Latest Posts

“Per favore Professore non rifaccia la Dc”, di Eugenio Scalfari

È cambiato in appena una settimana. Domenica scorsa, davanti ad un’affollata platea della Federazione della stampa, Mario Monti aveva parlato da uomo di Stato tracciando le linee maestre d’un programma (o agenda che dir si voglia) per completare l’uscita dall’emergenza e proiettare il Paese verso il futuro dell’Italia e dell’Europa. Aveva ripetuto un punto di fondo che già conoscevo e avevo scritto riferendo una conversazione avuta con lui il giorno prima: «Dobbiamo riformare la pubblica amministrazione per adeguarla alla società globale e dobbiamo costruire lo Stato federale europeo. Si tratta di compiti estremamente impegnativi, pieni di futuro e di speranze e per condurli a termine è necessaria una grande alleanza di forze sociali e politiche che accettino questo programma».
E poi l’agenda delle cose concrete da fare: completare la legge contro la corruzione, portare avanti le liberalizzazioni, ripristinare il reato di falso in bilancio, varare una legge che risolva il conflitto d’interesse. E soprattutto, mantenere gli impegni assunti con l’Europa, stabilizzare il rigore dei conti pubblici e avviare la seconda parte di quegli impegni, la crescita economica, il lavoro, l’equità, il taglio delle spese correnti, l’alleggerimento delle imposte sul lavoro e sulle imprese, la produttività e la competitività, l’abolizione delle Province, il ruolo delle donne, il tasso demografico. «Fate più bambini» aveva concluso.
Quanto a lui, avrebbe atteso di vedere quali forze sociali e politiche avessero fatto propria la sua agenda.
Se gli avessero chiesto di dare il suo contributo alla realizzazione di quel programma, era pronto ad assumerne la responsabilità. Un bellissimo discorso, di chi opera nel presente guardando al futuro, all’insegna di uno slogan che era molto più di uno spot: il cambiamento contro la conservazione.
Ma appena due giorni dopo aveva già iniziato colloqui riservati con l’associazione di Montezemolo e con i centristi di Casini e di Fini, avendo come consiglieri i suoi ministri Riccardi e Passera; poi aveva incontrato il giuslavorista Ichino in rapido transito dal Pd alla montiana coalizione centrista; i dissidenti del Pdl guidati da Mauro, mentre cresceva il numero dei ministri del suo governo interessati a proseguire con lui l’esperienza iniziata un anno fa.
Intanto fioccavano gli “endorsement” da quasi tutte le cancellerie europee e americane ed uno decisivo da ogni punto di vista del Vaticano, proveniente dai cardinali Bertone e Bagnasco e dall’“Osservatore Romano”. La Chiesa, o almeno la sua gerarchia, lo vorrebbe alla guida dell’Italia per i prossimi cinque anni.
Quindi centrismo e una spolverata cattolica. Era salito in politica domenica ma già da martedì stava scendendo per mettersi alla testa di una parte. Si era alzato dalla panchina dove, secondo l’opinione del Capo dello Stato, avrebbe dovuto restare fino a dopo le elezioni, pronto a dare soltanto allora, a chi glielo chiedesse avendone acquisito il titolo elettorale, il contributo della sua competenza e della sua autorevolezza.
Invece non è stato così. Restano naturalmente da definire ancora parecchie questioni: «Per l’agenda Monti» oppure «Per Monti» o addirittura «Monti presidente »? Su questi punti si discute ancora ma si tratta di dettagli. Intanto il commissario Bondi che finora si era dedicato con efficacia alla revisione della “spending review” si sarebbe impegnato al controllo delle nuove candidature per quanto riguarda i redditi, il patrimonio e gli eventuali conflitti di interesse.
Con il fronte berlusconiano la rottura politica è stata completa e definitiva. Questo è un fatto certamente positivo. Bersani è definito invece affidabile ma la Camusso e Vendola sono considerati più o meno bolscevichi. Casini e Fini sono appendici interessanti ma ovviamente subalterne, aderiscono ma è lui a dettare le condizioni. Benissimo il Vaticano purché senza ingerenze. Ovviamente. Del resto il Vaticano non ne ha mai fatte, neppure ai tempi di Fanfani, di Moro, di Andreotti. Ha sempre e soltanto suggerito su questioni concrete e specifiche. La prassi è sempre stata la buona accoglienza del suggerimento. Con Berlusconi poi non ci fu nemmeno bisogno di suggerire: lui giocava d’anticipo. Gli bastava un monosillabo o addirittura un mugolio, tradotto da Gianni Letta. Perciò adesso si sente tradito e forse tra poco si dichiarerà anticlericale.
Da venerdì scorso comunque Mario Monti è a capo della coalizione centrista. La panchina è vuota, perfino i palazzi del governo sono semivuoti, eppure nei 60 giorni che mancano alle elezioni ce ne sarebbero di cose da fare, di provvedimenti già approvati ma privi di regolamentazione, di pratiche da portare avanti, per quanto mi risulta in ufficio c’è rimasto soltanto Fabrizio Barca, ministro della Coesione territoriale. Lui ha idee di sinistra, quella buona per capirci, non quella di Ingroia dove si parla solo della rivoluzione guidata dalle Procure e dell’agenda di Marco Travaglio.
Perfino il commissario Bondi ha smesso di occuparsi di “spending review” per il nuovo compito sulla formazione delle liste. Lo fa nel tempo libero o in quello d’ufficio? Ecco una domanda alla quale si vorrebbe una risposta. **** Sono andato a controllare l’agenda Bersani. Sì, c’è anche un’agenda Bersani che senza strepito è da tempo disponibile a chi vuole conoscere i programmi dei partiti. Ce ne sono pochi in giro di partiti che non siano proprietà d’una sola persona. Anzi non ce ne è nessuno tranne il Pd. Dispiace, ma questa è la pura realtà.
L’agenda Bersani dice questo: 1. Mantenere gli impegni presi con l’Europa in tema di rigore dei conti pubblici e di pareggio del bilancio.
2. Tagliare la spesa corrente negli sprechi ma anche nelle destinazioni non prioritarie.
3. Destinare il denaro recuperato per diminuire il cuneo fiscale e le imposte sui lavoratori e sulle imprese.
4. Aumentare la lotta all’evasione e la tracciabilità
necessaria.
5 Completare la legge sulla corruzione (il testo è già stato presentato in Parlamento).
6. Ripristinare il falso in bilancio.
7. Varare una legge sui conflitti di interesse e sull’ineleggibilità.
8. Adempiere agli obblighi assunti con l’Europa anche per quanto riguarda equità, occupazione, sviluppo, ancora fermi al palo.
9. Destinare le risorse disponibili alla scuola e alla ricerca, come proposto dal bolscevico Nichi Vendola e già realizzato in Francia da Hollande (che però bolscevico non è).
10. Cambiare il welfare esistente e non più idoneo con un welfare moderno e comprensivo di salario sociale minimo per i disoccupati.
11. Tagliare drasticamente i costi della politica, le Province, la burocrazia delle Regioni, privilegiando i Comuni e avviando i lavori pubblici territoriali finanziandoli con i fondi derivanti dal ricavato dell’Imu.
12. Diminuire il numero dei parlamentari come si doveva fare in questa legislatura e non si fece per l’opposizione
del Pdl.
13. Rifare la legge elettorale basandola su collegi uninominali a doppio turno. **** Tra l’agenda Bersani e quella Monti non vedo grandi differenze, anzi non ne vedo quasi nessuna salvo forse alcune diverse priorità e un diverso approccio alla ridistribuzione del reddito e alle regole d’ingresso e di permanenza nel lavoro dei precari. E salvo che l’agenda Bersani è stata formulata prima di quella Monti e in alcune parti avrebbe potuto utilizzarla anche l’attuale governo se avesse posto la fiducia su quei provvedimenti.
Conclusione: non esiste né un’agenda Bersani né un’agenda Monti. Esiste un’agenda Italia che dovrebbe essere valida per tutte le forze responsabili e democratiche. Non è certo l’agenda di Berlusconi, né di Grillo, né della Lega, né di Ingroia.
L’agenda Italia – è utile ricordarlo – è un tassello dell’agenda Europa ed è realizzabile soltanto nel quadro di un’Europa federata che tutti dobbiamo avere a cuore e costruire. Chi voterà l’agenda Italia può affidarne la guida a forze liberal-moderate o a forze liberal-socialiste.
Vinca il migliore ma nomini vicepresidente del Consiglio Roberto Benigni con delega alla Costituzione. Scrivetelo nelle vostre agende, sarebbe una magnifica innovazione.Una nuova Democrazia cristiana no, per favore. Noi vecchi (parlo per la mia generazione) abbiamo già dato. Quanto ai giovani, non è più l’epoca delle Madonne pellegrine.
Post scriptum.
I professori Giavazzi e Alesina, delle cui conoscenze economiche ho una riluttante stima, hanno scritto venerdì scorso sul “Corriere della Sera” che il solo modo per tagliare quanto è necessario la spesa corrente dello Stato è il restringimento delle sfere di competenza dello Stato medesimo. Ordine pubblico, giustizia, Difesa, scuola (in parte), assistenza ai vecchi e agli ammalati poveri. Solo restringendo il perimetro pubblico e parapubblico diminuirà la spesa. L’obiettivo è 40 miliardi. Come reimpiegarli si vedrà dopo.
Queste proposte (ultrabocconiane) si dice siano ben viste anche da Mario Draghi. Io non ci credo ma non ho notizie in proposito.
Si tratta di vecchi temi del liberismo classico; del resto i proponenti lo sanno benissimo, sono esperti di storia economica. Si tratta di rimettere indietro le sfere dell’orologio risalendo all’epoca gloriosa di Cobden e della lega di Manchester, quando si abolì il dazio sul grano per favorire la nascita dell’industria tessile. Di mezzo ci sono stati quasi duecento anni di storia del capitalismo e della democrazia. Ma meritano comunque considerazione. Anche Berlusconi diceva e dice «Meno stato, più mercato». Poi ha fatto il contrario.
Ma venendo al serio: da trent’anni il grosso delle imprese italiane ha destinato i profitti o a dividendo per gli azionisti o per investimenti finanziari e speculativi. Pochissimo a investimenti nelle aziende per modernizzarne l’offerta e allargare la base occupazionale. Se si vuol restringere la base operativa dello Stato occorre come preliminare che gli imprenditori tornino ad investire nelle aziende, altrimenti non ci sarà più manifattura né nell’industria né in agricoltura. Torneremo ai pascoli. Credetemi, non è un obiettivo degno di due bocconiani.
La Repubblica 30.12.12

“Crisi, l’edilizia accusa il colpo”, di Felicia Masocco

Manca una manciata di ore alle fine dell’anno e tra i bilanci che si possono trarre quello sull’emorragia di posti di lavoro è probabilmente il più pesante. La Cgia di Mestre stima che nel 2012 si conteranno 609.500 disoccupati in più che portano il totale a 2.717.500, pari a un tasso di disoccupazione del 10,6%. Quanto all’anno venturo il pronostico è di circa 3 milioni di disoccupati e un tasso all’11,5%. Non sono buone notizie. Del resto senza ripresa per vederne un barlume si dovrà aspettare la fine del 2013 è difficile immaginare livelli migliori di occupazione.
IL CASO DELLE COSTRUZIONI Nell’edilizia, ad esempio, una distanza siderale divide i dati attuali da quelli pre-crisi. Anche nell’Italia del mattone, le costruzioni vivono una crisi fortissima. Il segretario generale della Fillea-Cgil, Walter Schiavella, la definisce uno «tsunami» che dal 2008 ad oggi ha spazzato via 360mila posti di lavoro, che salgono a più mezzo milione se la base si allarga ai settori collegati come la produzione di materiali per le costruzioni, l’industria del legno e dell’arredo, i lapidei. Per diciannove trimestri consecutivi si è visto il segno meno, è la crisi più pesante dal dopoguerra per il settore più anticiclico che ci sia, quello cioè che tende a frenare gli effetti di una determinata congiuntura. «Abbiamo perso il 30% della produzione ed il 40% degli investimenti pubblici, tra il 2008 ed il 2010 il crollo del fatturato complessivo è stato di oltre il 16% argomenta Schiavella Abbiamo 60mila imprese fallite e nell’edilizia in senso stretto si registra una caduta verticale di tutti gli indicatori a cominciare dalla perdita di 2 miliardi di massa salariale». Per Schiavella a questa situazione si è arrivati per il combinato di due fattori: «Uno congiunturale provocato dalla bolla immobiliare del 2008, e uno strutturale, ovvero la crisi di un modello industriale obsoleto che non ha saputo capitalizzare gli anni di crescita per rafforzare la qualità delle imprese, sia in dimensione che in investimenti finalizzati alla ricerca e all’innovazione dei materiali e delle filiere». Gli ultimi dati dell’edilizia provenienti dalle Casse edili dimostrano che rispetto al 2008 c’è stato un calo del 31% degli addetti, del 35% delle ore lavorate e del 25% della massa salari. Dati che al Sud raggiungono punte massime, con il primato negativo di Sassari, dove si registra -47% di ore lavorate e addetti e -39% di massa salari. Segue Taranto, con -47% di ore, -35% addetti e -38% massa salari, poi Salerno con -41% ore, -38% operai e -31% massa salari. «Non sono dati di una semplice crisi ma, se non si interviene immediatamente, di un tracollo sistemico». All’allarme del sindacalista fa eco quello speculare dei costruttori. «La situazione è drammatica», afferma il presidente dell’Ance Paolo Buzzetti che sintetizza la perdita di occupazione dal 2008 ad oggi in 72 Ilva di Taranto, o 450 Alcoa, oppure in 277 Termini Imerese. Come dire, non c’è solo l’industria. Secondo i calcoli dell’Ance, il Paese ha ancora bisogno di immobili: a fronte di un fabbisogno potenziale di 600mila abitazioni, nel primo semestre 2012 le compravendite sono calate del 24%. Escluso il rischio di una bolla immobiliare, «resta l’incertezza estrema che scoraggia e rinvia le decisioni di investimento delle famiglie, per le difficili prospettive del mercato del lavoro e per la flessione del reddito disponibile». Le imprese delle costruzioni hanno così rivisto al ribasso le stime del 2012 e le previsioni per il 2013. Secondo l’indagine congiunturale Ance di dicembre, gli investimenti fletteranno del 7,6% contro il -6% pronosticato a giugno, e un ulteriore calo del 3,8% è previsto per il 2013.
L’Unità 30.12.12

“La morte della morte”, di Marco Neirotti

Più di cento donne ammazzate in un anno, spesso dopo lungo stalking. Uomini inseguiti e massacrati per uno sberleffo, un insulto, una prepotenza alla guida o per uno stupido furto. Gli assassini d’impeto o covati fanno vittime quanto e più del crimine organizzato. Dietro a tutto ciò – salva la fantasia di un parroco che riesce a immaginare provocanti le vittime stremate da una persecuzione – c’è un senso della morte sfumato dalla sacralità alla banalità, dalla scelta estrema al facile colpo di spugna che spazza via disegni o scritte su una lavagna che non si è capaci di sopportare.
Sono fondamentali le considerazioni sul massacro di donne – talora amate in modo malato e ossessivo – ma non si deve trascurare l’origine più profonda del gesto omicida in generale in questa epoca: lo svuotamento dell’idea di morte, strumento risolutivo con impressionante leggerezza di qualunque fatica metta a repentaglio l’egoistica quiete, più che un’improbabile serenità, del vivere. La morte è per molti orfana della sacralità che emanava, del mistero che la contornava e ne accentuava la percezione. Vediamo uccidere e poi costituirsi senza pensiero di pena per la vittima (talora è rancore, lacrime che gridano: ecco dove mi hai portato), senza pentimento né tormento, indifferenza per il carcere, spossatezza dopo l’annientamento dell’ossessione. È successo tutto come se fosse stata la lettura di un libro fino al capitolo che mette paura e orrore, mette alla prova la capacità di reggere e misurarsi: allora, anziché passare oltre, scivolare a un altro capitolo, si butta, si calpesta, si brucia l’intero libro.
Se qualcosa è rimasto immutato nell’uccidere quel qualcosa sta di casa nel crimine organizzato, dove l’assassinio è strumento di lavoro, mezzo per garantirsi il predominio, punire tradimenti o sgarri. Una cosa soltanto è cambiata, si è «affinata», quando alla regola che rispettava donne e bambini si è sostituita una logica appresa dal terrorismo: tremate tutti, non ci fermiamo di fronte a nulla, nulla ci fa paura. In realtà una paura forte la provano: paura della cultura della legalità e della cultura in genere, da qui l’odio per i Luigi Ciotti, i Roberto Saviano.
La cultura è sparita dalla morte nel quotidiano, maneggiata come straccio sulla lavagna, gesto del bimbo che si copre gli occhi «e non esiste più il pericolo», dito ansioso sul telecomando per mutare il film spiacevole dentro cui si vive, come Peter Sellers in «Oltre il giardino». L’omicidio ha sostituito con agghiacciante naturalezza la spallata, la scazzottata di un tempo. Lo sciagurato che si sentiva deriso al bar per le intemperanze della moglie ristabiliva l’onore di lei e la dignità propria riempiendo di botte l’incauto davanti a tutti. Oggi tace, va a casa, prende la pistola, torna con quel «telecomando» in tasca, e spara: con l’uomo che offendeva il proiettile cancella magicamente anche le corna. Il problema non c’è più. Ne verrà un altro, d’accordo, con processo, carcere, ma è un libro nuovo, intonso, senza gravami assillanti.
Fragili personalità sono sempre meno attrezzate ad affrontare avversità, accettare sconfitte: ciò che un tempo era delusione, amarezza, oggi è ira e rancore,se sto male la colpa non può che essere degli altri. Mia moglie non mi vuole più perché bevo e sono violento, ma è colpa sua se bevo e sono violento, la odio ma è mia, quindi cancello tutto, la pistola come il tasto reset. In questa lievità dell’ammazzare giocano spesso un ruolo alcol, anfetamine, cocaina, con i cervelli sfrangiati dalla polvere e consegnati alla perdita di controllo e all’onnipotenza.
Alla morte senza sentimento ci si è abituati perché è ovunque senza orpelli né timidezze, è nel film d’azione o nel thriller, è nel continuo rimestare la cronaca nella tv d’intrattenimento, è spettacolo del pomeriggio tra un monologo di leader di partito e lo sguardo azzurro di zio Misseri, è nella sbrigativa criminologia da teleschermo e nella passione morbosa per gli «scavi» dei medici legali . È una sfilata di routine su YouTube, dove si può ammirare un pestaggio o la spinta che lancia una vita sui binari della metro. La morte ha perso rispetto a ogni livello, anche nelle più alte istituzioni. Di fronte al corpo di Eluana Englaro, ridotto a un interminabile inverno dal coma vegetativo, di fronte a una morte scontata per anni, non un ciarlone da bar ma l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi non riuscì a trovare altro aggancio alla vita se non quello sessuale: «Mi dicono i medici che può perfino restare incinta».
La società è spaccata in due. Di qua la vulnerabilità di anziani e malati e di quanti – medici, paramedici, volontari, parenti, sacerdoti – hanno a che fare giorno su giorno con il transito alla morte, dove ogni addio è unico, carico di dolori e fatiche, speranze e pace. Di là gli altri, per i quali reale e virtuale sono amalgamati, dove l’assassinio guardato e riguardato in Internet è insieme cronaca e spettacolo, sorpresa e routine, emozione e assuefazione. Nelle case contadine russe, racconta la letteratura, i bambini giocavano nell’unico stanzone, dove la mamma cucinava, e ogni tanto andavano al centro di esso per dare una carezza al nonno che stava passando a miglior vita. Non era assuefazione, era «conoscenza» che accendeva rispetto.
Sempre meno si apprende il senso della vita e della morte – e del passaggio dall’una all’altra – dal dialogo con narrativa, musica, arte oltre che dai lutti. La morte della Morte sta avvenendo per inedia: prosciugata di cultura, mistero e significati.
La Stampa 30.12.12

“Don Chisciotte e Sancho Panza”, di Francesco Merlo

I capelli imbiancati su un viso da ragazzo come un Gianni Morandi senza tinture, finto vecchio e finto giovane come i lesti gregari delle favole che sono i complici-registi di tutti i draghi e di tutti i nostri animalitotem: la Balena, il Caimano e Monti, che è ancora in cerca di zoologia ma è forse l’Ippogrifo, il cavallo alato che riportò il senno all’Orlando, furioso come l’Italia.
Di sicuro, Casini ritrova con Monti quel Forlani che fu il suo “miglior fabbro”, il solo maestro che non ha mai tradito, il galantuomo gommoso, il coniglio mannaro della Dc. Monti somiglia a Forlani persino fisicamente, la stessa figura sobria, un elegante corpo senza fatica da Signor Veneranda, garbato e puntuto anche nel linguaggio doroteo che fu inventato appunto da Forlani: «Potrei andare avanti per ore» ironizzava di sé. Certo Monti è un “Forlani international” con le competenze di economia che nella vecchia Dc erano limitate al parastato. Casini comunque è abituato a riverire e a imbrigliare questa antropologia sin dai tempi in cui a me, cronista ancora giovane, diceva «guarda cosa farò dire questa sera in tv a Forlani» che era allora il segretario della Dc, vale a dire l’uomo più potente d’Italia, e però con Casini che lo serviva da segretario non si capiva chi tra loro due era il Segretario e chi il segretario del Segretario.
E difatti con la Balena, Pierferdinando esordì non come comparsa nascosta tra le quinte, ma come attor giovane subito alla ribalta. Poi venne appunto il Caimano, con cui Casini si traghettò dal disastro di Tangentopoli al “Polo del buon governo”, diventando accanto a Berlusconi e a Fini una delle punte del famoso, sciagurato Tridente. E ora tocca a Monti che i giornali della destra raccontano come l’ambizioso ma ingenuo leader nelle mani appunto del puparo, del Casini stratega, del servo-padrone: «Monti si candida a vice di Casini» è il titolone di prima pagina di Libero di ieri.
Ed è però una semplificazione perché la dialettica tra il Sancho Panza Casini e il Monti Don Chisciotte è molto più complessa ed è appena all’inizio, anche se tutto si concluderà in pochissimi mesi. Caricato di crisma e carisma, Monti-Chisciotte ascende al rango della Cavalleria, cioè della Politica, per riparare i torti che essa ha subito e restituirle l’onore, cacciare la casta dal tempio, sconfiggere il debito e lo spread, erigere fortezze alla virtù. Sancho-Casini non lo contraddice mai: «Siamo da sempre i più leali con lui», «Rispetteremo le sue decisioni quali che siano», «Sceglieremo noi i nostri candidati ma ci sottoporremo volentieri all’esame di Bondi», il fedele tagliatore di teste di Monti che anche per Casini farà il lavoro sporco, e solo in un romanzo italiano poteva chiamarsi Bondi come il Sandro fedele a Berlusconi.
Come il Sancho di Cervantes, Casini è dunque il servitore interessato non perché servendolo lo domina, ma perché solo così può sognarsi re di un’isola e intanto lucrare voti come nel romanzo ruba banchetti
e donzelle. L’Udc era infatti ridotto a una miseria proprio come il raccolto andato a male del contadino Sancho prima dell’incontro con “il cavaliere dalla trista figura”. E anche Casini è emerso dal sottoscala dell’irrilevanza: tutti gli altri uomini che, alla sua destra o alla sua sinistra, condivisero il suo passato sono ormai senza futuro, pensionati e dimenticati.
E invece Casini ieri mattina, con una conferenza stampa al galoppo, ha di nuovo esibito il piglio del leader, e finalmente da socio di maggioranza di una coalizione dove la fa padrone: «Viaggiava Sancho Panza sopra il suo asino come un patriarca, colle bisacce in groppa e la borraccia all’arcione, e con un gran desiderio di diventare governatore dell’isola che il padrone gli aveva promesso». E aspetta che Monti-Chisciotte sbatta la testa sulla dura realtà, non gli dice che i giganti sono le pale di un mulino e che la sua Dulcinea, il Centro «a vocazione maggioritaria» cui dedica la tenzone cortese, è in realtà una meretrice, fatta con il Fli di Fini, l’Italia Futura di Montezemolo, l’Udc di Cesa e Buttiglione.
Corrado Passera, che ha visto Casini all’opera, non in un agguato ma in un vero confronto politico, ha percepito il ritorno di uno stile. E ieri mattina infatti un dettaglio ha rivelato la scuola di Casini, il getto vegetale d’antica pianta: «Una lite con Passera? Mi viene da ridere». Solo Casini poteva pubblicamente chiamare «amico» e «grande amico» l’uomo che aveva appena costretto alla resa, come nelle sceneggiature sciasciane, in Todo Modo, dove la carezza è sentenza.
Non è ancora il ritorno alla dissimulazione onesta del potere spietato e rispettoso delle forme, ma sono molti i rimandi all’antico galateo del diavolo che in Casini ha pure quella famosa benedizione vaticana che tradotta in vulgata plebea suona così: «Amare Dio e fregare il prossimo». Casini, che ha avuto una vita sentimentale moderna e disordinata e dunque peccatrice, è anche portatore di un conflitto di interessi meno pacchiano e meno cospicuo di quello di Berlusconi, ma ancora importante. Ha infatti sposato con la signora Azzurra anche i giornali e il mattone di Francesco Gaetano Caltagirone.
Rassegnatosi da tempo alla fine della Dc, Casini vuole diventare l’ago della bilancia grazie a Monti e ai voti ottenuti con la moltiplicazione delle liste che si chiamano appunto “liste a strascico”, e non illustrano una strategia gollista ma solo il trucco dei trafficanti di Porcellum. Monti invece si sentirebbe sconfitto se i risultati elettorali dimostrassero che, nell’universo che ha aperto il suo perimetro, nella politica che si affida alla testa e alle gambe, non si tornerà mai più all’ombelico, alla cicatrice natale, al punto mediano dove tutto l’ingorgo politico va a defluire. Povero Monti se un giorno scoprisse di avere fatto tutto questo per permettere a Casini di diventare l’ago della bilancia, per consentire a Pierferdinando la colpevole ma simpatica inadeguatezza di rimirarsi e rimuginarsi l’ombelico.
La Repubblica 30.12.12

“Una memoria per i Talkshow”, di Giovanni Valentini

Era attaccato da ogni parte, eppure non si rendeva pienamente conto di quanto fosse odiato, ripudiato da tutti. (da “La preda” di IrèneNémirovsky Adelphi, 2012 – pag. 111). In vista delle politiche del 2006, in un articolo pubblicato qui il 28 gennaio, lanciammo l’idea di mettere un timer ai duelli in tv, per regolare i “faccia a faccia” televisivi e disciplinare l’incontenibile tendenza logorroica di Silvio Berlusconi nei dibattiti pre-elettorali. Fu un esperimento riuscito. Costretto a rispettare i tempi scanditi dal cronometro e controllati da un conduttore-arbitro, come si usava – del resto – anche all’epoca delle vecchie “Tribune politiche” con i giornalisti che ponevano domande e i leader politici che rispondevano, il piazzista di Arcore fu contenuto nei limiti di un confronto più composto e civile.
Alla testa di un’eterogenea coalizione sostenuta dall’intera sinistra parlamentare, alla fine Romano Prodi riuscì a vincere le elezioni, seppure per un pugno di voti. E poi, con il governo di cui faceva parte Tommaso Padoa-Schioppa come ministro dell’Economia e delle Finanze, ridusse del 40% l’Ici sulla prima casa (tranne quelle di lusso) e l’eliminò completamente per i più indigenti, conciliando ragionevolmente le esigenze del bilancio pubblico con quelle private delle famiglie.
Due anni dopo, il
coup de théâtre.
Il Grande Imbonitore chiuse in tv la campagna elettorale con il trucco finale dell’abolizione dell’Ici, tornando così trionfalmente al governo nel 2008. E quello fu purtroppo l’inizio dei nostri guai più recenti, perché provocò un ulteriore “buco” nei conti dello Stato di cui paghiamo ancor oggi le conseguenze.
Adesso ci risiamo. Il Cavaliere ridiscende in campo promettendo a reti unificate l’abolizione dell’odiata Imu, aggravata dalla rivalutazione delle rendite catastali e ancor più dalla facoltà attribuita ai Comuni di stabilire le aliquote locali secondo le proprie necessità, in base al provvedimento originario sul “federalismo fiscale” introdotto dall’ex ministro leghista Roberto Calderoli: sì, proprio lui, l’artefice di quella immonda legge elettorale denominata non a caso “Porcellum” che ha confiscato agli italiani il diritto di scegliere i deputati e i senatori, assegnando per di più a una minoranza elettorale il “maxipremio” di una maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. E quella resta comunque una “porcata”, anche se la prossima volta dovesse funzionare a favore del centrosinistra.
Il caso dell’Ici o dell’Imu è un test concreto e lampante di come la propaganda elettorale possa influenzare direttamente il responso elettorale. Evidentemente, a nessuno di noi fa piacere pagare le tasse. Ma se un capo-polo, populista e demagogo di professione, si presenta in televisione senza avere di fronte un interlocutore politico e promette impunemente che quelle sulla casa verranno abrogate, magari farneticando di nuove imposte sul gioco d’azzardo o su altri vizi da bunga-bunga, carpisce la buona fede degli spettatori: la gente che assiste al numero di prestigio può cadere facilmente nel tranello e credere all’illusionismo. E questo vale anche per chi, come Beppe Grillo, che infatti ripudia la tv, propone attraverso la Rete un referendum popolare su un’impraticabile uscita dall’euro, occultando i contraccolpi e le conseguenze che ciò potrebbe avere sul nostro sistema economico: a cominciare dalla svalutazione della moneta nazionale e perfino del nostro patrimonio immobiliare.
Ecco perché occorre, nell’interesse generale, che i confronti elettorali televisivi garantiscano effettivamente il pluralismo e il contraddittorio. Altrimenti, rischiano fatalmente di trasformarsi in una conversazione più o meno salottiera o in una chiacchierata al bar. E per questa stessa ragione, sarebbe opportuno che – fra tanti programmi d’intrattenimento o di varietà – una rete indipendente introducesse magari una “moviola” per i talkshow, in modo da verificare “ex post” la fondatezza e la veridicità di tutto quello che viene detto, alterato o distorto.
Non possiamo continuare ad ascoltare in televisione “falsità e menzogne”, come direbbe Berlusconi, né da parte sua né da parte di nessun altro: per esempio, l’ex sottosegretaria alla Giustizia Jole Santelli del Pdl, quando proclama a “Otto e mezzo” che Roberto Benigni ha presentato la Costituzione come “un accordo fra cattolici e comunisti”, mentre milioni di persone l’hanno sentito citare anche i socialisti, i liberali, i repubblicani e perfino gli azionisti. Una “moviola” per i talkshow, dunque, per scoprire e denunciare i cosiddetti “falli tattici”, secondo un discutibile gergo calcistico, quelli da ammonizione o da espulsione e soprattutto quelli da squalifica.
La Repubblica 29.12.12

Sono poche le voci di maschi e di credenti”, di Suor Rita Giarretta*

In veste di responsabile di “Casa Rut”, – Centro di accoglienza per donne vittime di tratta, di abusi e di violenze – sento il bisogno di esprimere tutta la mia indignazione di fronte al gesto «inquietante», e oserei dire «violento» compiuto dal parroco di San Terenzo (La Spezia), don Piero Corsi, con l’affissione in Chiesa del volantino in cui è riportato un editoriale del sito Pontifex dal titolo «Le donne e il femminicidio, facciano sana autocritica. Quante volte provocano!».
Ancora si ricade in quella vecchia mentalità, che purtroppo a troppi maschi ancora piace e soddisfa, che vede nella donna o la moglie sottomessa, o la prostituta, o ancor peggio la tentatrice.
Quanto siamo lontani, a livello culturale e comportamentale, dal riconoscere, rispettare e valorizzare appieno la dignità della donna, da parte del mondo maschile (compresi i sacerdoti).
Se si pensa a tutte le donne uccise in quest’anno per mano di mariti, compagni e fidanzati, c’è non solo da rabbrividire ma da riflettere seriamente.
Mi piace qui riportare quanto detto in una nostra «lettera aperta» del 27 gennaio 2011 – che ha avuto risonanza nazionale, nella quale all’Erode di turno – incarnato dall’allora primo ministro e capo di governo – come donne, come cittadine e come religiose, avevamo gridato il nostro «non ti è lecito». Nella lettera dicevo: «Ma davanti a questo spettacolo una domanda mi rode dentro: dove sono gli uomini, dove sono i maschi? Poche sono le loro voci, anche dei credenti, che si alzano chiare e forti. Nei loro silenzi c’è ancora troppa omertà, nascosta compiacenza e forse sottile invidia. Credo che dentro questo mondo maschile, dove le relazioni e i rapporti sono spesso esercitati nel segno del potere, c’è un grande bisogno di liberazione».
*Responsabile di Casa Rut Centro di accoglienza per donne vittime di tratta, di abusi e di violenze
L’Unità 29.12.12
******
Donne e uomini, fiaccole contro il femminicidio
Dopo le parole di don Corsi, credenti e non si affollano per ricordare le vittime e per «scacciare i demoni dell’ignoranza», di Federico Ferrero
Fammi vedere: hai la minigonna? «Puoi dirlo, è sotto il giubbotto. Ma me lo tolgo là». I due chilometri scarsi di passeggiata sul mare, rosso di sole, da Lerici a San Terenzo brulicano di ragazzi che fumano in branco. Ogni trecento metri, un venditore di paccottiglia estiva di risulta: elefanti, collane, palle di vetro. Il clima è autunnale, invitante. E ci sono le donne in marcia, dai bar della piazzetta sul porticciolo al luogo convenuto, quelle che il parroco don Piero Corsi giudica corresponsabili dei femminicidi perché, detta con le parole di un pensatore del sito pontifex.it, se la vanno a cercare mostrandosi in pubblico in abiti discinti. «Uno così è un disturbato», dice all’amica anzianotta la signora che è già arrivata a destinazione e mostra con fierezza il cartello a memoria del Quinto Comandamento, appeso sul cappottone pellicciato. Il marito, con l’altro, parla di calcio. Prima dell’ultima curva è piantato il paletto della frazione: San Terenzo, città per la pace, portata in cronaca da «una vicenda grave e triste», come l’ha definita ieri il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco.
Sui fortini arroccati, su in alto, luccicano ancora i led natalizi a basso consumo e il benvenuto suona un po’ come una presa in giro, oggi che le donne liguri hanno rotto il patto di non belligeranza contro il sacerdote retrogrado e nemico dell’altro sesso. Anche le credenti come Susanna, che negano l’esistenza di una crociata ad personam: «Io in Chiesa ci vado e continuo ad andarci. Non ce l’abbiamo con nessuno, siamo qui per testimoniare la nostra condizione ancora pericolante, nonostante millenni di civiltà». In fondo ha ragione: il don maligno, quello che non si è pentito di aver ricordato alle signore che il loro compito è quello di badare al focolare e che, se indulgono in atteggiamenti vezzosi, non possono poi lamentarsi di stupri e coltellate, viene nominato appena due volte in un’ora e passa di discorsi amplificati dalle casse di un gazebo sulla sabbia. Nessuno lo addita come mostro da appendere per i piedi davanti alla sua chiesa, intitolata a Maria e beffardamente restaurata, rammenta una placca, col contributo di un filantropo in onore alla mamma.
L’appuntamento è in spiaggia, all’ombra del campanile. In mattinata hanno provveduto a strappare le fotografie appiccicate da un buontempone nella bacheca dello scandalo: chi le ha viste racconta che erano immagini artistiche del calendario Pirelli, o giù di lì.
Ne sono rimasti due, di avvisi: uno domanda al prete cosa mai abbiano fatto i bambini, pure loro, per «cercarsela». L’altro è scritto a pennarello su una T-shirt: «Il sonno della ragione genera (don)Corsi». Di sicuro, per un bel pezzo, è prudente che don Piero non metta mano a quella lavagna con le puntine, convertita per qualche giorno a zona franca e laica su parete sacra. Susanna e le sue sodali hanno attaccato un mantra, che per ritornello invita la Chiesa a scacciare «i demoni dell’ignoranza». La stessa Chiesa, scandisce una relatrice, «che avalla la lotta ai preservativi e benedice le maternità coatte».
Lorella Zanardi, leader storica del Corpo delle donne, non si è fatta la pianura Padana per prendersela col parroco di provincia; vorrebbe bandire la cultura delle riviste femminili che propongono la donna come oggetto in esposizione e, magari, in vendita. Lo dice ai microfoni di una televisione commerciale. L’accusa, che da una vita e mezza non ha colpevoli perché, si dice, è la gente a volere ciò che si vede, non era nuova neanche negli anni della censura Rai, mamma evocata come matrigna responsabile della mercificazione muliebre.
Non era una scelta comoda, quella dell’amministrazione comunale, ma il sindaco Caluri l’aveva già fatta evitando di lesinare la sua indignazione contro quell’iniziativa scellerata del parroco (di cui, in paese, alcuni raccontano i trascorsi da incursore della Marina). Ieri, in spiaggia, a leggere il comunicato di solidarietà della giunta cittadina c’era un assessore. Donna. Che ha ricordato due donne, una nonna e una bambina, uccise dieci anni fa a Lerici dal «retaggio maschilista» di una cultura che dà all’uomo potere di vita e di morte.
C’è più gente del previsto, e le signore di Se non ora quando non si aspettavano tanto successo. Verso l’abitato si forma un capannello più consistente, e mentre dal microfono risuonano parole di disgusto – mai di astio – contro il signor Volpe, autore dei testi meritevoli di elogio per don Corsi, c’è chi rilegge le parole di Giovanni Paolo II, quando stigmatizzava gli uomini di Chiesa che attizzano il fuoco dei soprusi. Mamme e figliole reggono candele e la rappresentante della Cgil di La Spezia legge un intervento della Camusso: «Come si fa a parlare di voto di castità se poi si ammette che l’uomo non può resistere agli istinti?». Applausi.
Alla fine, prima di leggere i nomi delle 122 donne uccise per mano di uomini che considerano le compagne oggetto di diritti reali, si osserva un minuto di silenzio, interrotto a neanche trenta secondi, come insegna la tradizione italiana. A distanza da imbarazzo, il sagrato della chiesa. La messa è iniziata. Il celebrante dà le spalle ai fedeli, come da liturgia classica. Ma non è don Corsi. Forse è il concelebrante, ma resta defilato. Un gruppetto si stacca dalla fiaccolata in via di scioglimento e si ferma proprio là davanti. C’è una telecamera di sorveglianza appesa sulla soglia. Nessuno urla, nessuno si agita. Un ragazzo con le mani in tasca, come davanti a un acquario, osserva la funzione: «Si scambiano un segno di pace, toh. Guardali, che carini». Un cameraman lo sente e gli chiede di ripetere la battuta col faro acceso. Dall’altra parte della stradina il barista fa spuntare fuori la testa. Prima di ritrarla, dà il tempo per far sentire anche la sua: «Bello. Ci siamo fatti prendere per il culo da mezza Italia».
L’Unità 29.12.12

“La sfida delle primarie Pd-Sel”, di Virginia Lori

Oggi e domani il Pd e Sel apriranno le porte dei circoli per dare il via alle primarie per l’elezione dei parlamentari. Si vota dalle ore 8, e fino alle 21, oggi in Abruzzo, Alto Adige, Calabria, Campania, Liguria, Lombardia, Molise, Piemonte e Umbria. Domani toccherà a Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Marche, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana, Trentino, Veneto.
COME SI VOTA
I seggi allestiti, fa sapere il Pd, saranno oltre 6000, grazie al lavoro di più di 50mila volontari, e anche in questa occasione sarà richiesta una sottoscrizione di almeno due euro per sostenere le spese della campagna elettorale. Potranno votare (per i parlamentari Pd) tutti gli iscritti del 2011 che abbiano rinnovato la tessera entro il giorno del voto; coloro che hanno votato alle primarie per il candidato premier del centrosinistra dello scorso 25 novembre e che sottoscrivano l’appello come elettori del Pd. Sarà possibile esprimere due preferenze, una a favore di una donna e l’altra a favore di un uomo, nel caso in cui le due preferenze fossero a favore di candidati dello stesso sesso, la seconda nell’ordine sarà considerata nulla. Saranno considerate invece valide, conseguentemente, le schede con una sola preferenza.
L’affluenza e i risultati dello spoglio e cioè il numero dei votanti e le graduatorie dei consensi saranno trasmessi dalle direzioni provinciali una volta espletate tutte le formalità e i conteggi al sito www. primarieparlamentaripd.it., ma stavolta bisognerà aspettare un po’ di più rispetto al risultato delle primarie della leadership. La composizione delle liste, infatti, dovrà tenere conto della parità di genere e quindi aver preso più voti in una provincia non garantisce automaticamente il posizionamento di eleggibilità in lista. L’ufficializzazione di tutte le liste Pd avverrà comunque l’8 gennaio, in occasione della direzione nazionale convocata ad hoc.
NESSUN SALVAGENTE
E intanto Nico Stumpo, responsabile Organizzazione dei democratici puntualizza: «Il Pd rispetterà l’esito delle primarie per i parlamentari e il voto democratico dei cittadini». Vale a dire: chi perde le primarie «non verrà recuperato nel listino bloccato. Faccio parte di un partito e di un gruppo dirigente dotato di un abbondante buon senso e sarebbe ben strano che chi è arrivato sotto altri che hanno vinto, poi si trovi sopra. Quando si fa una competizione se ne deve rispettare l’esito. Non si può certo giocare con il voto democratico dei cittadini». E sarà per una forma scaramantica, così come non si era espresso alle primarie del 25 novembre, anche stavolta nessuna previsione sull’affluenza. «Saranno un grande successo», prevede Stumpo.
Di primarie torna a parlare anche il sindaco di Firenze Matteo Renzi: quelle per la scelta del candidato premier del centrosinistra non sono «una partita conclusa in cui ci sono stati vincenti e perdenti. Tutti siamo usciti cambiati». Renzi scrive che si è vissuta «una stagione straordinaria. Le primarie sono state una grande occasione di incontro, di affermazione di idee, di apertura a nuove e coinvolgenti elaborazioni». Per il sindaco «i cittadini, oltre un milione, che hanno scelto e sostenuto la nostra proposta non si sono dissolti e con loro, ne sono sicuro, ci sono altri milioni di persone che vogliono migliorare il futuro di questo Paese e che ci sono vicini».
Nel giorno in cui il premier uscente Mario Monti si chiude in un luogo segreto con Casini e Riccardi per decidere liste e modalità di presentazione alle elezioni, Rosy Bindi, come anche Nichi Vendola oggi in un’intervista sul nostro quotidiano, segna la differenza: «Il Pd è l’unica forza che si mette in gioco per un vero cambiamento. Siamo gli unici a proporre forme di partecipazione e coinvolgimento reale dei cittadini. È un esempio di buona politica e anche un modo per “risarcire” gli elettori della mancata riforma della legge elettorale. Non ci siamo chiusi in un luogo top secret per stabilire la composizione delle liste». Ma non mancano le polemiche in casa democratica: in Calabria Cesare Marini, deputato uscente, ha rinunciato alla candidatura parlando di «primarie farsa» e di risultato già scritto, mentre a Catanzaro, malumori contro il commissario regionale, Alfredo D’Attorre, e la sua decisione di correre per la nomination svestendo, quindi, i panni di uomo super partes.
l’Unità 29.12.12
******
Come si vota
Date e modalità del voto
1 Le primarie per la selezione del 90% delle candidature del Pd al Parlamento nazionale si svolgono nei giorni 29 o 30 dicembre 2012. Non vengono computate le posizioni di capilista che saranno definite d’intesa tra la Direzione nazionale e le Unioni regionali.
2 Le Direzioni delle Unioni regionali si riuniscono entro il 21 dicembre e stabiliscono se nella regione le primarie si svolgono il 29 oppure il 30 dicembre 2012.
3 Si vota dalle ore 08.00 alle ore 21.00 del giorno stabilito dalla relativa Unione regionale nei seggi istituiti, di norma, presso i circoli del PD.
4 L’elettrice/ore può esprimere fino ad un massimo di due preferenze, differenti per genere. Qualora le due preferenze siano dello stesso genere, la seconda nell’ordine è nulla.
ELETTORI
1 Possono partecipare al voto per la selezione delle candidature al Parlamento nazionale:
a) le/gli elettrici/ori compresi nell’Albo delle primarie dell’«Italia Bene Comune»;
b) le /gli iscritte/i al Pd nel 2011 che abbiano rinnovato l’adesione fino al momento del voto.
2 Per esercitare il diritto di voto ciascun/a elettore/ice deve
a) dichiararsi elettrice/ore del Pd e sottoscrivere un pubblico appello per il voto al Pd secondo le modalità di cui al Regolamento per le primarie «Italia Bene Comune»;
b) versare una sottoscrizione di almeno due euro per la campagna elettorale;
c) sottoscrivere l’impegno a riconoscere gli organismi di garanzia previsti nel presente Regolamento come uniche sedi per ogni eventuale interpretazione, contestazione o controversia riferibile all’organizzazione e allo svolgimento delle elezioni primarie.
l’Unità 29.12.12
******
L’appello
Da Bologna arriva l’invito a votare solo donne
Altro che ticket maschio-femmina: le donne del Partito democratico di Bologna invitano a votare una candidata qualunque, purché sia donna. L’appello porta la firma di Federica Mazzoni, coordinatrice Donne del Pd di Bologna. «È fondamentale non lasciarsi sfuggire questa occasione per scegliere e votare una delle qualificate donne candidate che, con ottime e diversificate competenze, hanno dimostrato a tutti di sapere incarnare la prospettiva di genere nel proprio agire politico e amministrativo».
L’Unità 29.12.12