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“Cambiano disoccupazione e mobilità: arriva l’Aspi”, di Felicia Masocco

Ancora pochi giorni al debutto dell’Aspi, una sigla che sta per Assicurazione sociale per l’impiego e con cui si dovrà familiarizzare. Dovranno farlo soprattutto i disoccupati visto che l’Aspi dal primo gennaio sostituirà l’indennità di disoccupazione come previsto dalla riforma del Lavoro firmata Elsa Fornero. A partire dal 2013, l’Aspi chiama in causa i disoccupati involontari mentre nel 2017, quando la sua applicazione sarà a regime, sostituirà anche l’indennità di mobilità. Il primo gennaio esordisce anche la mini-Aspi che invece va a sostituire l’indennità di disoccupazione non agricola con requisiti ridotti. La nuova assicurazione si applica a tutti i dipendenti del settore privato e a quelli pubblici a termine e prevede, almeno per i primi sei mesi, un «sostegno al reddito» più pesante dell’attuale indennità, erogato per un periodo più lungo (per la disoccupazione), ma drammaticamente più corto per chi va in mobilità. A regime l’Aspi sarà erogata per 12 mesi (a fronte degli 8 attuali per il sussidio di disoccupazione) se si hanno meno di 55 anni e per 18 mesi se si é over 55 (a fronte dei 12 attuali per gli over 50). L’importo dell’indennità passa per sei mesi dal 60% della retribuzione attuale al 75% con un tetto massimo di 1.119,32 euro. Per avere diritto all’Aspi, rimangono invariati requisiti che oggi consentono di accedere all’indennità di disoccupazione, ossia bisogna essere disoccupati; possedere almeno 2 anni di anzianità assicurativa e aver lavorato (con contributi regolarmente versati) per almeno 52 settimane nell’ultimo biennio.
A REGIME NEL 2017
A ben guardare però non è tutto oro quel che riluce. L’inclusione di nuovi soggetti, cioè l’estensione della platea agli apprendisti e ai soci di cooperativa non è una novità, ma la ratifica di una norma del 2004 anno in cui questi lavoratori sono stati inseriti nel novero degli aventi diritto alla cassa integrazione in deroga: «Quel che cambia è l’ordinamento», precisa Claudio Treves, responsabile Dipartimento politiche del Lavoro della Cgil. Anche sull’importo c’è da eccepire qualcosa: «È vero che viene a cadere il cosiddetto primo massimale di riferimento (quello della cig) per cui l’”assegno” è di fatto più alto e non c’è neanche la trattenuta contributiva, ma questo vale per i primi sei mesi spiega Treves A partire dal settimo, l’indennità subisce un taglio del 15% e un’ulteriore decurtazione del 15% verrà praticata a partire dal 13esimo mese». Anche per la durata c’è da distinguere tra disoccupazione e mobilità: quest’ultima cambierà da 2017 e non dal 2014 come inizialmente previsto («uno slittamento per cui la Cgil si è a lungo battuta»). Le norme attuali salvaguardano il reddito di un disoccupato ultra 50enne per 3 anni al Centro-Nord e per 4 al Sud, con le nuove norme a partire dal 2017 l’indennità di mobilità sarà di 12 mesi per i disoccupati fino a 55 anni e di 18 mesi per chi ha più di 55 anni. «Il taglio della tutela in questi casi è fortissimo continua Treves Senza contare che l’indennità di mobilità prevede anche contributi previdenziali figurativi, quindi non si taglia solo il sostegno al reddito ma anche la contribuzione previdenziale». Infine una considerazione più generale: «Questa indennità viene spacciata come un sussidio universale e invece non lo è conclude il sindacalista Co.co.pro, partite Iva e altri rapporti di lavoro atipico o precario continuano a non avere nessun sussidio».
L’Unità 27.12.12

“Situazione finanziaria delle scuole: le solite cattive notizie”, di R.P. da La Tecnica della Scuola

Fra poco più di una decina di giorni, alla ripresa delle lezioni, le scuole si troveranno di nuovo di fronte ai consueti problemi finanziari e contabili.
La questione più complessa riguarderà la contrattazione di istituto: nel corso di un recente incontro con le organizzazioni sindacali, il Ministero ha ribadito che le risorse complessivamente disponibili per i contratti di scuola 2012/2013 si conosceranno solamente dopo la firma definitiva del CCNL sugli scatti di anzianità e cioè non prima della fine di gennaio.
In alcune scuole si stanno facendo i conti semplicemente decurtando del 25% i fondi assegnati lo scorso anno, ma si tratta di una procedura ampiamente approssimativa, perché in realtà la diminuzione delle risorse non è omogenea nei diversi ordini di scuola.
Per esempio nelle secondarie di secondo grado il taglio rispetto al 2011/2012 potrebbe aggirarsi intorno al 5-7%, mentre nei circoli didattici e nelle secondarie di primo grado si potrà arrivare anche al 35%.
Ma per poter sottoscrivere i contratti di scuola bisognerà comunque attendere la comunicazione ufficiale del Ministero e questo significa che quest’anno le cose andranno per le lunghe.
Il secondo problema che dovrà essere affrontato riguarda la scarsità di risorse per il funzionamento ordinario.
I parametri di riferimento continuano ad essere quelli fissati dal Miur nel 2007 quando però oltre ai fondi per il funzionamento amministrativo e didattico vi erano anche alcune altre voci che con il passare degli anni si sono perse per strada.
Per esempio i fondi per la formazione e l’aggiornamento risultano di fatto quasi azzerati mentre quelli finalizzati alla sicurezza sono spariti da tempo.
Nella circolare sul Programma Annuale il Miur parla anche dei fondi della legge 440/97 a sostegno dell’autonomia scolastica, ma è difficile per ora avere una idea sull’entità delle somme messe in campo.
Anche perché con i provvedimenti normativi che si sono succeduti nel corso dell’anno il Ministero aveva creato un fondo unico che però è stato utilizzato proprio per garantire il riconoscimento degli scatti di anzianità.
Insomma l’incertezza, come al solito, regna sovrana e per le casse scolastiche il 2013 si prospetta difficile, come sempre.
La Tecnica della Scuola 27.12.12

“India, la furia delle donne contro le violenze”, di Mariella Gramaglia

Sono furiosi, «impazienti» – come scrive eufemisticamente la cronista del Times of India – i cittadini e le cittadine di Nuova Delhi che manifestano in tutta la metropoli (e non solo) per una giovane donna che lotta fra la vita e la morte. E’ stata stuprata da un branco di sei aggressori su un autobus abusivo della capitale. I manifestanti sono così furiosi che i medici che avevano in cura la ragazza prima che venisse trasferita, hanno dovuto pregarli di allontanarsi dell’ospedale per non perdere la concentrazione. Così minacciosi che il Parlamento ha deciso di dedicare oggi un’altra seduta speciale alla vicenda.
Qualcosa di nuovo è accaduto. La violenza contro le donne, endemica nel subcontinente, sta spezzando gli argini. E’ aumentata del 25% negli ultimi sei anni. La modernizzazione la rende più visibile, più simile a ciò che anche noi soffriamo.
Le donne sfilano in corteo con i cartelli scritti a mano, in inglese, in hindi, in altre lingue locali: giù le mani dal nostro corpo – gridano, come in tutto il mondo. Gli uomini, o meglio molti uomini, innalzano manifesti stampati in serie con un cappio a tutto campo: impiccateli, impiccateli – ripetono.
Il 31 ottobre 2007, quando Giovanna Reggiani morì a Roma in seguito alla violenza feroce di un rom, il corpo di una donna diventò pretesto di lotta politica fino alle elezioni dell’aprile successivo. Allo stesso modo la destra indiana, chiedendo pena di morte e castrazione chimica, affila le sue armi contro il Congresso di Sonia Gandhi. Molti giovani maschi seguono questa strada. Gli slogan miti degli uomini italiani, le migliaia di firme sotto lo slogan «Mai più complici», le catene di Sant’Antonio per aiutarsi a vicenda a non far del male alle proprie compagne, qui sembrano non attecchire: padri, fratelli e mariti mescolano lo sdegno con il possesso. Questo alla destra piace molto.
Sonia Gandhi, come in altre grandi occasioni in cui si è esposta a difesa dei poveri o dei musulmani perseguitati, ha intuito il momento. Da quando nel 2004 ha rinunciato alla carica di primo ministro, è una madre della patria. Ora ha deciso di investire il suo carisma potente per moltiplicare la voce delle donne con la sua. Dopo aver visitato la giovane al centro clinico di Delhi ha dichiarato che «tutto il Paese deve provare vergogna» e che la polizia e la giustizia vanno addestrate in modo nuovo: devono smettere di colpevolizzare le vittime.
Più giovani autonome, di ceto medio, si affacciano sulla scena pubblica e osano denunciare: vogliono la libertà e non sono disposte a sentirsi dire da avvocati e poliziotti che i loro abiti e i loro comportamenti inducono in tentazione. Come nell’Italia degli Anni Settanta (quelli del delitto del Circeo e della tortura di Donatella Colasanti e Rosaria Lopez) è il branco a farla da padrone. La violenza familiare e di coppia – quella che da noi oggi prevale – è ancora sotto traccia.
Ma anche nei luoghi antichi, che parevano senza riscatto, qualcosa cambia. Nei villaggi remoti dell’Uttar Pradesh c’è il movimento dei sari rosa: ragazze di campagna, un tempo a capo chino, circolano in bande con questa nuova divisa e sono armate di bastone. Si difendono da sole dove la polizia non sa arrivare.
E dove talvolta, al contrario, infierisce come una gang sicura dell’impunità.
La condanna massima per violenza sessuale in India è di 10 anni. Noi – a prescindere dalle aggravanti – arriviamo fino a 16 anni per la violenza di gruppo. Ma, anche lì, come in Italia, l’incertezza della pena è desolante: solo il 25% dei processi si conclude con una condanna. Molte vittime, consapevoli di una cultura nemica, non sporgono nemmeno denuncia. Però sgolarsi sulla pena di morte fa bene ai polmoni.
La Stampa 27.12.12

“Il prete di Lerici attacca ancora: “Donne arroganti” poi chiede scusa”, di Marco Preve

Paese in piazza: “Va trasferito” E lui ai cronisti: ma siete gay? «Non volevo offendere nessuno ma finiamola con questa ipocrisia. Si sa che il maschio è violento e la donna non deve provocare». Don Piero Corsi è un marcantonio che l’abito talare rende ancor più imponente. Ha appena aperto il cancello elettrico di villa Carafatti, la casa di riposo per anziani di Lerici dove ha l’alloggio di servizio, e sta salendo sulla sua Fiat Multipla blu scuro.
Don Piero buongiorno, possiamo parlare un momento del volantino?
«Voi giornalisti siete bugiardi e strumentalizzate ogni cosa, altro che galera ci vorrebbe la pena di morte».
Molte donne, si sono sentite offese dalle sue parole.
«Siete voi che avete strumentalizzato le mie opinioni, ed è l’ennesima volta».
Guardi che nessun giornalista controlla la sua bacheca, sono le sue parrocchiane che hanno telefonato ai giornali.
«Allora diciamo le cose come stanno — don Piero lascia acceso il motore della Multipla ed esce dall’abitacolo — . La mia era soltanto un’opinione, non stavo svolgendo il mio compito leggendo o interpretando il vangelo, invece, come spesso faccio, ho voluto commentare un tema molto discusso in questi tempi».
Lei però non è uno al bar, è il parroco del paese, una delle istituzioni delle nostre comunità.
«E allora? Vuol dire che non ho diritto a esternare il mio pensiero? ».
Appunto il suo pensiero, proprio in un periodo in cui molte donne sono vittime di violenze da parte degli uomini.
«Intanto bisogna leggere tutto il testo che ho scritto dove ho detto che gli uomini violenti vanno puniti eccome, messi in galera, ma il discorso è un altro… ».
Quale?
«Quando vedo, quando vediamo tutti noi donne o ragazzine in abiti discinti, è la dignità delle nostre madri e sorelle che viene maltrattata, umiliata».
Ma lei non parlava solo di dignità, ha messo in correlazione questo tema con le violenze.
«Senta un po’, lei è eterosessuale o gay?».
Ma cosa c’entra?
«Mettiamo che lei veda un donna nuda davanti a lei, che cosa prova? Me lo dica, vuol dirmi che non sente qualcosa, che l’istinto non abbia la meglio?».
C’è il desiderio, ma il buon dio ci ha dato il raziocinio e i freni inibitori.
«Sì va bene, tutto vero, ma la prego, per questa volta pensi e risponda… ecco risponda con i coglioni!».
Don, sembra di essere in caserma, tra l’altro dicono in paese che lei sia un ex militare.
«Macchè militare, non è vero. La verità, invece, è che l’uomo, il maschio, è da sempre violento, non sa trattenere l’istinto, e quindi se la donna lo provoca lui, o almeno molti, tanti, non si sanno controllare».
Ma allora vale per tutto, basta non sapere resistere alla provocazione e giù botte.
«Ma no, non è per tutto così, il problema è solo il richiamo sessuale, è sempre stato e sarà sempre così».
Le sue opinioni però hanno svuotato la chiesa e sono arrivati anche i carabinieri.
«Sono a Lerici da dieci anni, e so che c’è chi mi vuol male, chi mi vuole morto, ma anche tanta gente che mi apprezza. I carabinieri poi non è la prima volta, in
un’altra occasione sono venuti in chiesa, mi hanno visto con la tonaca e hanno comunque voluto i miei documenti, come se non mi conoscessero».
Ha messo in difficoltà pure il suo vescovo che le ha fatto ritirare il volantino.
«E cosa voleva che facesse, poveretto? Ci siamo ritrovati
tutti e due coinvolti in questo uragano, solo perché ho espresso delle opinioni».
Ma lei era già stato al centro di polemiche, perché lo ha fatto?
«Perché non sopporto quest’ipocrisia, e poi queste campagne recenti sul femminicidio mi sembrano abbiano nel mirino soltanto l’uomo, che vogliano colpirlo. Ma, invece, guarda caso nessuno parla della Cina».
Cosa c’entra la Cina?
«C’entra perché laggiù migliaia di donne muoiono per gli aborti ma a nessuno interessa, forse per ragioni politiche, invece qui da noi c’è questa insistenza sulle donne vittime senza mai interrogarsi sui comportamenti e sui valori della nostra società».
La Repubblica 27.12.12
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“Il femminicidio? Colpa delle vittime” volantino shock, tutti contro il parroco
Lerici, i fedeli disertano la messa. Domani protesta in minigonna
Lo sciopero della messa la notte di Natale e un sit-in di parrocchiane in minigonna che si terrà domani. Mentre in tutta Italia cresce la polemica, ragazze e signore di sono state le prime a prendere posizione contro il “prete che odia le donne”, come è stato soprannominato don Piero Corsi, parroco di San Terenzo, nell’omonimo borgo del piccolo comune dello spezzino.
Il sacerdote aveva affisso nella bacheca esterna della chiesa un testo da lui scritto e intitolato: «Le donne e il femminicidio, facciano sana autocritica. Quante volte provocano?». E a seguire un concentrato di luoghi comuni che ripropongono l’antico tema della donna fonte del peccato. Ma don Piero va giù pesante, perché mette in relazione gli episodi di violenza con le provocazioni delle femmine. «Quante volte vediamo ragazze e signore mature circolare per strada con vestiti provocanti e succinti? Quanti tradimenti si consumano sui luoghi di lavoro, nelle palestre e nei cinema? Potrebbero farne a meno. Costoro provocano gli istinti peggiori e poi si arriva alla violenza o abuso sessuale (lo ribadiamo: roba da mascalzoni)».
Poi una serie di passaggi sulle donne «arroganti» che abbandonano casa e i figli e «dunque se una famiglia finisce a ramengo e si arriva al delitto (forma di violenza da condannare e punire con fermezza) spesso le responsabilità sono condivise».
In serata, dopo la convocazione da parte del vescovo di La Spezia, monsignor Luigi Palletti, è arrivato un tardivo pentimento, attraverso un comunicato firmato da don Piero: «Voglio scusarmi con tutti per quella che voleva essere soltanto una imprudente “provocazione”. In particolare mi voglio scusare con tutte quelle donne che si siano sentite offese in qualche modo dalle mie parole ».
Le prime a ribellarsi sono state alcune donne di Lerici che hanno disertato — assieme con mariti, figli e famiglie — la messa di Natale. Ieri alcune di loro hanno iniziato a preparare un sit-in di protesta in minigonna che dovrebbe tenersi domani.
Poi c’è stato un primo intervento del vescovo Palletti (è un fedelissimo di Angelo Bagnasco, presidente Cei) che ha telefonato al parroco — non è escluso un suo trasferimento già nei prossimi giorni — e ordinato l’immediata rimozione del volantino «i cui contenuti — ha detto — sono fuorvianti rispetto ai sentimenti di condanna per la violenza contro le donne». Palletti sottolinea come «in nessun modo può essere messo in diretta correlazione qualunque deprecabile fenomeno di violenza sulle donne con qualsivoglia altra motivazione… ritengo doveroso invitare tutti a prendere sempre più coscienza di questo inaccettabile fenomeno ».
Duro il commento di Gabriella Carnieri Moscatelli presidente del Telefono Rosa: «Intervenga subito il Papa». Su internet sono apparse diverse pagine Facebook per chiedere la scomunica di don Piero. Reazioni anche dal fronte politico. «Ciò che più mi rattrista, e lo dico da cattolica, è che, questa volta, si sia provato a far risalire questa assurda teoria alla dottrina della Chiesa. Niente di più falso» commenta sul suo blog l’ex ministro Pdl Mara Carfagna. Su Facebook il senatore Pd Ignazio Marino dice: «Da cattolico, penso che una persona capace di simili pensieri non possa avere il ruolo di pastore. Dovrebbe essere sanzionato per le sue affermazioni gravissime e indotto a riflettere». Don Piero Corsi in passato aveva già provocato discussioni e polemiche, in particolare per altri volantini in cui criticava l’islam e gli extracomunitari.
La Repubblica 27.12.12

“Per la bellezza”, di Vittorio Emiliani

Ad ogni pioggia appena più forte mezza Italia viene giù facendo vittime e sottraendo ai nostri paesaggi parti bellissime. Ma la legge sulle Autorità di Distretto, voluta dalla UE, giace nei cassetti. Né fa passi avanti un piano (anche del lavoro, segretario Bersani, anche del lavoro!) per la “ricostruzione” di colline e montagne che franano, smottano, colano a valle. Poi c’è il flagello degli incendi a “cuocere” insieme boschi e terreni con incendiari prezzolati dagli inesausti speculatori. Ma i Vigili del Fuoco, amati dagli italiani per solerzia e cortesia, hanno mezzi e remunerazioni indecenti. Nei centri storici – finora per lo più conservati – si stanno insinuando politiche di demolizione/sostituzione, laddove gli edifici non sono vincolati dalle deboli Soprintendenze (a Roma dentro la medioevale, centralissima Tor Sanguigna hanno lasciato infilare una pizzeria). Il consumo di suolo divora zone agricole. Si invoca tanta edilizia, i Comuni tamponano le falle dei bilanci ordinari con gli oneri di urbanizzazione, e la gente muore, a Palermo o a Ischia, sotto il cemento abusivo.
Il dolente catalogo potrebbe continuare. Tanto sono stati inetti, volti a privatizzare il patrimonio pubblico, ministri come Urbani, Bondi, Galan e, de profundis, Ornaghi, che il prossimo governo dovrà “ricostruire” – attorno all’articolo 9 della Costituzione, sempre sottolineato da Napolitano – il Ministero creato nel 1974-75, con giustificate ambizioni, da Giovanni Spadolini “per i Beni Culturali e Ambientali”, dovrà ridurre un corpo centrale rigonfio, ridare ruolo e personale tecnico alle Soprintendenze territoriali di settore. Per quelle ai Beni architettonici, le pratiche edilizie sono diventate talmente tante che ogni funzionario dovrebbe essere sbrigarne almeno 5 al giorno (andando però sul cantiere rigorosamente in bus o in tram), col picco di 79 pratiche giornaliere per ogni tecnico a Milano. Una impotenza grottesca. Così trionfano affaristi, speculatori, abusivi di tutta Italia.
Ecco perché alla Camera e al Senato la rappresentanza di parlamentari dotati di cultura paesaggistica, ambientale, urbanistica, storico-artistica non può, non deve ridursi, ma anzi essere potenziata. Soprattutto nel Partito Democratico. I Verdi vengono dalla crisi infinita consumatasi con Pecoraro Scanio e tendono a sciogliersi, come l’IdV, negli Arancioni. Ben venga da loro un forte impegno per la tutela del patrimonio storico, artistico e paesaggistico, ricchezza d’Italia tanto declamata a parole quanto intaccata o minacciata di essere trattata come “il nostro petrolio” (frase storica del ministro Mario Pedini, Loggia P2). Ma il cuore della ripresa, della ricostruzione morale, culturale, ambientale sarà il Pd. “Rifare l’Italia”, incitava Filippo Turati subito dopo la guerra mondiale esortando con illuminata passione al rimboschimento della montagna, contro il disastro delle alluvioni. Ci sono uomini e donne giovani, o giovani mature, nell’area del Pd, che gli anziani come me hanno visto crescere al fuoco delle lotte per la tutela del Belpaese, dotate degli strumenti necessari. Sarebbe grave se il partito dei progressisti ne sottovalutasse ruolo e importanza.
L’Unità 24.12.12

“Da stranieri in patria a nuova linfa per la società”, di Mario Calabresi

Sarà l’anno della cittadinanza. Sarà l’anno della cittadinanza per chi vive da troppo tempo nel limbo, per chi è cresciuto, ha giocato, studiato e sognato in un solo Paese ma ne è escluso, colpevole di essere nato fuori dai confini della Terra in cui vive e a cui sente di appartenere. I protagonisti del dibattito politico del 2013 saranno i bambini nati in Messico o in Guatemala arrivati piccolissimi negli Stati Uniti, o quelli con passaporto cinese, filippino, peruviano, marocchino o rumeno ma che sono nati in Italia, tifano per gli azzurri e sognano di vincere «X Factor». Dopo anni di dibattito acceso, che ha visto in prima fila il presidente Napolitano e la Chiesa, sembra arrivato il momento: se in Italia Bersani vincerà le elezioni il suo primo provvedimento sarà sulla cittadinanza perché «un figlio di immigrati nato qui e che studia qui è un italiano». Negli Stati Uniti Barack Obama ha riconquistato la Casa Bianca anche grazie alla promessa di dare sostanza al sogno, di approvare finalmente il «Dream Act», per regolarizzare i due milioni di ragazzi e i dieci milioni di adulti che vivono in clandestinità, ma si sentono americani a tutti gli effetti: studiano, lavorano, costruiscono casa e famiglia e non hanno mai commesso reati. Il loro inserimento permetterebbe di farli uscire dal limbo e dal lavoro nero, diminuendo il deficit, aumentando le entrate fiscali e, come sottolinea il sindaco di New York, Michael Bloomberg, di inserire nuova linfa nelle nostre stanche società.
La Stampa 26.12.12
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“Sarà l’anno del coraggio. Correremo il rischio di perdere pur di continuare a sognare”, di Massimo Gramellini
Ivan, lettore disoccupato e pressoché adulto, mi scrive che non ha alcuna intenzione di cambiare la sua vita. Come il cane Argo aspettò vent’anni il ritorno di Ulisse – dice – io resterò fermo, aspettando che la mia amata patria ritorni grande e mi dia finalmente sicurezza e lavoro.
Caro Ivan, apprezzo la tua fiducia nel destino di questo nostro mirabile e strampalato Paese. Però, non fosse altro che per ingannare l’attesa, ti suggerisco di sgranchirti le gambe, cioè il cuore e la testa. Vorrei che per te, per me e per tutti il 2013 diventasse l’anno del coraggio. Non hai più niente da difendere e nessuno a cui delegare la soluzione dei problemi.
Una nuova classe politica? Mah, speriamo. Intanto è preferibile assumere l’iniziativa, meglio se in compagnia di chi condivide il tuo stesso obiettivo. Osare il cambiamento, che è anzitutto la rottura di uno schema mentale conservatore che prima ti porta a dire: «Non si può fare». E subito dopo: «Ma l’ho sempre fatto», pur di continuare a non farlo. Lo so, Ivan: a frenare la tua voglia di immaginarti diverso è la paura del dolore. Ma nella vita ho fatto una scoperta che ti metto volentieri a disposizione: sofferenza e gioia sono vibrazioni della stessa corda. Se tu la strappi per non soffrire, non riuscirai più nemmeno a godere. È per questo che, in amore come sul lavoro, occorre avere coraggio. Il coraggio di riattaccare la corda. Di essere disposti a correre il rischio di una sconfitta pur di inseguire il proprio sogno di gloria, qualunque esso sia.
La Stampa 26.12.12

“Io, Pussy Riot prigioniera nel Gulag”, di Federico Varese

L’Arcipelago I detenuti avevano costruito qui fabbriche e miniere già negli Anni 30 Poi il modello si è esteso a tutta l’Urss Filo spinato Nella regione ci sono più prigioni che città o paesi. Il centro di Berezniki, gioiello di architettura stalinista, è opera dei carcerati Prigioniera Maria Alyokhina è stata condannata insieme all’altra Pussy Riot Nadezhda Tolokonnikova a due anni di carcere per la performance anti-putiniana nella cattedrale di Mosca Le ragazze sono state dichiarate colpevoli di «teppismo a sfondo religioso» Il lager Il campo di lavoro N°35 di Perm era riservato soprattutto ai detenuti politici e ai dissidenti che sfidavano il regime sovietico. È stato trasformato in un museo ma tanti altri campi penitenziari restano attivi nella regione di Perm Lo scrittore Varlam Shalamov (1907-1982) ha trascorso più di vent’anni nei Gulag staliniani e al confino siberiano. Ha raccontato questa esperienza nei «Racconti di Kolyma» Il criminologo Federico Varese è professore di criminologia a Oxford. Ha fatto ricerche sulla mafia russa a Perm negli anni ’90. Il suo ultimo libro è «Mafie in movimento» (Einaudi).
«Tutto intorno a me è grigio. Anche se qualche oggetto ha un colore diverso, non manca mai una sfumatura di grigio. In ogni cosa: gli edifici, il cibo, il cielo, le parole». Così scrive in una lettera del 17 dicembre Maria Alyokhina, l’attivista del gruppo Pussy Riot condannata a due anni di prigione nel campo di lavoro numero 28, nella regione di Perm, nei pressi della cittadina di Berezniki. Perm è il cuore dell’Arcipelago Gulag, dove negli Anni Cinquanta c’erano più campi di prigionia che città o paesi. Questa è anche la regione dove ho vissuto per un anno quando ero studente, dove è nata mia moglie e dove torno con una certa regolarità. Quello che può sembrare un luogo remoto e inospitale è il centro del mondo per chi vi è nato.
Nei primi Anni Novanta mi ero trasferito a Perm per studiare gli effetti della transizione all’economia di mercato e l’emergere del crimine organizzato. Lontano da Mosca e nel cuore della Russia. La capitale della regione, anch’essa chiamata Perm, è la terza fermata sulla Transiberiana che va da Mosca a Vladivostok. In quegli anni vi erano pochi voli, e il modo migliore per raggiungerla era col treno che partiva nel tardo pomeriggio dalla stazione Yaroslavsky e arrivava circa ventiquattr’ore dopo. I segni del passato regime erano ancora evidenti nel centro cittadino, come le statue in onore degli eroi sovietici e dei lavoratori stakanovisti. Lo studentato dove avevo trovato una sistemazione si affacciava sulla via Lenin. Mentre in altre città ci si affrettava a cambiare nomi e insegne, qui nessuno sembrava avere fretta.
Maria Alyokhina non ha viaggiato sulla Transiberiana per raggiungere il campo di lavoro numero 28. «Sono arrivata dopo aver fatto tappa in tre prigioni di transito», scrive nella lettera pubblicata sulla rivista Novoe Vremya. «Abbiamo viaggiato in carrozze senza finestrini e in una moltitudine di furgoni. Quando l’ultimo è arrivato di fronte all’imponente ingresso di ferro battuto, ha scaricato diciannove di noi, diciannove nuove prigioniere, future operatrici di macchine da cucire elettriche». Oggi come ottant’anni fa il viaggio verso i campi di prigionia al di là della catena degli Urali segna l’ingresso nell’universo concentrazionario. Lo scrittore russo Varlam Shalamov, che meglio di ogni altro ha raccontato la fragilità e la resistenza dell’anima umana nel Gulag siberiano nell’opera «I racconti di Kolyma» (introdotti in Italia da Piero Sinatti), subì il primo arresto nel 1929 e fu spedito non in Siberia ma nella regione di Perm, a Berezniki, dove fino al 1931 lavorerà alla costruzione di uno stabilimento chimico. Lo sfruttamento su scala industriale del lavoro forzato fu concepito proprio a Berezniki. Poiché l’esperimento condotto in quel campo fu ritenuto un successo, le alte sfere del Partito decisero che i lavori forzati sarebbero stati alla base di ogni nuovo progetto industriale. «Da allora», scrive Shalamov, «nessuna regione fu senza un campo di lavoro, nessun nuovo progetto senza la sua quota di forzati».
Berezniki è un gioiello dell’architettura stalinista, la città socialista per antonomasia, costruita durante il primo piano quinquennale (1928-1932) in puro stile costruttivista. Gli affreschi sui palazzi pubblici celebrano l’anno di fondazione, il 1932, e i pionieri delle organizzazioni giovanili del partito, ma dimenticano di ricordare che Berezniki fu costruita dagli zek, abbreviazione con cui la burocrazia sovietica chiamava i prigionieri del Gulag. Gli impianti chimici e le miniere della città che compaiono nei racconti di Shalamov sono tuttora in funzione: oggi producono fertilizzanti e carbonato di potassio.
A queste latitudini, però, non ci sono solo l’architettura e la taiga da ammirare. Questa terra rappresenta il grado zero della devastazione industriale del Ventesimo secolo, un buco nero quasi del tutto ignoto al resto del mondo. Come ricorda lo studioso Paul Johnson, a Berezniki i bambini sotto i quindici anni sono otto volte più a rischio di soffrire di malattie ematiche dei coetanei che vivono nei 121 centri più inquinati dell’ex Unione Sovietica. Ogni anno più di tre milioni di tonnellate di rifiuti tossici entrano nell’atmosfera e almeno 100.000 ettari di vegetazione è andato perduto per sempre. Maria Alyokhina scrive nella sua lettera: «È abbastanza ironico che io, una ex attivista del movimento ecologista, sia finita in un’area dove la gente respira i rifiuti della produzione industriale più pericolosa del pianeta». Ma non è tutto: negli ultimi anni l’intera città viene risucchiata in immense voragini, imbuti che si aprono senza preavviso nel terreno a seguito dell’intensa attività estrattiva. Una voragine si è aperta sotto i binari della stazione, un’altra a pochi centimetri da un complesso di appartamenti. La più grande di queste valli carsiche è larga 100 metri e profonda 237. Duemila persone sono già state evacuate ed è stato messo a punto un piano per ricostruire la città sulla sponda opposta del fiume Kama. A pochi chilometri dal centro cittadino, nel campo di lavoro numero 28 la vita è scandita dai rituali delle istituzioni totali, come racconta l’attivista delle Pussy Riot. «Sveglia alle cinque di mattina, corsa ai bagni (tre lavandini e due cessi per quaranta prigioniere), colazione alle sei. Dopo due settimane che mi lavo nell’acqua gelata, le mie mani hanno cambiato colore… ». Le regole sono ferree e vengono ripetute tutte le mattine nella «stanza del regolamento». Ogni conversazione nel campo ruota intorno al rilascio anticipato, noto con l’abbreviazione Udo, con l’accento sulla «o» finale. «Vuoi un Udo? Ti daranno un Udo? Quand’è il tuo Udo? Cosa farai dopo l’Udo? ». Ottenere un Udo non è difficile, basta cucire per dodici ore al giorno senza lamentarsi, denunciare le proprie compagne, tacere, andare a messa, sopportare e, conclude Maria, «infrangere anche l’ultimo dei propri principi».
Le coincidenze della geografia e della storia sono impietose e rivelatrici. Ekaterina, nata pochi mesi dopo Maria Alyokhina, ha qualcosa in comune con l’attivista delle Pussy Riot. Entrambe figlie della Russia post-sovietica, sono di estrazione borghese e hanno frequentato l’università. Il padre di Ekaterina, Dimitri, è un medico di Perm che ha fatto fortuna, fino a diventare l’oligarca locale: come ogni centro abitato dell’Urss poteva vantare un suo Gulag, oggi ogni municipalità può vantare un suo oligarca. Fino al 2008, Dimitri era il padrone della miniera che ora sta risucchiando Berezniki in crateri sempre più grandi. Nel 2010 si è trasferito nel Principato di Monaco, dove ha comprato la locale squadra di calcio. Nel frattempo è stato esonerato dal governo per ogni danno ambientale. La figlia Ekaterina ha acquistato qualche mese fa l’appartamento più costoso mai venduto nella Grande Mela, al numero 15 di Central Park West. Chissà se i suoi vicini di casa o i compagni di università americani saranno mai in grado di tracciare la linea che separa ed unisce Ekaterina e Maria: una linea tanto breve quanto infinita. Vent’anni fa volevo studiare come la patria del Gulag si sarebbe adattata all’economia di mercato. Oggi questa terra grigia inghiotte i suoi figli migliori, mentre altri fanno lo shopping di Natale sulla Quinta Strada.
La Stampa 26.12.12