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“Questa coalizione del Professore è una operazione di centrodestra inopportuno che ci metta il nome”, di Umberto Rosso

Onorevole Franceschini, Monti ha sciolto la riserva e assume il ruolo di capo politico dei centristi. Che effetto fa al Pd?
«Nessuna preoccupazione, se questa è la domanda. E’ un processo interno che riguarda un’altra area, che non incide minimamente sul nostro mondo e i nostri elettori. E’ un’operazione tutta interna al centrodestra. Non temiamo concorrenza».
Solo di centrodestra?
«Certo, basta guardare i nomi dei principali esponenti. Fini, Casini, Montezemolo.
Il campo è quello lì. Sul piano politico può rappresentare una novità, un passo avanti. Dopo un ventennio berlusconian-leghista, finalmente la possibilità di una stagione di confronto e scontro “normale” col centrosinistra. Di certo comunque, nel terremoto politico che si è scatenato (i centristi con Monti, il Pdl spaccato in due, Grillo, gli Arancioni), il Pd è rimasto l’unico punto fermo, la bussola
nel caos».
Monti presenta come «nuova» l’operazione che tiene a battesimo.
«Ci andrei cauto col «nuovo». Intanto perché è una coalizione che mette insieme tante personalità diverse. Tra il laicismo di Della Vedova e il credente Riccardi, per esempio, c’è una bella distanza. Il rischio è quello della eterogeneità. Proprio il problema che noi ci siamo messi alle spalle, tagliando con l’ala sinistra più radicale, Di Pietro, e i tanti gruppetti della fu Unione».
Gli altri dubbi sul tasso di nuovismo del premier?
«Come gli sceglieranno i candidati, un tot a lista? E’ previsto un tetto di mandati parlamentari? Quante donne? Faranno le primarie? Noi le abbiamo lanciate, per la scelta del candidato premier e da oggi anche per deputati e senatori. Questo è il nostro profilo, il partito che porteremo in campagna elettorale. Non basta dirsi nuovi. Aspettiamo le scelte di Monti alla prova dei fatti, e ci confronteremo davanti agli italiani».
C’è anche il nome del cartello, “Agenda Monti per l’Italia”.
«Confido che non sia vero, spero che Monti non metta il suo nome nel simbolo elettorale. E di non ritrovarmi di fronte magari un’ “Agenda” stampata in piccolo piccolo e un “Monti” in caratteri cubitali. L’uomo che meglio di tutti conosce l’Europa, sa bene che in nessun paese oggi c’è una lista col nome del candidato. E’ un brutto lascito berlusconiano, che va rimosso. Il Pd volta pagina, non c’è il nome Bersani in cima alle nostre liste. Che non lo faccia Monti, un senatore a vita, che è stato premier con il consento di tutti, sarebbe proprio inelegante».
Alcuni del Pd con in testa Ichino hanno lasciato il partito per seguire l’avventura politica del Professore.
«Forse perché non hanno ottenuto un posto nel listino, una poltrona garantita in Parlamento. Quei pochissimi che mancano all’appello, tre o quattro, non sarebbero usciti dal Pd. Ma sono le primarie, bellezza».
Monti parla di autosufficienza del suo raggruppamento.
«Serve misura nelle cose. Non credo che pensi di vincere le elezioni e di governare da solo. Adesso, nell’immediato, noi andremo al confronto in campagna elettorale con lo stesso spirito che abbiamo avuto in questi tredici mesi di governo. Dopo il voto, si vedrà. Ma dovrà essere il centrodestra di Monti a dirci che intenzione ha, se e come vuol costruire con noi un’alleanza».
Ma l’agenda Monti per voi che fine farà?
«L’ho già detto, il nostro atteggiamento resta lo stesso. Abbiamo sostenuto il governo ma correggendone sempre la rotta in direzione dell’equità e della difesa delle fasce sociali più deboli. Così è stato sull’indicizzazione delle pensioni, sugli esodati, sull’articolo 18. Senza le nostre correzioni, l’agenda Monti sarebbe stata iniqua. E lo faremo notare in campagna elettorale».
La Repubblica

“Istat: a 4 anni dal diploma il 16% dei giovani né studia né lavora”, di Alessandro Giuliani

Ancora pessime notizie per i giovani italiani. Il 27 dicembre l’Istat ha reso pubblico il dato che a quattro anni dal diploma meno della metà dei giovani italiani ha un lavoro. Lo scorso anno risultava occupato il 45,7% dei diplomati che hanno conseguito il titolo nel 2007. Di questi, 8 su 10 svolgevano un lavoro di tipo continuativo, cioè un lavoro svolto con cadenza regolare, anche se di durata a termine. Mentre il 16,2% era in cerca di lavoro e solo il 33,7% era impegnato esclusivamente negli studi.
Si tratta di dati ufficiali, contenuti nell’indagine 2011 sui ‘Percorsi di studio e di lavoro dei diplomati’. È significativo che rispetto alla precedente edizione dell’indagine (condotta sui diplomati del 2004 intervistati a tre anni dal titolo), la quota degli occupati si riduce di circa 5 punti percentuali (nel 2007, infatti, era superiore al 50%).
Nelle regioni del Mezzogiorno la quota di diplomati disoccupati a quattro anni dal titolo è più che doppia rispetto a quella che si rileva nelle regioni settentrionali (23% rispetto al 10,6% nel Nord-ovest e al 9,1% nel Nord-est). A tal proposito, nella stessa giornata Confindustria e Studi e Ricerche per il Mezzogiornohanno rilevato, attraverso il Check-up Mezzogiorno, che il calo dell’occupazione e le crescenti difficoltà economiche delle famiglie stanno determinando una vera “emorragia di capitale umano” nel Mezzogiorno: sono sempre di più, infatti, quelli che decidono di lasciare il Sud Italia per andare a vivere nel Centro-Nord o all’estero (110mila nel solo 2010). “Peraltro il Mezzogiorno non utilizza gran parte del capitale umano che resta sul territorio: i giovani con età compresa tra 15 e 24 anni che non studiano o non lavorano rappresentano il 33% del totale, contro il 25% registrato in Italia”.
L’indagine contiene anche indicazioni importanti sul proseguo degli studi post-diploma. A quattro anni dall’immatricolazione all’università – rileva l’indagine dell’Istat – poco meno del 14% ha già conseguito una laurea di I livello, mentre quasi il 9% ha interrotto e abbandonato gli studi. L’abbandono degli studi universitari avviene più frequentemente tra i giovani che si sono diplomati negli istituti tecnici e nei corsi dell’istruzione magistrale (oltre l’11%), mentre tra i liceali la percentuale di interruzione degli studi è inferiore al 6%. Sono le ragazze a mostrare una maggiore propensione a proseguire gli studi: le diplomate che si iscrivono all’università sono quasi il 70% a fronte del 57% dei diplomati maschi. Ma a quattro anni dalla fine degli studi secondari superiori, le giovani diplomate in cerca di occupazione sono pari al 18,1%, una percentuale superiore di quattro punti rispetto a quella dei maschi (14,2%).
C’è poi un altro dato indicativo, riguardante sempre la situazione dei nostri giovani a 48 mesi dal diploma: quello che otto ragazzi su dieci vivono ancora in famiglia. Nel dettaglio, l’82,3% dei diplomati vive per lo più ancora nella casa dei genitori, solo il 5,5% vive da solo, poco meno del 5% ha formato una nuova famiglia e il 6% convive con amici.
Ad influenzare il ritardo al passaggio a una vita indipendente sono sicuramente le condizioni economiche. Tuttavia, ben un quarto dei diplomati non è interessato a lasciare la propria famiglia. “Oltre la metà dei giovani intenzionati a prolungare la loro permanenza nella famiglia di origine – rileva l’Istat – lamentano una condizione occupazionale insoddisfacente: il 25,8% è senza lavoro o ha un’occupazione di tipo precario, mentre il 24,9% non possiede un reddito mensile sufficiente per affrontare i costi di una vita autonoma. Il 22,7%, pur intenzionato a vivere da solo, vuole prima terminare gli studi, mentre circa un quarto dei diplomati dichiara di non essere interessato a una vita indipendente”.
La Tecnica della Scuola 28.12.12

“Le divergenze parallele”, di Massimo Giannini

La metamorfosi è compiuta. Non basta più essere Professori, per reggere quattro ore di trattativa con gli ex, i post e i neo democristiani, a discutere di coalizioni e liste elettorali, candidature e comizi. La riunione-fiume con casiniani, finiani e montezemoliani sancisce la definitiva trasformazione di Mario Monti. Il “tecnico prestato alla politica” diventa un politico forgiato dalla tecnica. Il Centro Montiano non nasce come partito nella forma, solo perché il senatore a vita non si sente di tradire la missione concordata con il presidente della Repubblica che lo ha nominato.
Ma lo è, con tutti gli ossimori e le ambiguità del caso, nella sostanza. Lista unica al Senato, liste separate ma coalizzate alla Camera, e l’ex premier che accetta (secondo l’aberrazione costituzionale del Porcellum) il ruolo esplicito di “leader della coalizione”.
Dunque, la nuova Cosa Bianca ha una testa: Monti. Ha diverse gambe: i cespugli centristi. E ha anche un progetto: disarticolare gli assetti del bipolarismo, rompere lo schema binario destra/sinistra, sostituirlo con il paradigma cambiamento/conservazione, riaggregare i moderati sotto le insegne dell’ortodossia europeista e di un’economia sociale di mercato all’italiana. L’idea è ambiziosa. Addirittura velleitaria, se si considera che manca appena un mese e mezzo al voto, e che la piattaforma programmatica del Centro Montiano, per quanto salvifica in questi ultimi tredici mesi, sconta l’altissimo tasso di impopolarità della stangata sull’Imu in queste ultime settimane.
Monti cessa di essere il “candidato riluttante”, e sale in politica da “candidato militante”. Non si presterà ai bagni di folla, ma sarà in campo con il suo nome e con la sua faccia. Una scelta non scontata: prima della conferenza stampa di fine anno sembrava ormai prevalere la rinuncia. Una scelta per molti versi coraggiosa: il Professore, abituato a “concedersi” nei più alti consessi, accetta di “contarsi” dentro le urne. E qui, nell’accettazione di questa sfida a viso aperto, si nascondono insieme un’opportunità e un problema.
L’opportunità è quella di misurare quante “divisioni” ha davvero Monti, e quanta capacità di attrazione può sprigionare in quella zona grigia della società italiana sopravvissuta prima all’eclisse democristiana e poi all’apocalisse berlusconiana. Dal novembre 2011 in poi, il Professore è stato sempre popolare e mai populista. “Cooptato” a Palazzo Chigi, ci è entrato e ci ha abitato senza avere un suo “popolo”. Oggi si tratta di capire se un suo “popolo” si è formato ed esiste davvero. È una verifica importante, per un tecnocrate abituato a gestire il potere dall’alto, e non a conquistarselo dal basso. E perciò non selezionato dalla democrazia, dove valgono i consensi dei cittadini. Ma piuttosto legittimato da un’aristocrazia, dove valgono le cancellerie internazionali, le gerarchie ecclesiastiche o le dinastie industriali. Il 24 febbraio, per fortuna, non varrà la vecchia regola di Enrico Cuccia: i voti non si peseranno, si conteranno. Ed è un bene che la “conta” riguardi anche questo rinato Terzo Polo, visti i clamorosi insuccessi subiti dai tanti “piccoli centri” abortiti in questi ultimi vent’anni.
Il problema è che questo tentativo spinge Monti e i suoi “ottimati” su una posizione inevitabilmente “frontista” rispetto ai due Poli. Con la destra, per fortuna, la rottura è ormai consumata ed è irrimediabile. Berlusconi, del Centro Montiano, è un nemico non solo politico e simbolico, ma a questo punto addirittura personale. Tutto, nel forzaleghismo ritrovato del Cavaliere, è l’antitesi del montismo. E d’altro canto, se l’operazione del Professore ha un senso, è quello di ereditare in futuro l’elettorato conservatore in fuga definitiva dal Pdl, per traghettarlo dentro il porto sicuro del vero popolarismo europeo, laico, costituzionale, repubblicano. Dunque è in quell’area sociale e politica che la coalizione moderata deve cominciare a pescare, oggi e in prospettiva. Ma per fare questo, Monti deve inasprire i toni e allargare il fossato che lo separa da Bersani.
E qui il problema diventa paradosso. Con la sinistra, il Centro Montiano dovrà provare a fare un accordo, se non vuole scommettere sull’ingovernabilità, puntando a una Folle Coalizione che tiene dentro anche Berlusconi e Grillo. Un accordo non pre, ma post-elettorale, che serva a garantire una maggioranza sicura anche al Senato dove la partita è più incerta. Ma questo patto andrebbe discusso, ragionato e preparato in un clima di collaborazione tra Monti e Bersani. Invece, come dimostrano i prodromi di questi ultimi giorni, la campagna elettorale è destinata a infiammarsi intorno alla competizione tra il premier e il segretario. Il primo costretto a prendere sempre più platealmente le distanze dal Pd, per ridurre quelle che lo separano dall’elettorato del Pdl. Il secondo obbligato, per ragioni uguali e contrarie, a rimarcare sempre più orgogliosamente il presidio identitario della sinistra.
Il risultato rischia di essere a saldo zero per tutti. Parafrasando l’antica lezione di Moro, Monti e Bersani sono destinati alle “divergenze parallele”. Almeno nella prossima legislatura. Più in là ognuno riprenderà la sua strada, centro e sinistra potranno diventare alternativi. Ma non è ancora il momento. E se dunque i due leader si condannano già oggi a una cooperazione conflittuale, fanno la fine di Craxi e De Mita, e non rendono un buon servizio al Paese. La Terza Repubblica non può nascere con i vizi letali della Prima.
La Repubblica 29.12.12

Ghizzoni: «Proverò a battermi ancora per garantire equità», di Davide Berti

La presidente della commissione cultura è in campo: «Sono qui perché me lo ha chiesto il territorio». Di nuovo in campo. Manuela Ghizzoni è, come si dice in gergo sportivo, carica. Dopo sei anni e mezzo di Parlamento, dove è cresciuta da capogruppo a presidente di commissione cultura, prova a mettersi in gioco nel terzo mandato. Con qualcosa da rivedere sull’ultimo governo e qualche compito rimasto in sospeso per la chiusura anticipata della legislatura. Partiamo dalla fine: che primarie saranno? «Vere e soprattutto aperte. Apertissime. Il risultato sarà molto incerto fino all’ultimo. Mai prima d’ora il partito ha messo in campo un confronto di questa levatura. Come è giusto che sia, vista la posta in palio». Teme le sue avversarie? «Io prima di tutto la vedo nell’ottica della costruzione di un percorso politico virtuoso al quale il nostro partito non si è sottratto. Poi, è vero, si tratta di una sfida che voglio giocarmi fino in fondo perché sono convinta di poter dare il mio contributo». Renzi o non Renzi, si è tanto parlato di rinnovamento in questi mesi. Si sente nel mirino dal momento che è una parlamentare uscente e il suo nome non è mai stato messo in discussione, a differenza di altri, dall’inizio di queste primarie? «Dico con molta franchezza e tranquillità che non ho scelto io di ricandidarmi. Quando è stata ora di presentarsi davanti a questa scadenza, ed era ovviamente tempo di decidere, ho semplicemente fatto una cosa: chiesto ai territori di riferimento, che nel mio caso sono la zona di Carpi e la Bassa, che cosa pensavano di una mia eventuale ricandidatura . La risposta è stata positiva, quindi eccomi qua». Pensare che la davano già per nuovo sindaco di Carpi… «L’ho letto sui giornali. Ci sono dinamiche che escono fuori dal tempo in cui si vive. La verità è che sono a disposizione per provare a portare a Roma l’esperienza e la capacità che arrivano dai nostri territori». Lei lascia Roma da presidente della commissione cultura alla Camera. Che esperienza è stata? «Molto vicina ai bisogni della gente. Ho registrato rammarico e preoccupazione per una legge di stabilità, approvata ormai un anno fa, in tutta fretta. Mi batterò per riportare equità, che è quello che è mancato in questi ultimi mesi. Ho un giudizio a luci e ombre su quello che è stato fatto, sebbene si debba tenere conto della situazione di grave crisi in cui tutto questo è avvenuto. Credibilità, soprattutto a livello internazionale, l’abbiamo ristabilita. Ora si tratta di connettersi nuovamente coi cittadini sui bisogni primari e dare risposte. E per fare questo ci vuole un partito che ci metta la faccia». Qualche rammarico su quanto non ha potuto fare in questi mesi? «Piuttosto mi dispiace non avere completato alcuni dei percorsi messi in atto per migliorare la condizione dei lavoratori nel mondo della cultura: penso agli archivisti, agli archeologi, professionalità incredibili che tutto il mondo ci invidia e che avrebbero bisogno di maggiore considerazione. ma la preoccupazione più grande deriva dalla situazione del mondo universitario. C’è un problema oggettivo di tenuta del sistema, 300 milioni in meno nel fondo per l’università sono una enormità difficile da gestire e rispetto alla quale si rischia davvero di fallire e di coinvolgere in questo i tanti giovani di talento che abbiamo. Questo è un problema aperto che dovrà essere affrontato da subito». Chi vincerà domenica? «Modena da sempre esprime una classe dirigente di grande valore. E sarà così anche questa volta. Io vengo dal mondo della scuola e mi ritrovo molto nel sostenere che la candidatura, qualunque essa sia, debba essere di natura collettiva». E sarà così anche questa volta, perché a decidere saranno i cittadini.
La Gazzetta di Modena 28.12.12

“Non diamo ai privati i beni culturali”, di Vittorio Emiliani

Dopo un Ministro latitante, Lorenzo Ornaghi, il peggiore di una storia quarantennale, un’Agenda che assomiglia a un brodino di dado (vecchio) a fronte di un ministero per i Beni e le attività culturali vicino al collasso, all’immobilità e quindi all’impotenza contro speculatori, tombaroli, privatizzatori sciolti e a pacchetti, lottizzatori legali e abusivi, piazzisti di pale eoliche tanto inutili quanto devastanti (magari su vigneti e oliveti di pregio) e di distese di panelli fotovoltaici messe a tappezzare campi prima coltivati. Con tutto lo spettacolo dal vivo che boccheggia, riduce programmazione e spesso qualità, ricerca e avanguardia.
Tutto qui lo sforzo del professor Monti e dei suoi collaboratori per un «motore» strategico come la cultura? Una paginetta palliduccia, con appena 14 righe dedicate ai beni culturali (retoricamente definito patrimonio «che non ha eguali al mondo») e le altre 17 al turismo. Che per l’Agenda sembra davvero l’unica ragione di conservazione di un complesso che vanta oltre 4.000 musei, 95.000 fra chiese e cappelle, 2.000 siti e aree archeologiche, 40.000 fra torri e castelli, migliaia di biblioteche antiche e di archivi plurisecolari, di palazzi civici ed ecclesiastici inseriti in oltre 20.000 centri storici dei quali almeno mille di una bellezza stordente, con 800 teatri storici e tanto altro ancora. Spesso ben restaurato in anni che parevano infelici e che ora ci sembrano persino felici, inserito in paesaggi mirabili, «fatti a mano» per secoli. Quella che Goethe, ammirato, chiamò, riprendendo Averroè, «una seconda natura» (la natura naturata) costruita da artisti, artigiani, artieri geniali e di gusto.
Eppure il presidente della Repubblica Napolitano, agli Stati generali della cultura, aveva detto cose ben più forti e profonde esortando a desistere dai tagli e a darsi una politica per la cultura, per la ricerca, secondo l’art. 9 della Costituzione. Nell’Agenda Monti viene vantato l’avvio del progetto Pompei che – come ha giustamente rilevato Maria Pia Guermandi su Eddyburg – è tutto finanziato dalla Ue e dall’aprile scorso non ha mosso ancora un sol passo. Con quella Soprintendenza speciale di fatto commissariata.
Per i grandi musei statali la ricetta-Monti è la «partnership pubblico-privato», con lo Stato esangue che non ha euro da investire e chiede ai privati di sostituirlo cedendo loro, a quanto si può capire, la gestione e la regia tecnico-scientifica. Saremmo l’unico Paese sviluppato in cui i privati entrano nei musei statali non per dare soldi ma soprattutto per prenderne. «I privati dentro la gestione di un museo pubblico?», mi chiese stupito un importante storico dell’arte americano allorché Ornaghi lanciò la Grande Brera privatizzata. «Ma è come mettere la volpe nel pollaio…». E la storica dell’arte Jennifer Montagu, inglese, bollò l’operazione Brera (con l’Accademia di Belle Arti allontanata dal palazzo piermariniano) come «decisione vergognosa e disastrosa». Per contro l’ex ambasciatore Sergio Romano definiva «giacobini» i tanti intellettuali che – a partire da Catherine Loisel conservateur en chef del Louvre – si opponevano a quel progetto. Perché difensori del primato dell’interesse generale su quelli privati?
Così va l’Italia e ancor peggio andrebbe se dovesse prevalere l’idea che un patrim nio «che non ha eguali al mondo» (Monti dixit) fosse trattato come un «giacimento», una «macchina da soldi», e non come un valore strategico «in sé e per sé» (sia o no redditizio). Anche per il Pd c’è però un insegnamento in questo mediocre capitoletto dell’Agenda Monti: ribalti il discorso e sulla cultura imposti un’orgogliosa strategia alternativa, ridia slancio e fiducia ai tanti operatori culturali (pubblici e privati) capaci, meritevoli, coraggiosi e però frustrati, preveda incentivi per i privati che vogliono essere sponsor e mecenati, restituisca entusiasmo ai milioni di italiani (e di stranieri) che amano il Belpaese, la sua arte, la sua musica, il suo teatro, le sue città, i suoi inarrivabili e minacciati paesaggi. Dica forte e chiaro che la Bellezza è un bene sociale che riguarda tutti.
l’Unità 28.12.12

“Il golpe televisivo”, di Giovanni Valentini

Abbiamo superato il livello di guardia. La tracimazione mediatica di Silvio Berlusconi, sulle sue reti domestiche e su quelle pubbliche, sgorga ormai come una fogna a cielo aperto, con tutti i suoi detriti, i suoi veleni e i suoi miasmi. Una nube tossica che minaccia di inquinare la regolarità della competizione elettorale. E dunque, un’emergenza democratica che a questo punto chiama in causa direttamente le più alte cariche dello Stato: dal presidente della Repubblica, nel suo ruolo istituzionale di garante “super partes” dell’unità nazionale, ai presidenti delle due Camere, al di là della rispettiva estrazione e appartenenza. Non basta più la “par condicio”, avevamo già scritto su questo giornale sabato scorso.
Ma non bastano più neppure la Commissione parlamentare di Vigilanza e l’Autorità di garanzia sulle Comunicazioni. Né bastano le leggi e i regolamenti che pure sono in vigore e vengono sistematicamente violati, elusi, trasgrediti. Questo è il golpe mediatico di un “caudillo” ridotto alla disperazione, deciso a giocarsi il tutto per tutto, sulla pelle del Paese e su quella dei cittadini.
È lo stesso Berlusconi, del resto, ad ammettere il proprio degrado in una sorta di autoconfessione pubblica, quando dichiara sprezzantemente di essere “sceso in politica” dall’alto della sua posizione economica, raggiunta – come ben sappiamo – con la copertura e la complicità dei vecchi protettori politici. E lo dice in polemica con il professor Monti che invece aveva appena rivendicato con orgoglio di essere “salito in politica”, con quello spirito di “civil servant” che tutti – sostenitori e avversari – dobbiamo riconoscergli, anche indipendentemente dal giudizio sul suo impegno di governo. Il Cavaliere, dunque, è “sceso in politica” come in un bassofondo della vita pubblica nazionale; un luogo malfamato e malavitoso che in questi ultimi vent’anni lui non ha certamente contribuito a risanare.
A proposito delle sue reti tv, che funzionano in regime di concessione pubblica e che quindi Berlusconi controlla in via temporanea come ogni altro operatore privato, abbiamo pure ricordato nei giorni scorsi che quel simulacro di legge sul conflitto di interessi firmata dall’ex ministro Frattini dovrebbe impedire
qualsiasi forma di “sostegno privilegiato”: cioè di “vantaggio, diretto o indiretto, politico, economico o di immagine”. Ma l’Authority sulle Comunicazioni s’è limitata finora a recitare pilatescamente la consueta litania su “imparzialità, equità, completezza, correttezza, pluralità dei punti di vista ed equilibrio delle presenze dei soggetti politici”. E ieri il malcapitato presidente Cardani, designato dal governo dei tecnici, ha dovuto confessare candidamente la propria impotenza ammettendo che le sanzioni pecuniari sono modeste e che, al limite della delegittimazione istituzionale, “è difficile il ripristino del pluralismo in questa fase”.
Ma in realtà il vero “buco nero” resta quello della Rai. Un servizio pubblico allo sbando, guidato da un presidente e da un direttore generale – anche loro insediati dal cosiddetto governo dei tecnici – che si muovono, o non si muovono, nei meandri del servizio pubblico come Alice nel paese delle meraviglie. Ma, dietro la facciata apparentemente rispettabile, agiscono dietro le quinte i fantasmi di un vecchio sistema che fa capo ancora all’onnipotente dottor Letta e ad alcuni esponenti di qualche “cricca” di sottopotere.
Con il candore degli sprovveduti, il direttore generale scrive allora al presidente della Vigilanza per giustificarsi e riconoscere di essere stato scavalcato dai direttori di rete, appena nominati dal Consiglio di amministrazione di cui lui stesso fa parte, con le lodevoli eccezioni dei due rappresentanti indicati dal Partito democratico, l’ex pm Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi. Ma che cos’è, dunque, quella di Gubitosi?
Un’autodenuncia o un preannuncio di dimissioni? In quale azienda normale, il direttore generale viene pubblicamente ignorato, smentito, contraddetto dai suoi sottoposti in ordine gerarchico, senza trarne le conseguenze, senza che non accada nulla e tutto rimanga come prima?
Da “Domenica In” a “Unomattina”, nonostante la raccomandazione ufficiale di non ospitare personaggi politici in trasmissioni di intrattenimento, il leader del partito che non c’è più continua a essere interrogato dal conduttore di turno, senza un autentico contraddittorio che assicuri – appunto – il pluralismo e l’equilibrio dei soggetti politici. In pratica, un monologo, un soliloquio. E se anche fosse vero l’ultimo incidente con Massimo Giletti, “se m’interrompe me ne vado”, francamente assomigliava più a una sceneggiata che a un litigio.
Una particolare menzione di demerito va rivolta infine a Sky Tg 24. In una patetica e imbarazzante telefonata in diretta con don Gelmini, trasmessa la sera di Santo Stefano, il telegiornale satellitare ha consentito a Berlusconi di sfruttare la figura e l’immagine tremolante di un sacerdote quasi novantenne che lotta contro la droga, per fare un comizio elettorale sullo “spread” e sui “diktat” della Germania, prima di essere tardivamente “sfumato” dalla regia. Un’indecenza e una vergogna che, per l’“Unto del Signore”, gridano vendetta al cielo. E che forse dovrebbero anche indurre la Chiesa italiana a riflettere sulle sue responsabilità pregresse, in ordine alla deriva morale del berlusconismo.
La Repubblica 28.12.12

“L’abisso Usa che spaventa il mondo”, di Gianni Riotta

In America è il numero 13, non il 17, che porta sfortuna e spesso lo si cancella in ascensori, hotel aerei. Nessuno però sfuggirà, tra Capodanno e 4 gennaio 2013, alla iettatura che i giornali chiamano «fiscal cliff», abisso fiscale. O il presidente Obama e i repubblicani della Camera, guidati dallo Speaker John Boehner, trovano un accordo o scattano 600 miliardi di dollari (€ 460 miliardi) in tasse e tagli alla spesa automatici, inclusi 50 miliardi di dollari alla Difesa. Senza intesa, l’Ufficio del Bilancio stima una caduta del 4% nel prodotto interno Usa, il Paese che scivola in recessione, sei mesi con caduta libera fino a -2,9 nella crescita e solo da giugno a dicembre 2013 un lentissimo ritorno a un gracile +1,9%. Tutti gli americani, ricchi e poveri, pagheranno più tasse, tre milioni di disoccupati, da qui a marzo, perderanno i 290 dollari di sussidio settimanale, 25 milioni di lavoratori a basso salario non riceveranno più vari sussidi, da sanità a scuola. Otto milioni di bambini rischiano la povertà.
Numeri che basterebbero a forzare democratici e repubblicani al tavolo della trattativa, se l’ideologia non irrigidisse tutti. I repubblicani non votano un aumento delle tasse al Congresso dal 1992, e quando lo Speaker Boehner ha proposto una timida apertura a più imposizione fiscale per i super ricchi, la base s’è rivoltata, minacciando la sua poltrona. Quanto basta perché un politico di oggi perda subito animo.
I mercati e Wall Street hanno scommesso dapprima sull’accordo, giocando al poker delle previsioni, ora hanno paura e vanno in negativo. Obama ritorna in anticipo dalle vacanze alle Hawaii per aggiungere dramma alla situazione e mettere pressione ai rivali. Non bluffa: se il Paese si ribalta nell’«abisso fiscale» darà colpa ai repubblicani, per costringerli di più nell’angolo dopo la sconfitta di novembre. Anche la sua base ringhia, il «New York Times» lo considera troppo disposto a fare cessioni.
Gli ultimi saggi moderati del partito che fu di Nixon e Reagan, senatori centristi, chiedono ai repubblicani di trattare, lo stesso Boenher vorrebbe, ma il giuramento «Mai Tasse» che lega troppi deputati ai radicali del movimento Tea Party, può rendere il 2013 anno sfortunato. La trattativa andrà avanti, tra accordi sottili e rotture, metà corte assurda di Bisanzio, metà sfida di pistoleri da Far West, e vedremo come si evolverà. Il lettore può già però trarne insegnamenti utili, perché se lo Zio Sam cade, sia un abisso o solo una botola fiscale, anche l’Unione Europea e l’Italia si faranno male. L’America in recessione, il caos a Washington, la rissa politica permanente dell’ultima potenza, non gioveranno nei prossimi 12 mesi, con il Giappone che prova nuovi equilibri politici, la leadership debuttante in Cina, Italia e Germania alla vigilia di difficili elezioni.
La lezione americana, comunque finisca, indica elementi di nuova, ruvida, politica che anche da noi presto si imporrà. Il no alle tasse dei repubblicani, radicato da una generazione, non è politico ed economico, è culturale. Indica la fine di un senso civico di comunità, non si vogliono pagare imposte perché tanti ceti si rivolgono a scuola, sanità e pensioni private, vivono in «gated community», quartieri residenziali chiusi, e trovano assurda l’idea di provvedere ai concittadini meno fortunati. La politica, il governo, le burocrazie federali, hanno dissipato, tra sprechi, corruzione e inefficienze, la loro credibilità davanti a milioni di cittadini. Egoismo, certo, ma anche sfiducia consumata nello Stato fiscale, il welfare, la spesa. Mezzo secolo fa i democratici di Kennedy e Johnson dichiararono guerra alla povertà, investirono miliardi per debellarla, ma oggi le minoranze più prospere sono quelle che hanno scommesso su se stesse, sul lavoro, il business, l’etica del lavoro, non sui sussidi pubblici: gli asiatici.
Per tornare alla solidarietà diffusa il presidente Obama dovrebbe dimostrare che tasse e spesa, sostenute dalla pattuglia di economisti guidati dal Nobel Krugman, sono ancora indispensabili a soli 5 anni dalla crisi del 2008, che chiudere il sostegno, passare a un rigore «tedesco» nella grande America, rischia di duplicare lo stop che colpì lo stesso leggendario presidente Roosevelt quando pensò troppo presto di essere uscito dal disastro del 1929 e dovette aspettare la Seconda Guerra Mondiale per rilanciare il Paese. Errore che, fin qui, la Banca centrale di Ben Bernanke ha saputo evitare.
L’America non ha più la leva militare, la grande scuola pubblica s’è sfasciata nelle metropoli, i college statali come il City di New York, popolati una volta da grandi scienziati, stentano a chiudere i bilanci. La riforma sanitaria di Obama è detestata da metà del Paese. È vero che la classe dirigente oggi è mediocre, è vero che il Presidente non ha dimostrato grandi doti negoziali, ma se si gioca alla roulette americana, non russa stavolta, sull’orlo dell’abisso, è perché manca un tessuto comune, solidale.
Da qui a gennaio, con una possibile, drammatica, coda fino a primavera, il duello fiscale continuerà, poi gli Stati Uniti troveranno un accordo, vedremo quanto fragile e provvisorio. Ma, come dicevano gli antichi favolisti latini, De te fabula narratur, la favola dell’abisso fiscale parla di noi, italiani, europei. Le divisioni politiche, sia pur radicali, sono la forza della democrazia, l’alternanza di proposte liberiste e keynesiane, accompagna feconda le diverse stagioni economiche. Quel che rischia di fermare tutti è il contrapporsi di sprechi, corruzioni, egoismo, guerra di tribù sociali. Non è il 13 a rendere sfortunato il 2013, è lo smarrimento del senso e della ragione di cittadinanza comune. I Tea Party originali, nel Settecento, chiedevano «No taxation without representation», niente tasse senza diritti politici pieni, perché erano fieri dei diritti e della politica che li rappresentava ed erano disposti a pagarne il prezzo fiscale. Perduta la fiducia nella politica, il prezzo del biglietto fiscale sembrerà sempre troppo esoso, in America e da noi.
La Stampa 28.12.12