior colpa del predecessore non sono «i festini irriguardosi di ogni dignità ma le decisioni mai prese» – e ha sentito chiara la soddisfazione di riuscire a fare la differenza nel dibattito europeo, di riuscire a farsi ascoltare e rispettare là dove da tempo non avevamo più diritto di parola. Così ha pensato che tornare a casa in silenzio sarebbe stata una furbizia, forse lucrosa, ma non più in sintonia con i tempi di cambiamento che viviamo. E allora ha messo in gioco tutto, per poter dire con chiarezza quello che pensa, perché è convinto che una strada di uscita dal tunnel ci sia ma abbia bisogno di coraggio, di rotture di schemi ideologici ormai completamente superati.
Non ho assolutamente idea di quale potrà essere il destino politico di Monti, ma alla vigilia del nuovo anno ho una sola speranza: che non si richiuda tutto come se l’anno dei tecnici non ci fosse mai stato, che la politica sia capace di rinnovarsi, di cambiare, di dare risposte vere che si occupino del malessere e ci parlino di futuro.
Il discorso di Monti è un buon viatico, è un serbatoio di idee per un’Italia più europea, più razionale e più dinamica, speriamo che anche Pierluigi Bersani, che è il candidato più quotato alla guida del Paese, non si rinchiuda in un atteggiamento di autosufficienza ma colga tutto questo come un’opportunità.
La Stampa 24.12.12

“Femminicidio, strage che si può fermare”, di Barbara Spinelli*

“Il femmicidio e il femminicidio sono due neologismi coniati per evidenziare la predominanza statistica
della natura di genere della maggior parte degli omicidi e violenze sulle donne. Femmicidio è l’uccisione della donna in quanto donna! (Diana Russell), e nella ricerca criminologica include anche quelle situazioni in cui la morte della donna rappresenta l’esito/la conseguenza di pratiche sociali misogine. In alcuni Paesi, in particolare dell’America Latina, si è scelto anche di introdurre nei codici penali le fattispecie o le aggravanti di femmicidio o di femminicidio.
La violenza maschile sulle donne costituisce una violazione dei diritti umani, della quale il femminicidio costituisce la manifestazione più estrema. La codificazione del femminicidio quale violazione dei diritti umani, è avvenuta nell’ambito del sistema di diritto internazionale umanitario internazionale e regionale. In Italia, anche rispetto ad altri Paesi europei, persiste una significativa difficoltà per le Istituzioni e per i giuristi a concepire la necessità di un approccio giuridico e politico alla violenza maschile sulle donne che la affronti quale violazione dei diritti umani.
Di conseguenza, le politiche e le riforme legislative difficilmente rispondono all’esigenza di attuare le obbligazioni istituzionali in materia – come prevenire la violenza maschile sulle donne, proteggere le donne dalla violenza maschile, perseguire i reati che costituiscono violenza maschile, procurare compensazione alle donne che hanno subito violenza maschile – nei modi e nelle forme indicati dalle Nazioni Unite (Raccomandazioni all’Italia del Comitato Cedaw e della Relatrice Speciale Onu contro la violenza sulle donne, Rashida Manjoo). Si ricorda infatti che anche in materia di violenza maschile sulle donne, gli Stati sono tenuti non solo a non violare direttamente i diritti umani delle donne, ma anche ad esercitare la dovuta diligenza .
Si configura una responsabilità dello Stato, qualora i suoi apparati non siano in grado, attraverso l’esercizio delle funzioni di competenza, di proteggere, attraverso l’adozione di misure adeguate, il diritto alla vita e all’integrità psicofisica delle donne, o qualora l’aggressione da parte di privati a questi diritti fondamentali sia favorita dal mancato o difficile accesso alla giustizia da parte della donna. In tal senso, si ricorda che l’Italia nel 2009 è già stata condannata dalla Cedu. Il problema principale che caratterizza l’inadeguatezza delle risposte istituzionali alla violenza maschile sulle donne in Italia, è rappresentato dal mancato riconoscimento da parte delle Istituzioni della persistente esistenza di pregiudizi di genere, e dell’influenza che questi esercitano sull’adeguatezza delle risposte istituzionali in materia.
C’è infatti una vera e propria tendenza alla rimozione, del fatto che fino a ieri il sistema giuridico italiano era profondamente patriarcale: chi ricorda la data della riforma del diritto di famiglia, che ha abolito la potestà maritale? E le riforme del codice penale che abolito l’attenuante – per gli uomini – del delitto d’onore e hanno spostato la violenza sessuale da reato contro la morale a reato contro la persona? Il fatto è che quella stessa mentalità ancora oggi è profondamente radicata nel pensiero degli operatori del diritto e, in assenza di formazione professionale sul riconoscimento della specificità della violenza maschile sulle donne e delle forme in cui si manifesta e degli indicatori di rischio che espongono la donna alla rivittimizzazione, spesso si risolve in sentenze dalle motivazioni anche palesemente sessiste ovvero nella mancata ricezione di denunce-querele ovvero nella mancata adozione di misure cautelari a protezione della donna, il tutto descritto dalle Nazioni Unite come il persistere di atteggiamenti socio-culturali che condonano la violenza di genere.
La percezione di inadeguatezza della protezione da parte delle sopravvissute al femminicidio in Italia risponde a un problema reale, confermato dai dati ormai noti: 7 donne su 10 avevano già chiesto aiuto prima di essere uccise, attraverso una o più chiamate in emergenza, denunce, prese in carico da parte dei servizi sociali. Allora occorre anche da parte degli operatori del diritto sollecitare i soggetti istituzionali preposti al corretto adempimento delle obbligazioni internazionali in materia di prevenzione e contrasto al femminicidio. In particolare sul fronte della prevenzione, con la predisposizione di sistemi di efficace e uniforme raccolta dei dati sulla vittimizzazione e sulla risposta del sistema giudiziario (con dati pubblici, disponibili online e costantemente aggiornati); e la formazione di genere per tutti gli operatori del diritto. Mentre sul fronte della protezione bisogna favorire la formazione di sezioni specializzate, l’intervento anche in emergenza da parte di «volanti specializzate» , e favorire linee-guida e protocolli di azione nazionali da adottarsi per i vari uffici (protocolli di intervento per le forze dell’ordine, protocolli della magistratura inquirente sulla conduzione delle indagini, protocolli per l’adozione degli ordini di protezione, ecc.) per facilitare anche l’organizzazione delle procure e dei giudici per le indagini preliminari e per l’esecuzione della pena in maniera tale da trattare in via prioritaria le situazioni di violenza nelle relazioni di intimità. A cui aggiungere un maggiore coordinamento tra tribunale per i minorenni, procura della repubblica, tribunale civile, anche attraverso la previsione di obblighi di comunicazione, e il divieto di mediazione per i reati famigliari. Sul fronte della persecuzione bisogna invece favorire l’immediata implementazione della direttiva europea del 2012 sulle vittime di reato e sul fronte della compensazione portare avanti la formazione professionale per favorire il riconoscimento della specificità dei danni nei casi di violenza di genere.
Questo intervento è tratto dalla Tavola sul «Femminicidio: analisi, metodologia e intervento in ambito giudiziario» organizzata a Roma da Luisa Betti e Antonella Di Florio
L’Unità 24.12.12

“Le metamorfosi del bipolarismo”, di Massimo Giannini

«Qualcosa mi dice di non candidarmi», aveva confessato Mario Monti nel colloquio con Eugenio Scalfari su Repubblica di ieri. Quella «voce di dentro», che in lui covava da tempo insieme a quelle che invece, da fuori, lo spingevano a candidarsi, alla fine ha avuto un peso. L’ultima conferenza stampa del Professore cerimonia di commiato di un tecnico al capolinea, non si è trasformata nell’epifania di un leader pronto a «salire in politica» con la sua faccia e con la sua lista. Monti, per ora, non si candida. O meglio: si candida, ma a modo suo. Da «candidato riluttante».
Si propone cioè nell’unico modo in cui può farlo un senatore a vita obbligato a un profilo di terzietà, e in cui sa farlo un civil servant disposto ad essere «chiamato » dall’establishment, piuttosto che votato dal popolo. Mette se stesso, e la sua Agenda, a disposizione del Paese e di chi, tra i partiti, vorrà assumere questo intero «pacchetto» come architrave costituente della prossima legislatura. Se questo accadrà, e se glielo chiederanno espressamente, lui sarà pronto a valutare un’eventuale premiership. La linea è sfumata. Il lessico è fumoso. Più che Alcide De Gasperi, la formula montiana ricorda Aldo Moro. Ma il senso di marcia, di qui alle elezioni del 24 febbraio, è ormai abbastanza chiaro. Stretto tra la moral suasion di Napolitano (fautore del principio di imparzialità imposto dal laticlavio senatoriale) e la forza dissuasiva dei sondaggi (finora infausti per le formazioni moderate) il Professore si tiene ancora aperte tutte le porte. In entrata, se la proposta dell’ipotetica «coalition of the willing» che lui auspica lo convincerà. Ma anche in uscita, se invece non ci saranno le condizioni di «credibilità» dell’offerta che lui ritiene indispensabili.
Il premier uscente interrompe così l’insostenibile melina di questi ultimi giorni, e rilancia la palla nella metà campo dei partiti. Dicano loro che «uso» vogliono fare del montismo, e dell’eredità positiva lasciata da questo governo di «salvezza nazionale». Poi lui deciderà. Questa mossa presta il fianco ad almeno due critiche. Da un lato, prolunga il clima di incertezza sulla geometria e la fisionomia degli schieramenti in vista del voto di febbraio. Dall’altro lato, riflette lo stesso schema emergenziale dal quale è nato un anno fa il governo tecnico: la «democrazia degli ottimati» che prevale, ancora una volta, sulla democrazia degli eletti. Ma in questa mossa c’è anche una svolta strutturale. Un gigantesco «cambio di gioco», di cui Monti diventa l’artefice. Nella bolla di relativa incertezza, che il Professore non ha voluto sgonfiare per ragioni di coerenza istituzionale di convenienza personale, ci sono alcune certezze ormai evidenti. Destinate a incidere profondamente sulla campagna elettorale e sulle prospettive della prossima legislatura.
La prima certezza è la rottura, insanabile e definitiva, con la destra berlusconiana. Al di là delle cortesie formali, che fanno parte del collaudato fairplay montiano, il premier uscente ha liquidato l’epopea populista e cesarista del Cavaliere con parole eleganti, ma taglienti come la lama di un rasoio. Lo «sbigottimento» di fronte alle schizofrenie quotidiane di Berlusconi riassume e riflette lo sconcerto di tanti italiani. Già nella conversazione con Scalfari, il premier uscente aveva escluso una possibile alleanza con il Pdl: «Non lo farò mai». Ora, questa sentenza diventa inappellabile. Quando Monti arriva ad esprimere «fatica nel seguire la linearità del pensiero» di Berlusconi, e a parlare di una «comprensione mentale che mi sfugge », non c’è più altro da aggiungere. Il berlusconismo è archiviato. E questa destra, ancora una volta dominata dalla figura tragicomica del suo padre padrone, è inservibile per qualunque progetto costituente. Averlo detto con assoluta chiarezza di fronte all’opinione pubblica non è solo un gesto di coraggio, ma anche un atto di forza del Professore, che in questo anno di tormentata coabitazione con il Cavaliere ha dovuto ingoiare fin troppi rospi, senza mai potersi togliere la soddisfazione di urlare la sua verità. Ora questa verità è venuta a galla, ed è un bene per tutti.
La seconda certezza è speculare alla prima. Se davvero anche Monti pensa ed agisce nella logica di un futuro governo «pienamente politico», questo significa che i possibili alleati di una futura maggioranza che non si vuole più «strana» ma «normale», non potranno essere che il nuovo centro di Monti (Grande o Piccolo che sia) e il centrosinistra di Bersani. Questo carica tutti di enormi responsabilità. Il premier uscente lo ha già detto a Scalfari: «Considero indispensabile un’alleanza post-elettorale con il Pd». Ma nel frattempo, pur nella validità del suo paradigma che ruota intorno all’alternativa cambiamento/conservazione, dovrà convincersi che esiste ancora una sinistra diversa dalla destra, e che non tutto quello che è stato fatto dal suo governo (sul fronte dolente della crescita e dell’equità sociale) va preservato e venerato come un totem. I centristi di Casini e Montezemolo, che si identificano nel Professore, dovranno dimostrarsi all’altezza del compito. Rinunciando per sempre alle tattiche andreottiane dei due forni. Incarnando al meglio la cultura del popolarismo europeo, piuttosto che l’incultura del tatticismo doroteo. Selezionando con cura le liste dei propri candidati, come gli chiede implicitamente lo stesso Monti, prima di scendere in campo con loro o anche solo prima di dar loro la sua «benedizione».
Infine, il Pd. Bersani fa benissimo a ricordare al Professore che ora la parola spetta ai
cittadini-elettori. Il segretario sa che, prima del voto, con Monti funzionerà un meccanismo di competizione. Ma sa anche che, dopo il voto, sarà opportuno (se non addirittura necessario) un meccanismo di collaborazione. Andranno studiati i tempi e le forme. Ma è uno sbocco quasi inevitabile. Prima di tutto per scongiurare l’ipotesi di un «pareggio » al Senato, dove il premio su base regionale può favorire l’asse Pdl-Lega in regioni chiave come il Veneto, il Piemonte e la Lombardia. E poi perché, per un Partito democratico che punta finalmente a riscoprire la famosa «vocazione maggioritaria», la prospettiva della completa autosufficienza può rivelarsi controproducente. Vellica il settarismo del vecchio Pci, ma non aiuta la nascita di un riformismo nuovo e moderno.
Se è legittimo e giusto rivendicare un programma imperniato su una maggiore equità sociale, sulla difesa dei diritti e dei deboli, è altrettanto legittimo e giusto allargare il perimetro della rappresentanza, e adoperarsi per rendere finalmente possibile un vero patto tra moderati e progressisti. Le istanze ugualitarie di Vendola, e le rivendicazioni protestatarie della Cgil, sono una risorsa della sinistra. Ma non possono e non devono esaurirne la spinta, a meno che non ci si voglia rinchiudere nella «fortezza» dell’esistente.
Da ieri il quadro politico è già cambiato. Grazie a Monti, l’Italia è uscita dal baratro finanziario nel quale stava precipitando. Grazie a Monti, qualunque sia il giudizio sul suo operato e sui singoli punti della sua Agenda, l’Italia ha oggi un ancoraggio solidissimo con l’Europa. E grazie a Monti, il bipolarismo italiano è già diverso da quello che abbiamo conosciuto in questi ultimi vent’anni. Con la definitiva esclusione della destra forza-leghista dal perimetro della governabilità, cade quella «anomalia necessaria» che ha giustificato le Larghe Intese di un anno fa. L’incubo della Grande Coalizione con Berlusconi, da oggi, non è più all’orizzonte. La stagione dei patti col diavolo è finita. Il Paradiso resta ancora lontano. Ma stavolta, forse, possiamo almeno uscire dall’Inferno.
La Repubblica 24.12.12

“Il Cavaliere solitario per istinto e strategia”, di Ilvo Diamanti

Solo contro tutti. È la parte che, oggi, recita Berlusconi. Un po’ per istinto e per sentimento. Un po’ per calcolo e per strategia. Per istinto e sentimento. Perché non si fida di nessuno. Neppure dei “suoi”. Anzi, soprattutto di loro. I leader alleati (fino a pochi anni fa). Fini e Casini, postfascisti e neodemocristiani. Miracolati. Sdoganati e recuperati da lui, nei primi anni Novanta. Quand’erano gli esemplari sopravvissuti di una specie in via di estinzione. Destinati a scomparire. Oppure a finire fuori gioco. Emarginati ed esclusi. Berlusconi ha offerto loro un ruolo di primo piano. E loro, in cambio, hanno tramato per la sua successione. Fino ad abbandonarlo. Lasciandolo solo. Come ha fatto gran parte dei parlamentari del Pdl e del centrodestra. Lo scorso ottobre, dopo la condanna del Tribunale di Milano a suo carico per frode fiscale, nel processo Mediaset. Berlusconi. Si è sentito vulnerabile. Ed è tornato. È sceso di nuovo in campo. Meglio, in campagna elettorale. Anzitutto e soprattutto in televisione. Abituato com’è a considerare la tivù la grande madre dell’Italia media. L’Italia dei media. Il Paese dove, ancora oggi, l’80% degli italiani usa ogni giorno la tivù per informarsi (Sondaggio Demos-Coop, dicembre 2012). Il problema, semmai, è che Berlusconi si è abituato a comunicare solo da solo. Attraverso monologhi. Non sopporta i dialoghi, le interviste serie. Le domande: per lui sono interruzioni. Quasi aggressioni. Tanto più se avvengono — come ieri pomeriggio — su RaiUno, la Rete istituzionale. In una trasmissione pop-olare, come l’Arena. Allora reagisce con sdegno. Minaccia il conduttore, Massimo Giletti, di andarsene. E fatica a riprendere il controllo di se stesso.
Forse anche per tattica. Per recitare da solo contro tutti. Solo davanti a tutti. Amato e, magari, odiato. Ma non ignorato. Dimenticato. L’unico silenzio sopportabile, per lui, è quello – fragoroso – degli ultimi mesi. Quando parlava senza parlare. Appariva senza apparire. Per far evaporare l’ondata di impopolarità che lo aveva travolto nel corso del 2011. Lui, costretto a farsi da parte. Ma sempre lì. Incombente. Pronto a ritornare.
Ma Silvio Berlusconi, oggi, agisce da solo contro tutti anche per calcolo e per strategia. Per imporre se stesso come attore politico “centrale” – e al tempo stesso principale “frattura” – della competizione politica ed elettorale. Com’è avvenuto negli ultimi vent’anni. Nella Seconda Repubblica, dove Berlusconi ha costruito e costituito il nuovo “muro” che divide l’opinione pubblica e gli schieramenti. Pro o contro di lui. Teme, Berlusconi, che questa situazione cambi. Di venire emarginato. E, quindi, sconfitto. Perché questo sistema elettorale, il cosiddetto Porcellum, progettato e imposto da lui e dalla sua maggioranza nell’autunno del 2005, ha effetti bipolari. E, per certi versi, presidenziali. Tende, cioè, a trasformare la competizione elettorale in un confronto fra due leader, due persone. A capo di due coalizioni. Che si contendono il governo in loro nome. Una delle tante anomalie di questa Repubblica preterintenzionale, dove le riforme si affermano nella pratica. Senza bisogno di riforme. Berlusconi teme di diventare un concorrente insieme ad altri. Bersani e Monti per primi. Teme di perdere la rappresentanza e, prima ancora, il marchio dei “moderati”. Teme: che i moderati vengano interpretati, dopo tanto tempo, da un moderato vero. Un liberale come Monti. Mentre, a lungo, sono stati riassunti nell’alveo dell’estremismo mediatico e populista – piuttosto che popolare. Per questo, anche ieri, su RaiUno, Berlusconi ha ribadito la necessità che gli italiani lo votino – contro la Sinistra di ispirazione veterocomunista. E ha insistito sulla necessità di isolare il Centro. Di Casini, Fini, Montezemolo. E di Monti che, anche senza essersi espresso apertamente, potrebbe divenirne la bandiera. La figura di riferimento. In grado di attrarre altri “moderati” dei due schieramenti. Un grave rischio per Berlusconi. Doversi misurare non solo con un “vecchio boiardo” del Pci. Ma con un “moderato”. Accreditato in ambito internazionale. Così, per imporsi come “l’altro polo” della competizione bipolare, alternativo al Pd e a Bersani, per difendersi dalla “minaccia moderata”, Berlusconi non esita a riprendere il repertorio populista. A recitare il copione antipolitico. Contro l’euro e contro l’Unione europea. Contro la Germania. Contro la Merkel e il suo “sottopancia”, Sarkozy. Argomenti usati dalla Lega, ma anche e soprattutto da Grillo e dal M5s. Di cui imita il linguaggio e il personaggio. Anche se in modo diverso e alternativo. Perché Grillo “usa” la tivù, senza andarci. Ma, anzi, sanzionando gli esponenti del suo movimento che vi partecipano. Anche se in televisione Grillo imperversa. Con i videomessaggi ripresi dal suo blog. Con i comizi registrati in piazza. Con le traversate a nuoto dello Stretto e altri eventi concepiti apposta — per sollevare rumore mediatico. Berlusconi, invece, considera la televisione “casa sua”. Ma recita la parte del perseguitato. Vittima di una congiura ordita da gran parte dei giornali e delle reti – che non siano di sua proprietà.
Insomma, Berlusconi sfida Monti, ma anche Grillo, sul loro terreno. Monti: incapace di “mantenere le promesse”. Di realizzare ciò che Berlusconi non aveva potuto attuare, per vincoli esterni. (Non l’avevano lasciato governare…). Grillo: caso esemplare di degrado dell’homo politicus, ridotto nuovamente a scimmia. Più antipolitico e antieuropeo di Grillo. Berlusconi mira a riprendersi i voti degli elettori di centrodestra delusi, confluiti, negli ultimi mesi, nel M5s. Mentre, al tempo stesso, cerca di ridimensionare il ruolo e le competenze di Monti. In fondo, scandisce il Cavaliere, è solo un professore. “Non è mai stato nella trincea del lavoro, non è mai stato protagonista dell’economia”. Anche per questo si “rifugia” nel centro. Che, nella competizione elettorale, in Italia, non costituisce un luogo “centrale”, ma “residuale”. Un’intercapedine del sistema politico.
Silvio Berlusconi, dunque, va alla guerra – elettorale. Combatte da solo. La solitudine non lo spaventa. Lui teme l’indifferenza. Il silenzio. Così, probabilmente, oggi si può dire soddisfatto. Perché è sulla bocca e sugli occhi di tutti. Io stesso gli ho dedicato, per intero, questa Mappa.
Eppure, certamente, tutto ciò non gli basta. Non gli può bastare. Per essere solo.
Perché, per ora, è ancora “uno tra gli altri”. Come altri. Lo sfidante di Bersani, Monti, Grillo… Più che il Muro: una trincea.
La Repubblica 24.12.12

“La responsabilità del cambiamento”, di Claudio Sardo

Giorgio Napolitano ha sciolto le Camere. La parola torna al popolo sovrano. Di fronte agli italiani c’è una decisione di portata storica: se non fosse per il carico ideologico, che allora c’era e oggi non c’è, si potrebbe persino azzardare un paragone con le elezioni del ’48. La crisi economica e sociale nella quale siamo immersi è la più lunga e intensa dal dopoguerra. E l’indirizzo che prenderà il nostro Paese peserà, in misura non marginale, sul destino dell’Europa. Comincia una nuova stagione. Serviranno idee, categorie, uomini nuovi. E speriamo che a sostenere l’impresa sia un telaio più robusto di civismo, solidarietà, moralità.
La legislatura, che ieri si è conclusa, era cominciata nel segno di un Berlusconi trionfante. Non aveva solo vinto le elezioni. Aveva vinto nettamente, cacciando dalla porta persino gli «infedeli» centristi. Era riuscito a saldare un’alleanza politica conservatrice senza confini a destra, come mai la Dc aveva fatto: per tenere alta la barriera nei confronti dei monarchici, dei qualunquisti e dei nostalgici, De Gasperi arrivò persino allo scontro politico e personale con Pio XII. Nel 2008 invece il Cavaliere ha portato sulla sua linea anche la borghesia italiana, a partire da quella elité del capitalismo nostrano che in precedenza aveva diffidato di lui e lo aveva tenuto ai margini del salotto buono.
Quello berlusconiano sembrava un blocco politico e sociale indistruttibile: la sua egemonia si è dispiegata nella prima metà del quinquennio, prolungando la luna di miele post-elettorale e calpestando spesso la dignità della politica, forzando la divisione dei poteri, disponendo arbitrariamente della cosa pubblica per finalità palesemente private. Quella classe dirigente che si copriva all’ombra di Berlusconi non mostrò senso dello Stato perché ne aveva poco: è una debolezza antica della nostra borghesia, che tuttora oscilla tra l’esaltazione del tecnico e l’antipolitica di Grillo. Il tratto in comune è l’ostilità verso l’autonomia della politica e delle istituzioni rappresentative.
Ma la forza di Berlusconi e la fragilità della classe dirigente che lo circondava non costituivano comunque una formula vincente, neppure in termini di sviluppo quantitivativo: anzi, quell’impasto ha provocato il declino del Paese. Un declino drammatico, con numeri che non ammettono giustificazioni: dal 2001, da quando ha governato Berlusconi, l’Italia è la nazione al mondo cresciuta di meno (superata nella classifica solo da Haiti). È aumentato il debito pubblico, sono aumentate le tasse, è diminuita l’occupazione. Il mito dell’uomo straricco che avrebbe distribuito benessere agli italiani non poteva che essere infranto. L’abilità e il potere mediatico di Berlusconi hanno sorretto l’inganno e celato a lungo le contraddizioni. Finché la signora Veronica ha squarciato il velo sulle serate ad Arcore, finché il fedele Fini ha rotto l’unanimità del partito padronale.
Nel circuito politico-mediatico Berlusconi ha fatto testacoda. Ma, prima ancora che sul teatrino politico, la sconfitta della destra populista, costruita attorno all’asse Pdl-Lega, si è consumata nella società. Dove l’impresa italiana ha perso competitività, dove il ceto medio si è impoverito, dove il welfare ha tradito molte famiglie, dove la precarietà è diventata la sola condizione possibile dei giovani, dove la scuola ha perso importanza e con essa l’ha persa la dimensione pubblica.
Per affrontare la crisi più dura dal dopoguerra ci vuole un senso di comunità, ci vuole uno Stato che lavori a testa alta per l’Europa, ci vuole una politica di equità, ci vogliono istituzioni efficienti, coesione sociale, legalità. Il tempo di Berlusconi ha corroso alcune pietre angolari della civiltà politica. Sarebbe sbagliato scaricare su di lui ogni colpa, negando le responsabilità anche di chi lo ha combattuto: ma non c’è dubbio che l’idea berlusconiana di politica (il partito personale) è stata un propulsore della crisi italiana ed è tuttora una zavorra per la ripresa.
Il governo Monti ha restituito all’Italia una chance. Non tutto ciò che ha fatto è condivisibile. Ma negare il segno positivo, oltre che la discontinuità politica, sarebbe come chiudere gli occhi davanti al mondo, che quella novità ha percepito e apprezzato.
Le elezioni saranno una sfida difficile. E l’esito non è affatto scontato. Tanti italiani hanno accumulato sfiducia verso la politica e la mobilità elettorale è molto cresciuta. È il tempo di scelte impegnative e di parole chiare. È ora di finirla con le favole e la demagogia. Davanti a noi ci sono anni difficili: non usciremo dalla crisi tornando allo schema di prima. Bisogna innovare, rompere le gabbie corporative, rilanciare un’idea di pubblico, puntare sul lavoro (a partire da scelte fiscali favorevoli all’impresa che assume e che scommette sulla qualità dei prodotti), ridurre le disuguaglianze sociali, rendere migliore il welfare, stare nel mercato aperto senza fare del mercato un’ideologia.
L’Italia ha bisogno dell’Europa. Come l’Europa ha bisogno di un’Italia seria e autorevole. Abbiamo bisogno di una svolta a sinistra nelle politiche, dopo un lungo ciclo dominato dai conservatori e giunto al capolinea con un pessimo bilancio. «Moralità e lavoro» è la sintesi programmatica scelta da Pier Luigi Bersani. La sinistra che si presen-ta agli italiani deve fare tesoro anche degli errori commessi in passato: sulle tentazioni di autosufficienza deve prevalere la sua re- sponsabilità nazionale, e la capacità di coinvolgere le forze migliori dell’impresa, della società civile, del mondo del lavoro. Serve un patto politico per la ricostruzione. Che, inno- vando, sappia anche valorizzare il tratto di strada compiuto dal governo Monti.
L’Unità 23.12.12

“La patrimoniale sui più ricchi esiste già pagano il doppio o il triplo rispetto al 2011”, di Valentina Conte

Più del doppio quest’anno. Almeno il triplo il prossimo. Le tasse sui “ricchi” hanno preso il volo. Rispetto al 2011, e grazie alle manovre estive di Berlusconi-Tremonti e al Salva-Italia di Monti, i redditi alti e altissimi pagano al Fisco come minimo due volte tanto nel 2012 e tre nel 2013. Chi ha seconde case, in Italia e all’estero, barche, auto potenti, aerei, investe in titoli o azioni, è un “pensionato d’oro” o ha scudato capitali può trovarsi a versare anche 30 mila euro di balzelli in più. Basta abitare in villa, avere una magione a Cortina, un appartamentino a Forte dei Marmi e un altro fuori confine, la Lamborghini in garage, un patrimonio di 3 milioni e mezzo e averne scudato uno, per mettersi l’anima in pace.
LA PATRIMONIALE C’È
Almeno sulla carta, dunque, la “patrimoniale” esiste. Le norme ci sono, sventagliate nelle manovre degli ultimi 15-16 mesi. Ma è chiaro che per essere efficaci devono colpire redditi e beni al sole, che esistono per il fisco e dunque anche per le casse dello Stato. Chi evade non ha problemi, come noto. E i grandi patrimoni tra questi. Basti pensare che su 41 milioni e mezzo di contribuenti, gli italiani ricchi ma onesti che dichiarano sopra i 300 mila euro annui sono appena 30.590 (ultimi dati disponibili, dichiarazioni 2011). E gli altri? Uccel di bosco.
MA FUNZIONA?
La patrimoniale è zoppa per definizione, dunque. Perché non pesca tra gli evasori. Ma anche perché incoraggia elusione, esilio o esterovestizione di cose e denari. Prendiamo le barche. Monti nel Salva-Italia, un anno fa, mette la tassa sullo stazionamento. Passera nel Cresci-Italia, a febbraio, la cambia in possesso. Si teme la fuga verso lidi fiscalmente più amici e la “lobby” nautica preme. Alla fine vince, ma qualcuno se ne va lo stesso. «Non la porto in Croazia, ma la vendo. Troppe tasse», si lamenta Illy, ex presidente pd del Friuli. Il sottosegretario all’Economia Ceriani, il 20 settembre scorso, in audizione alla Camera ammette lo scacco: il governo punta a incassare 155 milioni, ne recupera solo 24 (dati definitivi).
La barca va. I conti un po’ meno. Magro bottino anche per spider e aerei. L’Agenzia delle entrate (dati provvisori) segnala 66 milioni raccolti dal superbollo auto (stimati: 147) e appena 2 milioni dai velivoli (stimati: 85). Tassa sul lusso: super-flop.
IMU
La vera patrimoniale che tutto sommato funziona è l’Imu. La metà dei Comuni italiani ha alzato l’aliquota sulle seconde case, fissata dal governo Monti al 7,6 per mille. Il 18,5% di questi
sindaci ha aggiunto un punto, il 20% due punti, il 12% l’ha portata al massimo: 10,6 per mille. Con le rendite catastali di colpo rivalutate dal Salva-Italia del 60%, la botta è stata notevole. Questi proprietari (circa il 45% del totale) porteranno in dote a Stato e Comuni, che per quest’anno si dividono l’introito, quasi 11 miliardi su un totale di 23-24.
E LA POLITICA?
Gli spazi di manovra per una (altra) “patrimoniale” dunque si restringono. Eppure molti la invocano. A sinistra, Vendola e Ferrero. Mentre Il Pd si divide. Il segretario Bersani ha in mente di colpire «i grandi patrimoni». Così Boccia, «mobiliari e immobiliari ». Fassina ne vuole una «ordinaria». Renzi ripete che «l’unica patrimoniale che serve è far pagare le tasse a chi non le paga». A destra son tutti contro, come d’altronde Casini, temendo la «fuga dei capitali». E l’effetto Depardieu, l’attore francese scappato in Belgio per sottrarsi al balzello di Hollande (75%). Monti «non è contrario, ma senza blitz». Come quelli a Cortina e Sanremo, che però lui stesso ha benedetto.
La Repubblica 23.12.12