«Ci sono i titoli ma mancano le proposte»: giudizio netto quello di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, sull’agenda Monti. «È stata una lettura deludente, priva di pensiero innovativo. Un déjà vu», dice il capo del più grande sindacato italiano additato proprio dal premier dimissionario come uno dei soggetti della conservazione.
Camusso, ma lei se l’aspettava che Monti scegliesse l’impegno politico?
«Lo dissi in tempi non sospetti che il cosiddetto patto per la produttività, quello che la Cgil non ha firmato, costituiva un’operazione politica. Dunque non mi ha stupito la mossa di Monti anche se rimango perplessa su come un governo nato super partes possa partecipare a una competizione elettorale ».
Quella sulla produttività era un’operazione politica perché finiva per escludere la Cgil?
«Perché sceglieva uno schieramento, dava vita a una grande coalizione attraverso la quale realizzare un’operazione di divisione».
Che poi ha portato Monti a definire la Cgil conservatrice?
«Non mi affascina dare voti. Certo quella mi pare una tesi ardita tanto più che proviene da chi ha negato la concertazione e al massimo ha “concesso” la consultazione ».
Resta il fatto che Monti vi considera un ostacolo all’innovazione.
«Mi pare che a partire dal capitolo sull’Europa, l’agenda Monti sia totalmente espressione di una posizione conservatrice. Rispetto a un dibattito che si pone il tema della federazione degli stati europei, il programma del presidente del Consiglio è fermo al fiscal compact. Da quella concezione dell’Europa deriva anche l’assenza delle politiche sociali nell’azione del governo e che l’agenda ripropone».
I vincoli europei vanno però rispettati. O pensa che vadano ridiscussi?
«Certo che quei vincoli vanno rispettati. E capisco che dopo Berlusconi andava precisato, ma non si può ridurre l’Europa al fiscal compact».
Ritiene che ci siano somiglianze tra il programma di Monti e quello del ‘94 di Berlusconi?
«Alcuni lo pensano, io no. sa che mi sconcerta è l’idea che nella società civile esistano solo gli imprenditori. Non c’è nient’altro. Manca la società che certo è un paradosso per chi sostiene — e io condivido — che si debba superare l’individualismo per ritornare a una dimensione collettiva. La “mancanza di società” conduce così a sorvolare sui temi decisivi come per esempio quelli della cittadinanza per tutti coloro che nascono in Italia o della laicità».
Quale ruolo pensa abbia avuto la Chiesa nella costruzione della discesa in campo di Monti?
«Penso che la Chiesa si sia fin troppo occupata della sfera secolare del potere. Ma è difficile non vedere una sua influenza nella concezione tradizionalissima e poco realistica della famiglia, quale emerge dall’agenda Monti».
Non è d’accordo con Monti quando sostiene che si deve ridare vigore alla produzione indu-
«Significativamente il capitolo sull’industria comincia citando tre casi: Ilva, Alcoa, Irisbus. Perfetto: tre vertenze non risolte. Le ricordo che Monti è il presidente del Consiglio dimissionario. Quelle vertenze le ha gestite anche il suo governo».
C’è anche la proposta di istituire un Fondo per le ristrutturazioni industriali. Non le piace?
«Il limite di quell’agenda è che si affida tutto al fisco e alla ripresa degli investimenti dei privati. Allo Stato non viene affidato alcun compito. Perché non si propone di incrementare gli investimenti pubblici produttivi? L’unica leva su cui si opera è quella fiscale. Si riduce tutto a una manovra fiscale, con l’attivazione di crediti di imposta, di defiscalizzazioni, di trattamenti fiscali diversificati. Per il resto ci sono i temi, ma mancano i relativi svolgimenti».
Sul lavoro c’è un pacchetto di proposte sui giovani e le donne. Idee conservatrici?
«Si dice che c’è il dualismo nel mercato del lavoro ma non come uscirne. E soprattutto si dice che non vanno toccate le nuove norme sul lavoro. Difficile non essere d’accordo che al massimo si possa rimanere disoccupati per un anno. Domanda: come?».
Quello sulle donne non è un capitolo originale?
«Per la verità Monti aveva detto le stesse cose nel suo discorso di insediamento davanti alle Camere. E poi sono almeno dieci anni che noi della Cgil, forti anche di uno studio proprio della Bocconi, sosteniamo che con 100 mila nuovi posti di lavoro di donne il Pil potrebbe crescere dell’1,5 per cento. Ma poi, le politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia Monti pensa di farle con la leva fiscale o con i servizi pubblici? Di tutto questo non c’è traccia. Così come sono stati espunti il Mezzogiorno, la coesione sociale, e lo stesso fenomeno della povertà infantile».
Eppure si riconosce la centralità della scuola. Più che la Thatcher, come lei ha detto, Monti copia Tony Blair. Non crede?
«Sulla formazione e la scuola, al di là del titolo, il documento cita solo la valutazione degli insegnanti e nulla dice come rimediare ai tagli. Mi pare davvero poco se, come penso, su scuola e formazione costruiamo il nostro futuro».
La Repubblica 28.12.12
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Ghizzoni (PD): Focherini lascia testimonianza morale e civile
“Odoardo Focherini ha lasciato alla comunità carpigiana e nazionale una straordinaria testimonianza morale e civile. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, deputata modenese del Pd e presidente della Commissione Cultura della Camera dei Deputati nel giorno del 68° anniversario della morte di Odoardo Focherini – Padre di sette figli, Focherini conduceva una vita normale come ispettore assicurativo, ma non si sottrasse al richiamo della sue fede e a un moto di solidarietà concreta nei confronti degli ebrei perseguitati dal nazi-fascismo, sacrificando la propria vita per salvarne oltre cento, proteggendoli e falsificando documenti per metterli in salvo. Per questo suo impegno – sottolinea Ghizzoni – fu arrestato e poi deportato al campo di concentramento di Flossenburg e nel sottocampo di Hersbruck, dove morì presumibilmente il 27 dicembre 1944.
Si apre oggi un percorso che riguarda la sua beatificazione religiosa che, insieme ai riconoscimenti civili come la Medaglia d’Oro al merito conferita alla memoria nel 2007, onorerà la sua figura – spiega Ghizzoni, ricordando per questa sera la Messa e la fiaccolata che apriranno le celebrazioni per la beatificazione che avverrà il 15 giugno 2013 – Un ricordo particolare in questo momento corre ai famigliari e – conclude Ghizzoni – a due persone che più si sono impegnate in questi anni per ricordare la testimonianza di Focherini e che non sono più con noi: la figlia Olga Focherini e don Claudio Pontiroli”.
Auguri, a tutti noi
Trascorso il Natale e prima che inizi il nuovo anno, voglio ritagliare, nella mia vita privata e nel pubblico impegno, un momento per gli auguri affinché l’anno che verrà possa restituire speranza alle donne e agli uomini che nei mesi successivi al terremoto hanno dato prova di coraggio, orgoglio e coesione.
Un augurio in particolare a Giuditta, Mariangela, Maria Cecilia, Davide, Matteo, Roberto e Stefano, che insieme a me sono protagonisti di una battaglia per le idee, per il bene comune e la democrazia.
Le primarie del Pd qui a Modena stanno mostrando la politica migliore, quella che mette in campo volontà, idee, capacità e desideri, sempre nel rispetto dell’altro.
Rivolgo i miei auguri alle cittadine e ai cittadini che desiderano restituire senso e sentimento al concetto di cittadinanza, che vogliono cambiare in meglio la politica, attraverso la partecipazione e il confronto, e che in questi giorni di festa stanno dando un esempio di passione e volontà per il bene comune.
Un augurio ai più giovani della nostra comunità affinché non perdano mai la capacità di sognare e a tutti noi per essere in grado di assolvere al dovere di consegnargli un Paese in grado di crescere insieme a loro.
“Lavoro, allarme Cgil per i precari”, di Luigina Venturelli
Anno nuovo, vita nuova? Non per i lavoratori precari, ai quali l’arrivo del 2013 porterà in dote il solito vecchio copione di contratti atipici, mal pagati e mal tutelati. Queste, almeno, sono le previsioni per i fortunati che si vedranno rinnovare i precedenti contratti. Perché molti di loro, invece, rischiano di restare senza posto di lavoro o di sentirsi proporre tipologie ancora meno garantite di quelle conosciute finora, quando con lo scadere del 2012 scadrà anche la maggior parte dei rapporti di essere ed entrerà in applicazione la riforma Fornero.
«NON RESTARE DA SOLO» È l’allarme lanciato dal Nidil Cgil la struttura sindacale del sindacato di Corso Italia che segue i lavoratori in somministrazione e quelli atipici che ha promosso la campagna «Capodanno 2013 Non restare da solo» con cui sta prestando assistenza ai giovani e meno giovani, sia nel pubblico sia nel privato, che da gennaio dovranno ridiscutere la propria posizione lavorativa. «Si presume che centinaia di migliaia di contratti di collaborazione scadano con la fine dell’anno» spiega la segretaria generale del sindacato, Filomena Trizio, «e che quindi vadano in vigore le norme della legge Fornero». Un passaggio che, secondo la dirigente Cgil, andrà vigilato con grande attenzione: «È auspicabile che queste norme siano applicate con una contrattazione di merito tra organizzazioni sindacali e impresa, senza la quale è alto il rischio che le aziende preferiscano la non attivazione di nuovi contratti o la loro trasformazione in tipologie ancora meno tutelanti». La legge Fornero, infatti, prevede che i nuovi contratti di collaborazione debbano rispondere a «progetti veri, con retribuzioni non inferiori ai minimi contrattuali, che determinino un risultato finale di modifica della situazione aziendale» e che possano essere attivati solo su mansioni che non siano ripetitive ed esecutive. Una stretta legislativa davanti alla quale i datori di lavoro potrebbero essere tentati da altre scorciatoie normative o, addirittura, da tagli occupazionali. Al Nidil, infatti, si stanno rivolgendo in questi giorni decine e decine di lavoratori: molte aziende «non stanno rinnovando i contratti o in alcuni casi, anziché trasformare le collaborazioni a progetto o le associazioni in partecipazione in lavoro dipendente, aggirano le norme con tipologie ancora peggiori come partite Iva, occasionali, e voucher». Secondo l’Istat, nel terzo trimestre dell’ anno i collaboratori in Italia erano 430mila, mentre i dati Inps parlano di quasi un milione e mezzo di persone che nell’arco del 2011 hanno avuto anche un solo contratto di collaborazione. E costoro non rientrano nemmeno nella proroga di sei mesi prevista dalla legge di Stabilità in base alla quale i precari della pubblica amministrazione con un contratto in scadenza a dicembre che ha superato il limite di 36 mesi potranno restare al lavoro fino al prossimo 31 luglio.
Giovani neoassunti: in cinque anni flessione del 20%. Solo uno su quattro ha avuto quest’anno un posto a tempo indeterminato
Che si tratti di un’emergenza generazionale, in grado di compromettere l’evoluzione sociale, prima ancora che economica del nostro paese, è ormai un dato di fatto: i giovani lavoratori italiani sono sempre meno, sempre più precari, sovraistruiti e meno pagati. Ogni ricerca non fa che confermare ed aggionare i numeri di questo spreco. Ultimo in ordine di tempo, il rapporto di Datagiovani che ha elaborato i microdati Istat della Rilevazione continua sulle Forze di lavoro, secondo cui nel primo semestre 2012 erano 355mila gli under 30 al primo impiego, vale a dire 80mila in meno rispetto al 2007, prima che esplodesse l’attuale crisi economica. In cinque anni, la flessione di posti di lavoro è stata ben del 20%.
L’ENNESIMA CONFERMA È stato ancora una volta il Mezzogiorno a pagare il prezzo più alto della recessione, con oltre la metà del «taglio» dei neoassunti (meno 24%), mentre nelle regioni settentrionali, dove si continua a creare la maggior parte dei nuovi posti di lavoro (44%), la contrazione è stata più contenuta (meno 12%). Oltre la metà dei neoassunti ha un contratto da dipendente a termine, mentre solo uno su quattro gode di un tempo indeterminato (meno 37% sul 2007). Tutto ciò nonostante cresca, nel frattempo, il livello di istruzione dei giovani, e con esso la domanda di professionalità più specializzate: il grosso della diminuzione dei neoassunti ha riguardato giovani con basso livello di istruzione (meno 46%). Nel 2007, quasi tre giovani su dieci al primo impiego si erano fermati al massimo alla scuola media inferiore, e il 53% al diploma o alla qualifica professionale, mentre nel 2012 la quota dei giovani con titolo di studio di basso livello è scesa al 19%, e sono cresciuti il livello medio (59%) e la laurea (22%). Molti laureati, dunque, vanno a ricoprire mansioni che tendenzialmente potrebbero essere occupate anche senza laurea. Tecnicamente, si parla di «overeducation»: quasi un laureato su tre neoassunto rientrava nel primo semestre 2012 in questa categoria, contro il 27% del 2007. E cresce anche la quota di chi lavora in periodi cosiddetti «disagiati» o «asociali»: la metà lavora anche al sabato (una incidenza sul totale degli under 30 al primo impiego aumentata di 5 punti rispetto al 2007) e quasi uno su quattro la domenica (con un incremento in termini assoluti di 4 mila giovani in più). Eppure la «qualità» contrattuale continua inesorabilmente a peggiorare: oggi sono 222mila i giovani al primo impiego precari, 7mila in più del 2007, e rappresentano il 62% dei neoassunti complessivi, mentre nel 2007 quando il 33% dei neoassunti aveva un contratto indeterminato, non il 26% del 2012 erano sotto il 50%. E peggiora anche l’aspetto retributivo: un under 30 neoassunto alle dipendenze guadagna mediamente 850 euro al mese, una somma inferiore di circa 180 euro alla media retributiva del complesso degli occupati con meno di trent’anni.
L’Unità 27.12.12
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“MEZZO MILIONE DI PRECARI IN BILICO RISCHIANO UN CAPODANNO SENZA RINNOVO”, di Valentina Conte
Mezzo milione di precari rischiano di essere ancora meno tutelati, se possibile. I loro contratti scadono con la fine dell´anno e i datori potrebbero non rinnovarli per evitare poi di convertirli in rapporti subordinati, in base alla riforma Fornero. Oppure di scivolarli verso forme ancora meno garantite, come partite Iva e voucher. Si tratta dei “collaboratori”, i più fragili tra i lavoratori precari, tra l´altro privi di qualunque forma di ammortizzatore, persino delle nuove Aspi o mini Aspi, al loro debutto il primo gennaio 2013.
L´allarme arriva dal Nidil, il sindacato dei lavoratori atipici della Cgil, che per l´occasione lancia una campagna ad hoc: “Capodanno 2013. Non restare da solo”. L´invito, rivolto ai “collaboratori” in scadenza, è di recarsi nelle sedi Cgil per valutare il tipo di contratto e studiare le vie d´uscita possibili. «Il rischio travaso, da sfruttati ad ancora più sfruttati, è serio e preoccupante», conferma Filomena Trizio, segretario Nidil. Nel mirino, all´interno dell´enorme galassia intermittente (2 milioni e mezzo più 5,5 milioni di partite Iva), finiscono i quasi 700 mila collaboratori (coordinati e continuativi e a progetto), di cui il 60-70% “scade” appunto tra quattro giorni. In base alla nuova legge sul lavoro varata a luglio, i nuovi contratti devono essere stipulati con estrema accortezza. Altrimenti scatta la trasformazione automatica in rapporti dipendenti.
Ma quali sono i nuovi e temuti requisiti? Il “progetto” deve essere vero, cioè specifico. Non può coincidere con l´oggetto sociale dell´azienda (una cassiera in un supermercato, ad esempio) né consistere in compiti meramente esecutivi o ripetitivi. Deve essere gestito in autonomia dal lavoratore e collegato a un ben determinato risultato finale. Queste norme, inserite dalla Fornero per scongiurare gli abusi e i lavori dipendenti mascherati, rischiano però in questa fase di peggiorare le condizioni di centinaia di migliaia di precari. Un datore posto di fronte all´alternativa se rinnovare o meno potrebbe essere spinto a rifiutare un altro contratto secondo i nuovi parametri o a proporre meno impegnative “partita Iva” e voucher. «Il punto vero è discutere su come vengono utilizzate queste figure “precarie”, distinguere le vere dalle false e mettere risorse per incentivare la conversione di questi contratti», incalza la Trizio. «Ma il governo Monti non l´ha fatto, decidendo di destinare invece due miliardi alla produttività. Così la norma Fornero, in sé corretta, senza strumenti di accompagnamento, ora potrebbe lasciare per strada mezzo milione di precari».
Senza lavoro e senza Aspi né mini-Aspi, dunque. Il nuovo ammortizzatore sociale, in vigore dal 2013, tutela i soli lavoratori privati dipendenti, apprendisti compresi, con almeno due anni di anzianità contributiva e un anno di contributi versati nel biennio. È pari al 75% delle retribuzioni fino a 1.180 euro mensili. Al 25% della parte eccedente per quelle sopra, fino a un massimo di 1.119, 32 euro. Dura 12 mesi per chi è sotto i 55 anni, 18 mesi per gli over 55. Ma dopo i primi 6 mesi cala del 15% e di un altro 15% dopo il primo anno. Pessime notizie, intanto, sul fronte occupazione: un rapporto di Datagiovani, anticipato da Repubblica.it nei giorni scorsi, riferisce che i neoassunti giovani del 2012 sono più precari e sovraistruiti, lavorano di più in orari “asociali” ma pagati meno. Rispetto al primo semestre 2007, tuttavia, le assunzioni sono diminuite del 20% e solo uno su 4 è stabile.
La Repubblica 27.12.12
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“TRE ANNI DA INTERINALE POI L’ADDIO PER EVITARE L’OBBLIGO D’ASSUNZIONE”, di Marina Cassi
Scaduto come lo yogurt. Conserva un poco di amara ironia Andrea. Ma sotto c’è molta delusione: «Sono arrivato alla fine dei tre anni con contratti interinali mese per mese e senza colpo ferire mi hanno lasciato a casa. Finito. Scaduto». Lavorava in una azienda piemontese dell’automotive. E ci sperava nell’assunzione. Anzi era quasi sicuro.
Ha 26 anni e un diploma da geometra con un sacco di specializzazioni di quelle che in teoria dovrebbero aprire le porte di un lavoro moderno e sicuro. E invece no. Andrea al massimo è riuscito a fare l’operaio. Racconta: «Nell’ultima ditta sono piaciuto molto. Al momento di dirmi, la vigilia di Natale, che era finita mi hanno fatto un sacco di complimenti. Sono efficiente, affidabile, sveglio. Grazie. E allora perchè sbattermi fuori? Semplice: perchè mi avrebbero dovuto assumere a tempo indeterminato», avendo superato 36 mesi tra interinale e tempo determinato. Andrea il dente avvelenato un po’ lo ha anche se, come molti della sua generazione, è pronto a tutto pur di lavorare. Nella fabbrica ha fatto per mesi il turno di notte e lavorato anche la domenica. Dice con un po’ di rimpianto: «Non sono mancato un giorno, mi sono adattato a tutto. Speravo finalmente di aver trovato un lavoro che potesse durare non dico la vita, ma almeno alcuni anni».
Andrea ha solo 26 anni, ma ha già fatto di tutto: «Operaio ovunque, magazziniere, trasportatore, postino. Mai un contratto di prospettiva. Ho fatto più cambiamenti io in sette anni di mio padre in una vita». Ma è la crisi che gli ha dato la mazzata: «Io sto messo così, ma peggio sono messi alcuni miei amici; uno è laureato in economia, ha fatto una stage per un anno a 300 euro al mese e poi grazie arrivederci a mai più». Lui, almeno, nei mesi con i turni di notte arrivava a 1300-1400 euro. E di quel lavoro in linea di montaggio adesso rimpiange persino i rapporti creati con i colleghi perchè tre anni in un luogo tutti di fila non li aveva mai passati e quel diventare parte di una comunità gli era piaciuto.
A casa a fine mese rimane anche Lucilla, 35 anni, videomaker che ha lavorato per un anno in una grande università del Nord-Est e adesso rimane a spasso anche lei con tanti complimenti. In lei la rabbia giovanile di Andrea sembra essersi affievolita. Non è inferocita più di tanto. Racconta: «Ho lavorato in quell’ateneo anni in tanti modi: contratti per mesi, collaborazioni a progetto fino all’ultima durata un anno. Adesso non si può rinnovare perchè c’è una stretta sulle causali dei progetti». Il suo lavoro con le mille specializzazioni che ha in Italia non esiste, nel senso che non è previsto nelle Università. All’estero sì, da anni. Ma così è. Adesso ricomincia la ricerca magari dalla aziende private che producono film per le tv italiane e estere, ma che non le hanno mai fatto un contratto per più di sei mesi.
La Stampa 27.12.12
“La vera sfida dell’innovazione”, di Alfredo Reichlin
Se parto dall’Italia e dai suoi interessi fondamentali – come mi hanno insegnato che bisognerebbe sempre fare – l’iniziativa di Mario Monti ha, ai miei occhi, un grande merito. Ha contibuito a rendere più chiaro il terreno vero dello scontro e la posta fondamentale che è in gioco, quella dove al fondo si decide per un lungo periodo che cosa sarà il destino degli italiani. Parlo della necessità di ripensare i «fondamentali» del nostro Paese (modello economico, tipo di società, demografia, cultura diffusa, posto dalla donna, eccetera) in rapporto al fatto storicamente inedito che stiamo sempre più entrando nella formazione di un organismo sovranazionale: l’Europa. Per cui, se ne restiamo fuori, un destino di decadenza e di immaginazione storica diventa inevitabile.
Questa è la vera posta in gioco, ciò che rende così drammatica la scelta che farà fra poche settimane l’elettorato. Non ha quindi molto senso sostenere che non esiste più il discrimine tra destra e sinistra.
Teniamo conto professor Monti che, secondo gli ultimi sondaggi, le forze esplicitamente antieuropeiste (la somma di Berlusconi, Grillo, la Lega e frattaglie varie) si avvicina al 50%. Ecco la vera destra. Esiste, eccome. Ed è su questo sfondo che io misuro l’importanza della rottura con Berlusconi da parte di forze centriste e moderate che pure lo avevano molto frequentato (e non parlo solo dell’Udc di Casini). Ecco dove sta la necessità di mantenere aperto un confronto costruttivo. Ma il dialogo a cui noi pensiamo è ben più di un’operazione politica, qualcosa cioè che riguarda solo i partiti e la lotta tra loro. Nasce dalla profonda convinzione che di idee nuove e di visioni nuove della realtà e del futuro ha bisogno tutta l’Italia. Questo è il senso della nostra ostinata ricerca di dialogo. Far emergere i problemi reali e dare la parola alle forze reali, aiutare il Paese reale (e noi stessi insieme) a produrre una nuova cultura politica e una più alta idea di sé e dei problemi irrisolti. Fare, insomma, un salto di qualità per metterci in grado di affrontare questa dura prova della europeizzazione.
Questa è la risposta alla sfida che, del tutto legittimamente, il professor Monti rivolge anche al Pd. La sfida dell’innovazione: che è davvero la cosa di cui l’Italia ha un bisogno estremo se vuole sfuggire al rischio incombente, anzi già in atto, di una decadenza storica. Sarebbe veramente magnifico se la campagna elettorale si facesse su questo tema, dove ciascuno si impegna a dire al Paese la verità. Perché l’Italia è entrata in questa spirale drammatica? Per Berlusconi? Per l’euro? Per le speculazioni finanziarie? Per il «conservatorismo della Cgil»? In tutto c’è qualcosa di vero. Ma io penso che non si può più nascondere agli italiani che il Paese è fermo rispetto a tutti gli altri Paesi europei da ben prima dell’avvento dell’euro e della grande crisi finanziaria. È da almeno trent’anni che arretra e che la sua struttura sociale e produttiva non regge, al punto da accumulare un enorme debito pubblico (il terzo del mondo) e al tempo stesso un’evasione fiscale e una corruzione senza paragoni in Europa.
Smettiamola quindi con lo scandalizzarci a vuoto e con l’eterna futile e anacronistica lotta tra inesistenti liberisti e statalisti. Si è rotto qualcosa di molto più profondo. Sono rimasto stupito nel sentire Monti rilanciare la polemica con la Cgil sulla questione certamente cruciale della produttività, senza però pronunciare mai nemmeno una volta la parola Mezzogiorno: il 40% del Paese abbandonato a se stesso che consuma più di quello che produce e distrugge capitale sociale, più di metà dei giovani disoccupati. E tutto ciò insieme con quella cosa essenziale che è l’unità del Paese, la sua fiducia nella legge uguale, il rifiuto di sottostare al dominio delle mafie e delle camorre.
Conosco la complessità del problema e le sue origini molto lontane. Ciò che denuncio però è la specifica responsabilità non solo di Bossi, ma dell’insieme della classe dirigente del Nord (compresa quella della Bocconi e del Corriere della Sera) che in questi anni ha compiuto la scelta catastrofica di pensare che il suo interesse era cancellare la questio- ne meridionale.
Questo è un vero banco di prova di ciò che è innovazione e di ciò che è conservazione. E un analogo discorso farei a proposito dell’altro grande tema: il lavoro. C’è certamente un problema di regole e di organizzazione del mercato del lavoro. Viva le regole. Ma come pensate di sfuggire al problema più grande, che è ormai quello del posto del lavoro in un progetto di rilancio dello sviluppo italiano? Il lavoro è una merce molto particolare. Il miglioramento della sua attuale miserrima condizione non è solo un problema di giustizia. È la condizione per rinnovare davvero qualco- sa di profondo in questo sistema così inefficiente e sgangherato. Conosciamo i vincoli di finanza pubblica e intendiamo rispettarli. Ma ricordiamoci il made in Italy, la grande innovazione dell’Italia del dopoguerra che non è nata a causa di massicci investimenti pubblici, ma da un nuovo impasto politico e sociale. Noi non abbiamo in testa una nuova economia di Stato. Ma sappiamo molto bene che nelle economie moderne il differenziale tra loro si misura in termini di qualità delle persone, dei luoghi, delle scuole e delle istituzioni. Il super potere finanziario ha inondato il mondo di debiti e ha distrutto ricchezza reale e tessuto sociale. Sostanzialmente ha fallito. Pensare all’Europa come a un nuovo possibile modello di crescita è giusto ma significa, dopo tutto, mutare le relazioni tra economia e società definendo un nuovo orizzonte politico e affrontando una nuova mappa dei conflitti che riguardano non solo le classi ma il controllo del sapere, i diritti di cittadinanza, il ruolo delle donne, la sostenibilità sociale.
L’innovazione non si esaurisce nelle politiche monetarie. Consiste nel rimettere in gioco la creatività degli uomini moderni. E qui sta il fondamento del nostro pensare il futuro del popolo italiano.
l’Unità 27.12.12
Bersani: «Nell’agenda Pd più lavoro e più equità», di Maria Zegarelli
Se il Pdl parte all’attacco a testa bassa contro Mario Monti, la sua agenda e l’operato del governo, il Pd usa toni sobri e rispettosi ma non calorosi. Il programma dell’attuale premier? «Non ci ho visto niente di sorprendente», risponde il candidato di centrosinistra Pier Luigi Bersani. «Tante cose condivisibili, alcune un po’ meno, alcune da discutere», spiega, ma niente a che vedere con il programma del Pd e dell’intera coalizione, dove ci sono «più lavoro, più equità e più diritti».
AGENDA POCO SORPRENDENTE
Un’agenda, quella del professore, che ai piani alti del Nazareno hanno letto con molta attenzione riscontrandone gli stessi limiti che hanno contraddistinto l’azione di governo del professore e dei tecnici: nessun accenno di diritti, né delle coppie di fatto (omosessuali o no), né dei lavoratori, molta attenzione all’austerità meno all’equità di cui il Paese «ha invece urgente bisogno». Ma a chi continua a chiedere al leader del centrosinistra cosa intende fare rispetto a Monti, ormai candidato, Bersani insiste nel ripetere il suo ragionamento di fondo: sono gli altri, compreso il Professore, a doversi chiedere come interloquire con il Pd, perché il Pd è il «più grande partito italiano. Il più riformista ed europeista». Vale per Monti come per Casini: decidano cosa vogliono fare. Non intende neanche portare troppo oltre il dibattito sulla sua alleanza con Vendola e Sel che tanto preoccuperebbe il leader Udc, «quante complicazioni…», sbotta, soprattutto dopo aver superato la prova delle primarie ed essersi sottoposto al giudizio di oltre 3 milioni di italiani. Il Pd si pone come alternativa a Berlusconi, alla Lega e ai populismi, spiega, quindi «aperto al dialogo» con quanti si riconoscono in questa linea.
E se il premier ormai dimissionario, annuncia di voler «salire in politica», Bersani preferisce aspettare prima di pronunciarsi, e capire cosa esattamente voglia dire. «Noi abbiamo massimo rispetto per Monti dice ai microfoni del Tg2 lo abbiamo sostenuto in momento molto difficili. Ora aspettiamo di vedere se si collocherà al di sopra o piuttosto con una parte. Questo andrà chiarito con gli elettori». Purché si esca dall’ambiguità. Quanto a Berlusconi non è la scesa in campo del Cavaliere a preoccuparlo, piuttosto lo è il fatto «che dopo tanto tempo sia tornato il messaggio berlusconiano», una notizia che non è bella né per gli italiani né per il mondo, spiega il segretario Pd. Il rischio è che questa campagna elettorale, per certi versi più di quelle passate, sia contrassegnata dal populismo di Berlusconi e da quello di Grillo, facendo passare in secondo piano i problemi reali del Paese.
Parlando invece con il Financial Times è all’Europa e alla Germania, in particolare, che parla Bersani. Al Paese con cui Monti ha intessuto un solido legame durante questo anno di governo. «Non ho intenzione di litigare con la Germania dice -. Voglio che l’Italia abbia un rapporto serio, franco e amichevole con la Germania sulla base di argomenti razionali e realistici». Se da settori dell’Europa, e non solo, è arrivato l’invito al premier a non lasciare la scena politica, Bersani assicura che non stravolgerà il lavoro portato avanti dal Professore della Bocconi cercando di mandare un segnale politico molto preciso: l’alternativa alle prossime elezioni non può essere Monti o Silvio Berlusconi, vero incubo di Angela Merkel, tanto che sottolinea: «Sono d’accordo con molte delle critiche che la Germania fa a Paesi come l’Italia, perché sono le stesse critiche che muovo a Berlusconi». Ma, sembra aggiungere, c’è un polo progressista forte e affidabile che può offrire garanzie di serietà e rigore.
«Ora mi piacerebbe che l’Europa spiega conversando con il quotidiano finanziario britannico si concentrasse sulla crescita e combattesse la recessione con la stessa tenacia con cui ha difeso l’unione monetaria. In caso contrario l’austerità, che è necessaria, da sola potrebbe diventare rischiosa nel lungo periodo». Guardare avanti, dice il leader Pd, perché se dovesse toccare a lui guidare il Paese non rinegozierebbe il patto fiscale o uno degli accordi raggiunti, ma non ci si può fermare lì. La spinta recessiva, in caso contrario, se non contrastata anche con misure per la crescita, sarebbe insopportabile e non soltanto per l’Italia. «Sono pronto a discutere spiega nell’intervista a discutere se sarà il mio turno di governare il Paese, a rafforzare il meccanismo di disciplina di bilancio per il monitoraggio dei bilanci nazionali, in cambio di nuove politiche volte a stimolare l’economia».
Sul fronte interno agitazione intorno all’uscita di Pietro Ichino dal Pd per correre nelle liste di Monti e delle possibili defezioni dal fronte renziano. Ma su questo il segretario, incalzato dai montiani sull’agenda del professore, mostra nervi saldi. «La mia posizione è chiara ragiona con i suoi collaboratori il programma è quello illustrato alle primarie, sull’agenda Monti ho detto quello che penso, alcune cose sono condivisibili altre no». Dario Franceschini in serata twitta: «Con Monti può nascere un polo conservatore normale al posto del berlusconismo. Nostri avversari ma nelle emergenze anche alleanze possibili». Dopo il voto. Perché in campagna elettorale sarà un avversario.
L’Unità 27.12.12
“La resistenza del libro”, di Oliver Sacks
Voglio un libro che possa infilarmi in tasca o tenere insieme ai suoi confratelli sugli scaffali della mia libreria, riscoprendolo per caso perché mi ci cade l’occhio sopra. Quando ero ragazzo, alcuni dei miei parenti anziani, e anche un cugino giovane che vedeva male, usavano le lenti di ingrandimento per leggere. L’introduzione di libri a grandi caratteri, negli anni Sessanta, fu una manna dal cielo per loro e per tutti i lettori ipovedenti. Spuntarono fuori case editrici specializzate in edizioni a grandi caratteri per biblioteche, scuole e singoli lettori, e nelle librerie o nelle biblioteche trovavi sempre qualche libro del genere.
Nel gennaio del 2006, quando cominciai ad avere problemi alla vista, mi chiedevo come avrei fatto. C’erano gli audiolibri – qualcuno ne avevo registrato io stesso – ma io sono essenzialmente un lettore, non un ascoltatore. Sono un lettore incallito da quando ho memoria: spesso conservo nella mia mente quasi automaticamente numeri di pagina o l’aspetto dei capoversi e delle pagine, e sono in grado di trovare all’istante un certo passaggio in quasi tutti i miei libri. Io voglio libri che mi appartengano, libri la cui impaginazione intima mi diventi cara e familiare. Il mio cervello è tarato sulla lettura e quello che mi serve sono sicuramente i libri a grandi caratteri.
Ma oggi trovare testi di qualità in questo formato in una libreria è un’impresa. L’ho scoperto di recente quando sono andato da Strand, la libreria newyorchese famosa per i suoi chilometri di scaffali, dove mi rifornisco da mezzo secolo. Avevano una sezione (piccola) dedicata ai libri a grandi caratteri, ma era occupata prevalentemente da manuali e romanzi spazzatura. Nessuna raccolta di poesie, nessuna opera teatrale, nessuna biografia, nessun saggio scientifico. Niente Dickens, niente Jane Austen, nessuno dei classici; niente Bellows, niente Roth, niente Sontag. Sono uscito frustrato, e furioso: gli editori pensano forse che chi ha disturbi alla vista abbia anche disturbi al cervello?
Leggere è un compito enormemente complesso, che richiede l’intervento di varie parti del cervello, ma non è un’abilità che gli esseri umani hanno acquisito attraverso l’evoluzione (a differenza del parlare, che è in buona parte una capacità innata). Leggere è uno sviluppo relativamente recente, che risale forse a cinquemila anni fa ed è regolato da una minuscola area della corteccia visiva del cervello. Quella che oggi chiamiamo «area per la forma visiva delle parole» fa parte di una regione corticale che si è evoluta per riconoscere forme elementari in natura, ma che può essere riadattata al riconoscimento di lettere o parole. Questa forma elementare, o riconoscimento di lettere, è solo il primo passo.
Da questa area per la forma visiva delle parole bisogna creare connessioni bidirezionali a molte altre parti del cervello (tra cui quelle che sovrintendono alla grammatica, ai ricordi, alle associazioni e alle sensazioni) perché le lettere e le parole acquisiscano i loro significati specifici per noi. Ognuno di noi forma percorsi neurali unici associati alla lettura, e ognuno di noi apporta all’atto del leggere una combinazione unica non solo di ricordi ed esperienze, ma anche di modalità sensoriali. Alcune persone magari «sentono» i suoni delle parole mentre leggono (a me succede, ma solo quando leggo per piacere, non quando leggo per informazione); altri magari le visualizzano, consapevolmente o meno. Qualcuno può avere una percezione acuta dei ritmi acustici o dell’enfasi di una frase; altri sono più sensibili all’aspetto o alla forma.
Nel mio libro L’occhio della mente descrivo due pazienti, entrambi scrittori di talento, che avevano perduto la capacità di leggere a causa di un danno cerebrale all’area per la forma visiva delle parole, che è collocata vicino alla parte posteriore del lato sinistro del cervello (i pazienti affetti da questo tipo di alessia sono in grado di scrivere, ma non riescono a leggere quello che hanno scritto). Uno di loro, nonostante fosse un editore e amasse la carta stampata, per «leggere» si convertì seduta stante agli audiolibri, e invece di scrivere i suoi libri cominciò a dettarli. La transizione avvenne senza intoppi, apparentemente in modo quasi naturale. L’altro, un giallista, era troppo abituato a leggere e scrivere per rinunciarvi. Continuò a scrivere i suoi libri e trovò, o escogitò, un nuovo e straordinario modo di «leggere»: la sua lingua cominciava a copiare le parole di fronte a lui, disegnandole sull’interno dei denti; in pratica leggeva scrivendo con la sua lingua, sfruttando le aree motoria e tattile della sua corteccia. Anche in questo caso la transizione sembrò avvenire in modo naturale. Il cervello di ognuno dei due, usando i propri punti di forza e le proprie esperienze specifiche, trovò la soluzione giusta, l’adattamento migliore alla perdita subita.
Per qualcuno che è nato cieco, senza nessun tipo di immagini visive, la lettura è essenzialmente un’esperienza tattile, attraverso i caratteri in rilievo dell’alfabeto Braille. I libri in Braille, come i libri a grandi caratteri, ora sono meno numerosi e meno facili da trovare, perché la gente si rivolge agli audiolibri, meno costosi e di più facile reperimento, o ai programmi vocali dei computer. Ma c’è una differenza fondamentale fra leggere e farsi leggere. Quando una persona legge attivamente, sia che usi gli occhi sia che usi le dita, è libera di saltare avanti o indietro, di rileggere, di fermarsi a riflettere o lasciar divagare la mente a metà di una frase: si legge con i propri tempi. Farsi leggere, ascoltare un audiolibro, è un’esperienza più passiva, soggetta ai capricci della voce di un’altra persona e che segue prevalentemente i tempi del narratore.
Se nel corso della nostra vita ci troviamo costretti ad apprendere nuovi modi di leggere, magari perché abbiamo sviluppato problemi alla vista, ognuno di noi deve adattarsi a suo modo: qualcuno si converte all’ascolto, altri continuano a leggere finché possono; qualcuno ingrandisce i caratteri sul lettore di e-book, altri i caratteri sul computer. Io non ho mai adottato nessuna di queste tecnologie: almeno per il momento rimango fedele alla buona vecchia lente d’ingrandimento (ne ho una dozzina, di forme e gradazioni differenti).
Gli scritti dovrebbero essere accessibili nel maggior numero di formati possibili: George Bernard Shaw chiamava i libri la memoria della razza. Non dobbiamo consentire la scomparsa di nessuna forma di libro, perché siamo tutti individui, con esigenze e preferenze fortemente individualizzate: preferenze radicate nei nostri cervelli a ogni livello, con i nostri modelli neurali e le nostre reti neurali individuali che creano un dialogo profondamente personale fra autore e lettore.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
La Repubblica 27.12.12