Pochi se ne rendono conto, ma il Mali ha legami strettissimi con l’Europa. Da lì passano tonnellate di cocaina prodotta in Sudamerica e destinata ai nostri mercati. E i trafficanti trovano complicità addirittura nell’esercito. Dire che in Italia non ci si occupa di Africa e di Mali sarebbe un’affermazione impropria. Ottimi giornalisti informano i lettori italiani su cosa accade in luoghi che molti fanno addirittura fatica a localizzare. Le informazioni sono dettagliate, utilissime. Ma fino a che non se ne occupano le televisioni e il pubblico non si allarga, tutto rimarrà relegato a poche migliaia di utenti. E poi c’è la mia deformazione professionale, che mi sono abituato a chiamare così solo per essere meno fastidioso, per sentirmi meno solo e forse anche per non generare quella normale diffidenza che si prova verso chi sembra abbia solo cattive notizie da dare.
QUANDO HO L’OCCASIONE, in tv cerco di raccontare anche altro, non solo traffici di droga e organizzazioni criminali. Ma la realtà è un mosaico complesso, fatto di informazioni che ci arrivano da ogni parte e che dovremmo cercare di mettere al posto giusto per provare – almeno provare – a comprendere ciò che ci circonda. Spesso, quando affronto un tema che non riguarda l’Italia, le risposte di molti miei lettori sono: «Perché non ti occupi di quello che accade qui?». Ecco, il qui e l’altrove sono le dimensioni che mi piacerebbe trasformare. Ciò che accade ad esempio in Mali, nell’Africa sahariana, può avere connessioni non del tutto evidenti, ma profondissime, con la crisi in Europa.
Il Mali è un paese pieno di colori e tradizioni che negli ultimi anni ha subito una grave deriva. L’ennesima crisi alimentare che ha colpito il Nord ha apparentemente favorito un fenomeno che era già in atto: la ricostituzione del movimento indipendentista tuareg e la presenza sempre più forte di gruppi islamisti e terroristi come Aqmi (Al-Qaida au Maghreb islamique) e Mujao (Movimento per l’Unicità dell’Islam in Africa Occidentale). A questo si è aggiunta la pratica dei rapimenti che ha chiuso le porte al turismo, fonte primaria di guadagno per migliaia di famiglie. Ecco perché non ci si spiega come mai il Mali resti luogo di transito per compagnie aeree. Naturalmente non riusciamo a spiegarcelo utilizzando categorie legali, ma se si pensa al ruolo strategico che il Mali ha assunto nei traffici di cocaina provenienti dal Sudamerica, capiamo come mai sia necessario farvi scalo. L’occupazione delle regioni settentrionali che ha di fatto creato uno Stato nello Stato, non ha niente a che vedere con le solite sbandierate e temute pulsioni religiose. L’unica reale spinta a creare un luogo franco, dove non ci sia controllo, è avere carta bianca per l’intensificazione dei traffici di droga, armi e migranti. In pochi anni il nord del Mali è diventato il nuovo punto nodale per il traffico di cocaina verso l’Europa. Su 250 tonnellate prodotte in Colombia, Perù e Bolivia, destinate al mercato europeo, si stima che tra le 50 e le 70 passino attraverso l’Africa occidentale. Da gennaio 2006 a maggio 2008, quantità ingenti di cocaina sono state sequestrate in Europa, trasportate con voli provenienti dal Mali. E spesso, in patria, è addirittura l’esercito a presidiare gli aeroporti per ricevere tonnellate di cocaina. E con il caso “Air Cocaine” del 2009 non è più possibile fingere di non sapere. La carcassa di un jumbo jet bruciata fu ritrovata nel nord-est del Mali. L’aereo, proveniente dal Venezuela, trasportava quasi dieci tonnellate di cocaina; non riuscendo a farlo ripartire dalla pista improvvisata nel deserto, i trafficanti dovettero darlo alle fiamme. Le complicità del sistema le capiamo dal numero di sequestri e arresti: dire che sono esigui è usare un eufemismo.
UNA DECINA DI GIORNI fa il primo ministro del Mali, Cheick Modibo Diarra, è stato costretto con un golpe a dare le dimissioni, compulsato dalle forze armate che fanno capo a Amadou Haya Sanogo, presidente del comitato militare del Mali. E’ solo l’ultimo colpo di mano in un paese in cui le elezioni democratiche sono una chimera. Diarra era favorevole all’invio di truppe in Mali per fronteggiare l’emergenza democratica. Sanogo, per tutelare l’autonomia del Nord, ha dovuto porre un argine. Ecco, se non pensiamo che le nostre democrazie dipendano anche da questi luoghi, la commozione per il bello che ci circonda rischia di essere orpello, rischia di essere un bel complemento a una realtà che in fondo non riusciamo a spiegarci.
L’Espresso 23.12.12
Latest Posts
“Ora per fare ricerca bisogna pagare l’Imu”, di Gian Antonio Stella
La Città della Speranza di Padova nata con le donazioni dei cittadini, ha pagato 89.400 euro di Imu. Rubati alla ricerca. La cittadella è un miracolo della generosità di tanti italiani che 18 anni fa si tassarono per regalare al Policlinico un padiglione di Oncoematologia pediatrica. «C aro Gesù Bambino, perché chi combatte le leucemie dei bambini paga l’Imu?». Se i piccoli in cura alla Città della Speranza di Padova scrivessero questa letterina l’Italia farebbe una figuraccia planetaria. Pare pazzesco ma è così: la «Torre della ricerca» tirata su con le donazioni private di migliaia di cittadini ha dovuto pagare 89.400 euro. Rubati ai laboratori, ai ricercatori, ai progetti scientifici.
Cosa sia la Città della Speranza i lettori del Corriere lo sanno. È un miracolo della generosità di tanti italiani che diciotto anni fa si tassarono per regalare al Policlinico di Padova, cioè al sistema sanitario pubblico che non riusciva a venire a capo di una ristrutturazione sempre più lenta e costosa, un intero padiglione di Oncoematologia pediatrica. Costruito, arredato e messo in funzione nel giro di 365 giorni. Unico ritardo, l’ascensore: otto mesi per il timbro burocratico del collaudo.
Diventata via via il cuore pulsante della ricerca italiana del settore, con l’aggiunta di un day-hospital per 5.500 bambini l’anno, un pronto soccorso pediatrico, laboratori, un centro diagnostico, la banca dati nazionale delle leucemie infantili, la Città della Speranza si è lanciata tre anni fa in una nuova impresa. L’edificazione di quella «Torre della ricerca» che con i suoi 17 mila metri quadri di laboratori pronti a ospitare complessivamente 700 «camici bianchi», diventerà la più grande cittadella italiana della scienza. Concentrata soprattutto (i primi ospiti gratuiti saranno ad esempio gli scienziati del «Gaslini» di Genova che studiano il neuroblastoma) sulle malattie infantili. Costruita tutta con donazioni di privati. E messa a disposizione delle strutture pubbliche da cittadini che anche in questi giorni stanno raccogliendo offerte con banchetti allestiti tra i negozi di giocattoli, soldo su soldo, senza ricavare per se stessi neppure il rimborso della benzina.
Ne abbiamo già parlato qualche settimana fa. A proposito della rissa scoppiata intorno al trasferimento nella Torre di Ilaria Capua, che per prima isolò il virus dell’aviaria e mise la sua scoperta a disposizione di tutti i laboratori del mondo rinunciando alle danarose lusinghe delle grandi case farmaceutiche. Un braccio di ferro senza senso: di qua c’è il governatore Luca Zaia deciso a investire soldi regionali per mettere a disposizione della scienziata degli spazi nella Torre, di là le resistenze dell’Istituto zooprofilattico delle tre Venezie, che vorrebbe trattenere la Capua o al massimo lasciarla andar via provvisoriamente in attesa di costruire nuovi laboratori in proprio. Sono mesi che va avanti il braccio di ferro, avvelenato dalle voci maliziose su una guerra intestina dentro la Lega. E si fa sempre più concreto il rischio che la virologa, corteggiata da mezzo mondo e unica italiana inserita dall’Economist tra le persone più influenti del 2013 accanto al nuovo presidente cinese Xi Jinping o al creatore di Twitter Jack Dorsey, finisca per sbattere la porta e andarsene. Tirandosi dietro i migliori del suo staff e gli investimenti che le consentano di far lavorare una settantina di ricercatori. Cecità.
Che la ricerca non sia in cima ai pensieri di chi governa l’Italia da tanti anni, però, lo dimostra al di là di ogni dubbio il caso che dicevamo. Cioè l’importo stratosferico dell’Imu imposta alla «Torre» della Città della Speranza. Quando ha letto la cifra, la presidente della Fondazione, Stefania Fochesato, per poco sveniva: 89.400 euro. «È una somma pazzesca, pretesa da persone generose che da anni, magari perché colpiti da un lutto, cercano di supplire privatamente alle carenze delle strutture pubbliche. Che senso ha che lo Stato ci chieda tutti quei soldi, coi quali si potrebbe finanziare un progetto triennale?».
«Abbiamo consultato tutti gli esperti e non c’è stato niente da fare. La legge è quella», spiega Franco Masello, che della Città della Speranza è l’anima storica, «Non capisco. Come non riesco a capire perché abbiamo dovuto pagare il 10% di Iva per costruire la struttura e addirittura il 21% per gli arredi e i macchinari. Manco comprassimo delle Maserati! La nostra è una Onlus in senso stretto. Neppure una lira di profitto: finisce tutto e solo nella ricerca».
Ma questo è il punto: l’elenco degli immobili esentati dal pagamento dell’Imu, fornito dal Dipartimento delle finanze nella risoluzione 1/Df del 3 dicembre scorso, si rifà infatti come nel caso dell’Ici alla «lettera i) comma 1, dell’articolo 7 del decreto legislativo 504 del 1992, la quale prevede che l’esenzione si applica agli immobili “esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222″».
Per capirci: hanno diritto all’esenzione, stando alle denunce giornalistiche, centinaia di società sportive e scuole private e alberghi spacciati per «casa del pellegrino» e altre entità ancora. Ma non i centri di ricerca no-profit nei cui laboratori si combatte, spesso a dispetto della tirchieria dello Stato, la guerra per salvare i cittadini. Si dimenticarono di inserire la parola «ricerca» 27 anni fa. E da allora non hanno mai trovato il tempo di correggere l’errore…
Il Corriere della Sera 24.12.12
“L’ultima sfida della medicina un farmaco contro tutti i tumori”, di Gina Kolata
Per la prima volta tre aziende farmaceutiche sono pronte a sperimentare nuovi farmaci che potrebbero agire contro un’ampia gamma di tumori — dal seno alla prostata, dal fegato ai polmoni. I farmaci prendono di mira un’anomalia che riguarda un gene responsabile dello sviluppo del tumore. L’esperimento potrebbe segnare l’inizio di una nuova era genetica nella ricerca contro il cancro e portare a cure rivoluzionarie per forme tumorali rare e finora dimenticate e per tumori più comuni. Merck, Roche e Sanofi stanno ingaggiando una corsa per mettere a punto le rispettive versioni di un farmaco in grado di ripristinare un meccanismo che induce le cellule danneggiate ad autodistruggersi.
Nessuna società farmaceutica ha mai condotto finora una sperimentazione clinica di vasta portata su pazienti affetti da varie forme tumorali. Otis Webb Brawley, direttore medico e scientifico dell’Associazione americana per la lotta contro il cancro, dice: «È un passo fondamentale nello sviluppo dei farmaci antitumorali. In futuro l’organo nel quale si è sviluppato il cancro conterà sempre meno, mentre la terapia a bersaglio molecolare sempre di più».
Al centro di questa sperimentazione ci sono pazienti come Joe Bellino. Sette anni fa i medici gli hanno diagnosticato un liposarcoma, raro tumore che colpisce le cellule del tessuto adiposo. Questa forma tumorale si prestava alla sperimentazione di un farmaco della Sanofi, perché i tumori quasi sempre presentano lo stesso problema genetico: una fusione di due grandi proteine. Se il farmaco funzionasse, Sanofi lo sperimenterebbe su diversi tumori
che presentano alterazioni genetiche simili. Se non dovesse dare risultati, ammetterebbe la sconfitta.
L’alterazione genetica presa di mira dal farmaco assilla i ricercatori da decenni. Le cellule sane hanno un meccanismo naturale che le induce a morire se il loro Dna è troppo danneggiato per essere riparato. Una proteina nota come p53 — che Gary Gilliland della Merck definisce “l’angelo della morte della cellula” — innesca l’intero processo. Ma le cellule tumorali riescono a disattivare questa proteina direttamente, tramite una mutazione, o indirettamente congiungendola a un’altra proteina cellulare che la inibisce. Chi è impegnato nella ricerca contro il cancro cerca di riattivare la p53 nelle cellule cancerogene per provocarne l’autodistruzione.
Le speranze riposte nella proteina p53 iniziarono 20 anni fa: l’entusiasmo arrivò a tal punto che nel 1993 la rivista Science la consacrò “Molecola dell’anno” e la mise in copertina.
Le farmaceutiche cominciarono quindi a dare la caccia a una sostanza in grado di ripristinare il funzionamento della p53: provarono la terapia genica, ma senza esito. In seguito si misero a studiare le forme tumorali che utilizzavano una via alternativa per disattivare la p53, bloccandola dopo averla attaccata con una proteina nota come MDM2. E a cercare una molecola che si interponesse tra loro per distanziarle.
Nel 1996 i ricercatori della Roche individuarono una minuscola tasca tra le proteine nella quale poteva introdursi una molecola. Alla fine la Roche ha trovato la molecola giusta e l’ha chiamata Nutlin. Ma questa non ha funzionato come farmaco, perché non veniva assorbita dal corpo.
Successivamente Roche, Merck e Sanofi hanno sperimentato migliaia di altre molecole. Al-
Sanofi, il team di Debussche, insieme a Schaomeng Wang dell’università del Michigan e a una società biotech, Ascenta Therapeutics, ha trovato un composto promettente. La farmaceutica lo ha sperimentato iniettandolo ogni giorno nello stomaco di alcune cavie affette da sarcoma e ha scoperto che i tumori erano scomparsi.
La Roche è stata la prima a sperimentare un farmaco a base di p53 nei pazienti: come richiesto dai protocolli, ha iniziato a cercare la dose ottenesse l’effetto desiderato senza essere tossica. Sono serviti tre anni. A breve dovrebbero seguire studi rigorosi e qualora fossero positivi, sarebbero seguiti da sperimentazioni cliniche su più tipi di tumore.
Recentemente la Merck ha approfondito gli studi per capire quale sia la dose sicura e sta reclutando pazienti affetti da leucemia mieloide acuta. La dose ideale sarà sperimentata in 15 pazienti su un campione di 30 per studiarne l’efficacia. Anche la Sanofi ha iniziato i suoi test sulla sicurezza in Europa. L’anno prossimo proseguirà in alcuni centri medici degli Stati Uniti. Al pari della Merck, si concentrerà su quei pazienti affetti da liposarcoma come Bellino che hanno maggiori probabilità di rispondere al farmaco.
Il liposarcoma è talmente raro — poco più di duemila casi l’anno nel mondo — che nessun farmaco è stato sperimentato sui pazienti colpiti da questo tumore. Bellino sperava di poter essere tra i primi. Purtroppo nel suo caso il test arriva troppo tardi. È morto di tumore il 13 novembre.
(Copyright The New York Times- La Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti)
La Repubblica 25.12.12
“Un edificio nel cuore della capitale tedesca per far pregare ebrei, islamici e cristiani “, di Vanna Vannuccini
Per quattro decenni la chiesa di S. Pietro nel cuore di Berlino, la più antica della città, era scomparsa sotto l’asfalto di un anonimo parcheggio. Ora grazie all’iniziativa di un’associazione privata, fatta propria dalla città, sulle sua fondamenta sorgerà una chiesa unica al mondo, una chiesa per tre religioni: cristiani, musulmani e ebrei pregheranno sotto lo stesso tetto. La nuova chiesa non sarà un rifacimento dell’edificio neogotico che alla fine dell’800 sbalordiva i visitatori con il campanile di 96 metri. Già dall’esterno si dovrà vedere la sua “diversità”, la sua “apertura”. Perché, anche questo un unicum, non sarà luogo di preghiera solo per ebrei. musulmani e cristiani ma anche per tutti coloro che non appartengono a una religione.
Berlino è una metropoli che non crede, forse la capitale al mondo con il maggior numero di abitanti atei o agnostici. La stima è precisa perché in Germania, se non si appartiene a nessuna confessione religiosa, bisogna fare una dichiarazione scritta all’Ufficio imposte e si viene esonerati dal versare le tasse ecclesiastiche, 8 per cento in più delle imposte dovute allo Stato. In questo caso si è però esclusi dai servizi religiosi come battesimi, matrimoni e estrema unzione.
Berlino è anche la più grande città turca ad ovest dei Dardanelli. Ci vivono 250mila emigrati dal Bosforo, concentrati nel quartiere di Kreuzberg, ma sparsi anche nell’ex Berlino est. Ed è una città multiculturale. Gli stranieri sono il 13 per cento, il 6,5 per cento sono musulmani. In città ci sono un’ottantina di moschee. I protestanti sono il 21,5 per cento, i cattolici una minoranza, poco più del 9. Lo 0,6 per cento appartiene ad altre religioni. Gli ebrei sono undicimila, pochi sicuramente ma erano solo duemila quando cadde il Muro. Con la riunificazione cominciarono ad arrivare gli ebrei dall’Est, diretti in Israele. Alcuni si sono fermati, altri sono tornati. I recenti episodi di intolleranza contro gli ebrei hanno ridato voce alle accuse di un nuovo antisemitismo tedesco, ma erano in maggioranza imputabili a giovani emigrati arabi. La convivenza tra stranieri e berlinesi non è certo priva di problemi, ma in generale è più tranquilla che a Londra o a Parigi.
Gli architetti dello studio Kuehn Malvezzi, che hanno vinto la gara, costruiranno un semplice cubo, alto 44 metri e rivestito dei mattoni color senape tipici del Brandeburgo. All’interno non ci saranno simboli religiosi. Ogni comunità potrà celebrare a turno i propri riti in tre settori separati (quelli ebraico e islamico avranno sezioni separate per uomini e donne, come prevedono quelle religioni), mentre in un quarto potranno incontrarsi e pregare insieme. Tutte e tre le comunità hanno dato il consenso. Berlino confida sull’attrazione che eserciterà la nuova chiesa “aperta” nel cuore della capitale, a pochi passi dall’Alexander Platz. «Noi speriamo che i fedeli si mescolino, scambino le preghiere» dice il pastore Hohberg, della comunità protestante del quartiere. Costruita nel 1600, orgogliosadel campanile più alto di Berlino, la chiesa di S. Pietro era stata vittima della seconda guerra mondiale. Dal campanile le Waffen SS sparavano agli artiglieri dell’Armata rossa, l’edificio fu ridotto in rovina e poi demolito da Ulbricht nel 1964.
La Repubblica 24.12.12
“Quei Natali in carcere a contare milioni di passi”, di Adriano Sofri
E. è UNA ragazza rom, ha un bambino di neanche due anni, ed è incinta. Ci sono altri due bambini nella sezione femminile che hanno meno di tre anni. Nel corridoio c’è un albero di Natale finto coperto di stagnola e di strisce di cotone. C’è un albero artificiale anche nel corridoio della sezione maschile, con dei pendagli di cartone colorato.
VENGONO sua madre, sua moglie e la bambina, che ha 11 anni. Hanno fatto la coda per quattro ore, in strada, e pioveva, ma non glielo diranno. Lui si è preparato fin dalle sette, benché le celle vengano aperte solo alle dieci. Ha fatto la doccia, anche se le caldaie sono guaste e l’acqua è fredda, ma non glielo dirà. Ha fatto una domandina per portare dei cioccolatini alla bambina. Lei ha imparato una poesia e gliela reciterà: “Il campanile scocca / la mezzanotte santa”.
La ragazza rom incinta incontra suo marito, un ragazzo anche lui, e un altro suo bambino che avrà quattro anni. Il ragazzo a un tratto la insulta, lei piange, anche i bambini piangono, poi passa. I colloqui finiscono dopo l’una. Quelli, la maggioranza, che non ricevono visite, sono chiusi già da più di un’ora. Alcuni erano andati all’aria, non tanti, fa freddo. Chi era al colloquio mangerà freddo, tanto non ha fame. Chi ha ricevuto posta sta sdraiato in branda e la legge per un’ennesima volta. Anche chi non l’ha ricevuta sta in branda, perché non c’è altro posto in cui stare.
Alle due si può tornare all’aria. Oggi alla sezione penale spetta il campetto di terra, dove si può giocare a pallone se si trova un pallone, e poi si sentono le voci del femminile. A Natale le voci dei bambini incarcerati fanno più impressione. C’è un tubo da cui esce un filo d’acqua rugginosa. C. raccoglie il filo d’acqua nel cavo di una mano, tiene l’altra appoggiata al muro. Ha posato in terra gli occhiali da miope, con la montatura tenuta da un nastro adesivo. Avrà una sessantina d’anni, è tarchiato.
Arriva N., uno di pochi anni e pochi muscoli, istoriato di tatuaggi da strapazzo, vuole il posto. “Scansati, pezzo di merda!”, intima. L’altro è chinato e fa finta di non sentire, o davvero non sente. Il ragazzo gli sferra un calcio nel fianco, e lo manda a sbattere sul muro. L’uomo si volta e mostra i denti, ma solo per un momento, poi si allontana piegato com’è, con una specie di guaito. Il ragazzo dà un calcio agli occhiali e si prende il suo filo d’acqua sporca, poi torna alla partita.
Il pivello è nessuno, uno scapparifero da casa. L’uomo è un assassino. Ha ucciso sua moglie, due anni fa, con un coltello da cucina. Quarantatré coltellate, secondo la perizia. Erano una coppia di paese, non più giovane, la cosa è sì e no arrivata alle cronache locali: “Tragedia della gelosia”. Gli altri vanno e vengono. Tengono gli occhi bassi, per lo più, sembrano assorti in qualcosa di essenziale. Forse, semplicemente, contano i passi. Non è appropriato, per la verità, dire “semplicemente”, per un’operazione impegnativa come contare i passi. È come pregare coi piedi. Fuori la gente dice, alla leggera: “Conto i minuti”, “Conto le ore”, “Conto i giorni” — “Conto gli anni no”, non lo dice — e vuol dire che non vede l’ora che qualcosa succeda.
Qui contano davvero gli anni, e anche le notti e le ore e i minuti, ma soprattutto, per vendicarsi del tempo che ti passa addosso a fondo perduto, contano i passi. Migliaia, centinaia di migliaia, milioni di passi.
Su e giù all’aria, da un muro all’altro, quaranta all’andata e quaranta al ritorno, e anche in cella, se la ressa lo permette, tre dal muro al blindo e ritorno, come se i passi accumulati avvicinassero la meta. Ma sono passi davvero perduti, come chiamano futilmente il corridoio di quel parlamento dove due giorni fa, alla vigilia di Natale, hanno cancellato i pochi fondi per il lavoro in carcere e la misera legge sulle pene alternative. Se i giudici sapessero di che cosa parlano, farebbero alzare in piedi l’imputato e gli direbbero: “Per questo e quest’altro, caro signore, la Corte la condanna a quattordici milioni e seicentotrentaset-temilacinquecentododici passi”.
M. è un ergastolano cui è vietata la speranza, lui non conta i passi, e nemmeno i Natali che gli mancano: tutti i Natali della vita. Alle quattro di pomeriggio sono tutti chiusi di nuovo, passa la conta e la battitura ferri, e poi la terapia. J. prende il metadone e finge di inghiottire: lo fa benissimo. Poi lo risputa in un bicchierino di carta, lo venderà a uno del secondo piano per un rotolo di igienica. R. ingoia sul serio il suo Tavor — è obbligatorio prendere i farmaci davanti a infermiere e agente, anche se è un analgesico e il mal di denti arriverà fra cinque ore. R. ha un solo desiderio: addormentotarsi e risvegliarsi quando le feste saranno passate. Le celle restano chiuse dalle sedici alle dieci del giorno dopo.
A mezzanotte lo scampanio arriva fin qui dentro. P. è polacco e si tiene sveglio perché sa che a casa preparano anche per lui e suo padre versa anche nel suo bicchiere e beve per suo conto.
La mattina di Natale quasi tutti si preparano per la messa, anche quelli che non ci vanno mai. Viene il vescovo oggi, poi andrà a dire la messa solenne per la brava gente in Duomo. Vengono anche i musulmani — solo qualche duro se ne astiene. I musulmani hanno una devozione per Maria e per Gesù, e poi la messa del Natale è la più grande occasione per incontrarsi. Il vescovo dice che è questo il posto giusto per il Natale, che le celle sono il luogo più somigliante alla grotta al freddo e al gelo. Dice che c’è una differenza fra la giustizia e Dio, e che Dio non può farli uscire dalla galera, ma può liberarli dalla schiavitù del peccato, perché li ama.
Qualche vescovo dice che Dio ama loro specialmente. L’idea che un Dio bambinello appena nato in una stalla ami specialmente loro fa venire le lacrime agli occhi, e anche certi gran farabutti sono un po’ sinceri, come ragazzini presi in fallo. I detenuti sono devoti soprattutto alla Madonna, e il Natale in carcere è una festa della mamma. Quando l’officiante esorta a scambiarsi un segno di pace, i detenuti vorrebbero darla e prenderla a tutti i presenti, mano di carcerato con mano di carceriere, mano di nigeriana con mano di romeno, finché maresciallo e appuntati non mettono fine a quell’allarmante viavai.
E comunque C., che ha accoltellato la sua anziana moglie, avrà dato la mano al pivello N. e alla suorina, e per un momento tutti i debiti saranno rimessi a tutti. Intanto, approfittando della ridotta vigilanza, il giovane B., all’isolamento, che aveva fatto il matto per essere portato alla messa anche lui, si è impiccato con la sua canottiera a un calocartafreddo: se muoia o si salvi, non lo diremo.
Dopo la messa gli agenti incalzeranno i fedeli che indugiano come scolari alla fine della ricreazione. Passerà però ancora la suora con qualche regaluccio. C’è un pranzo speciale, oggi, e chi può ha fatto una spesa da festa. (Ognuno dei 67 mila detenuti costa 250 euro al giorno allo Stato, il quale spende 3 — tre — euro per il mantenimento quotidiano del detenuto, colazione pranzo e cena…). Così uno strascico di euforia dura ancora, nonostante una sequela di cancelli blindati si sia richiusa su ogni rapporto col mondo di fuori. Volontari, vescovi, educatori e visitatori se ne sono andati, ciascuno a fare Natale con i suoi. È come se si fossero portati dietro l’aria bianca e rossa del Natale.
Per due giorni — anche domani è festa — si resterà soli, senza visite, senza posta, senza telefonate. Senza. Si capisce che la vera aria del Natale, l’aria triste, si insedi ora sovrana nelle celle.
Una volta si dava a Natale un bicchiere di cattivo spumante a ogni detenuto, e un piccolo mercato moltiplicava le dosi di chi anelava al sonno o alla rissa. I propositi di bontà della mattina scadevano prima del tramonto: bontà e cattività vanno male assieme. Ma anche a spumante abolito — “Economia, Orazio, economia!” — non c’è niente di più triste di un pomeriggio di Natale. Fra poco, si sentirà russare, gemere, urlare. E i televisori a tutto volume, non guardati da nessuno, finché un agente arriverà a dire di spegnere. Poi andrà a sedersi al suo tavolino, in quei rumori di zoo umano. È un giovane agente che prova a studiare perché si è iscritto a legge, è in servizio perché non ha una famiglia propria, e i suoi stanno ad Avellino, così ha sostituito volentieri un collega padre di famiglia. Ha una radiolina accesa e l’auricolare, per ascoltare i racconti dei radicali che hanno passato Natale in carcere.
Dietrich Bonhoeffer era un pastore luterano, fu impiccato dai nazisti. In un Natale, dalla prigione, aveva scritto una lettera ai suoi: “Che Cristo sia nato in una stalla perché non trovava posto negli alberghi, è una cosa che un carcerato può capire meglio di altri”.
La Repubblica 24.12.12
“Agenda Monti”: molti dubbi e interrogativi, di R.P. da La Tecnica della Scuola
L’ “Agenda Monti” di cui il nostro sito ha già dato notizia è certamente un documento di grande interesse che però pone non pochi dubbi e interrogativi. “La scuola e l’università – si legge nel documento – sono le chiavi per far ripartire il Paese e renderlo più capace di affrontare le sfide globali. La priorità dei prossimi cinque anni è fare un piano di investimenti in capitale umano”. Parole nobili, nobilissime, la domanda è d’obbligo: con quali iniziative concrete il professor Mario Monti pensa di raggiungere questi obiettivi ?
Anche l’aumento dell’orario di cattedra era stato presentato da Monti come una operazione finalizzata a migliorare la qualità del sistema di istruzione.
Monti parla anche di motivare i docenti e di riconoscerne il contributo, ma subito dopo sottolinea la necessità di “completare e rafforzare il nuovo sistema di valutazione centrato su Invalsi e Indire” e si spinge fino a prevedere “un premio economico annuale agli insegnanti che hanno raggiunto i migliori risultati”.
L’idea non piacerà di certo a gran parte del “popolo della scuola” che da anni combatte contro l’uso delle prove Invalsi e contro ogni altri strumento che possa in qualche modo “misurare” risultati e prestazioni.
Ed è facile prevedere che l’ipotesi non troverà d’accordo neppure i sindacati del comparto.
D’altronde lo schema di regolamento sulla valutazione e l’autovalutazione della scuola approvato a fine agosto dal Governo (e di cui non si è saputo più nulla) aveva avuto il via libera del Cnpi e di una parte del mondo sindacale solo perché non prevedeva né premi né altri meccanismi di incentivazione.
Il programma contenuto nell’”Agenda Monti” risulta dunque in controtendenza persino rispetto ad una precedente decisione del suo stesso Governo e proprio per questo appare debole e poco credibile.
Anche se, come si sa, in politica vale sempre la regola del “mai dire mai”.
La Tecnica della Scuola 25-12-12
Primarie PD Modena
Cara democratica, caro democratico,
come sai il Partito Democratico ha scelto di selezionare con le Primarie i propri candidati al Parlamento per le elezioni politiche 2013. La Direzione Provinciale di sabato scorso ha approvato la rosa dei nomi, sulla base delle candidature presentate.
In ordine alfabetico:
Roberto Adani, manager di reti d’impresa, ex sindaco di Vignola
Davide Baruffi, segretario provinciale Pd
Mariangela Bastico, parlamentare uscente
Manuela Ghizzoni, parlamentare uscente
Maria Cecilia Guerra, sottosegretario di Stato
Giuditta Pini, segretario provinciale Gd
Matteo Richetti, presidente dell’Assemblea legislativa Regione Emilia-Romagna
Stefano Vaccari, assessore Provincia di Modena
Ti ricordo che si vota domenica 30 dicembre 2012, dalle ore 8 alle ore 21. Si possono esprimere fino a un massimo di due preferenze, obbligatoriamente suddivise, pena la nullità del secondo voto, tra una candidatura maschile e una femminile. Possono votare gli iscritti al Pd, ai Giovani democratici e coloro che hanno partecipato alle primarie del 25 novembre scorso per la scelta del candidato premier del centro sinistra. Per votare occorre scrivere il cognome dei candidati prescelti sulla scheda che verrà consegnata ai seggi. Puoi trovare l’elenco dei seggi e tutte le altre informazioni relative alla consultazione sul sito on line del Partito democratico modenese: www.pdmodena.it.
Partecipiamo tutti a questa nuova occasione di democrazia che il Pd ha voluto per essere ancora una volta alla guida del cambiamento e artefice di buona politica.
Un caro saluto e un sentito Augurio di Buon Natale con i tuoi cari.
Paolo Negro
Coordinatore della Segreteria provinciale PD