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Dichiarazione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulla sentenza Berlusconi

“La preoccupazione fondamentale, comune alla stragrande maggioranza degli italiani, è lo sviluppo di un’azione di governo che, con l’attivo e qualificato sostegno del Parlamento, guidi il paese sulla via di un deciso rilancio dell’economia e dell’occupazione”. E’ quanto si legge in una dichiarazione del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

“In questo senso – ha continuato il Capo dello Stato – hanno operato le Camere fino ai giorni scorsi, definendo importanti provvedimenti; ed essenziale è procedere con decisione lungo la strada intrapresa, anche sul terreno delle riforme istituzionali e della rapida ( nei suoi aspetti più urgenti ) revisione della legge elettorale. Solo così si può accrescere la fiducia nell’Italia e nella sua capacità di progresso. Fatale sarebbe invece una crisi del governo faticosamente formatosi da poco più di 100 giorni; il ricadere del paese nell’instabilità e nell’incertezza ci impedirebbe di cogliere e consolidare le possibilità di ripresa economica finalmente delineatesi, peraltro in un contesto nazionale ed europeo tuttora critico e complesso. Ho perciò apprezzato vivamente la riaffermazione – da parte di tutte le forze di maggioranza – del sostegno al governo Letta e al suo programma, al di là di polemiche politiche a volte sterili e dannose, e di divergenze specifiche peraltro superabili. Non mi nascondo, naturalmente, i rischi che possono nascere dalle tensioni politiche insorte a seguito della sentenza definitiva di condanna pronunciata dalla Corte di Cassazione nei confronti di Silvio Berlusconi. Mi riferisco, in particolare, alla tendenza ad agitare, in contrapposizione a quella sentenza, ipotesi arbitrarie e impraticabili di scioglimento delle Camere. Di qualsiasi sentenza definitiva, e del conseguente obbligo di applicarla, non può che prendersi atto. Ciò vale dunque nel caso oggi al centro dell’attenzione pubblica come in ogni altro. In questo momento è legittimo che si manifestino riserve e dissensi rispetto alle conclusioni cui è giunta la Corte di Cassazione nella scia delle valutazioni già prevalse nei due precedenti gradi di giudizio; ed è comprensibile che emergano – soprattutto nell’area del PdL – turbamento e preoccupazione per la condanna a una pena detentiva di personalità che ha guidato il governo ( fatto peraltro già accaduto in un non lontano passato ) e che è per di più rimasto leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza. Ma nell’esercizio della libertà di opinione e del diritto di critica, non deve mai violarsi il limite del riconoscimento del principio della divisione dei poteri e della funzione essenziale di controllo della legalità che spetta alla magistratura nella sua indipendenza. Né è accettabile che vengano ventilate forme di ritorsione ai danni del funzionamento delle istituzioni democratiche. Intervengo oggi — benché ancora manchino alcuni adempimenti conseguenti alla decisione della Cassazione — in quanto sono stato, da parecchi giorni, chiamato in causa, come Presidente della Repubblica, e in modo spesso pressante e animoso, per risposte o “soluzioni” che dovrei e potrei dare a garanzia di un normale svolgimento, nel prossimo futuro, della dialettica democratica e della competizione politica. A proposito della sentenza passata in giudicato, va innanzi tutto ribadito che la normativa vigente esclude che Silvio Berlusconi debba espiare in carcere la pena detentiva irrogatagli e sancisce precise alternative, che possono essere modulate tenendo conto delle esigenze del caso concreto. In quanto ad attese alimentate nei miei confronti, va chiarito che nessuna domanda mi è stata indirizzata cui dovessi dare risposta. L’articolo 681 del Codice di Procedura Penale, volto a regolare i provvedimenti di clemenza che ai sensi della Costituzione il Presidente della Repubblica può concedere, indica le modalità di presentazione della relativa domanda. La grazia o la commutazione della pena può essere concessa dal Presidente della Repubblica anche in assenza di domanda. Ma nell’esercizio di quel potere, di cui la Corte costituzionale con sentenza del 2006 gli ha confermato l’esclusiva titolarità, il Capo dello Stato non può prescindere da specifiche norme di legge, né dalla giurisprudenza e dalle consuetudini costituzionali nonché dalla prassi seguita in precedenza. E negli ultimi anni, nel considerare, accogliere o lasciar cadere sollecitazioni per provvedimenti di grazia, si è sempre ritenuta essenziale la presentazione di una domanda quale prevista dal già citato articolo del C.p.p.. Ad ogni domanda in tal senso, tocca al Presidente della Repubblica far corrispondere un esame obbiettivo e rigoroso — sulla base dell’istruttoria condotta dal Ministro della Giustizia — per verificare se emergano valutazioni e sussistano condizioni che senza toccare la sostanza e la legittimità della sentenza passata in giudicato, possono motivare un eventuale atto di clemenza individuale che incida sull’esecuzione della pena principale.
Essenziale è che si possa procedere in un clima di comune consapevolezza degli imperativi della giustizia e delle esigenze complessive del Paese. E mentre toccherà a Silvio Berlusconi e al suo partito decidere circa l’ulteriore svolgimento – nei modi che risulteranno legittimamente possibili – della funzione di guida finora a lui attribuita, preminente per tutti dovrà essere la considerazione della prospettiva di cui l’Italia ha bisogno. Una prospettiva di serenità e di coesione, per poter affrontare problemi di fondo dello Stato e della società, compresi quelli di riforma della giustizia da tempo all’ordine del giorno. Tutte le forze politiche dovrebbero concorrere allo sviluppo di una competizione per l’alternanza nella guida del paese che superi le distorsioni da tempo riconosciute di uno scontro distruttivo, e faciliti quell’ascolto reciproco e quelle possibilità di convergenza che l’interesse generale del paese richiede. Ogni gesto di rispetto dei doveri da osservare in uno Stato di diritto, ogni realistica presa d’atto di esigenze più che mature di distensione e di rinnovamento nei rapporti politici, sarà importante per superare l’attuale difficile momento”.

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“Diritti da testimoniare”, di Chiara Saraceno

Non basta il decreto legge sul femminicidio a fermare lo stillicidio ormai quotidiano di uccisioni di donne, spesso da parte di mariti, fidanzati, amanti. Come non basteranno le norme contro l’omofobia, se e quando verranno mai approvate, a difendere le persone omosessuali dalla fatica di una vita quotidiana sempre ostaggio della (in)tolleranza e del disprezzo di persone che non solo credono di avere il monopolio della normalità, ma se ne fanno scudo per dar corso ai propri impulsi peggiori. Chi uccide va punito, chi minaccia di uccidere, o comunque tormenta, va fermato e se del caso punito.
Le leggi servono a definire un confine anche penalmente, e non solo moralmente e culturalmente, invalicabile. Non si uccide per amore o per gelosia. Tantomeno queste possono essere invocate come attenuanti. Non si può utilizzare l’omosessualità come insulto e come causa di discriminazione e dileggio sistematici. Per questo le leggi hanno anche una funzione comunicativa; fanno parte del discorso pubblico su come una società considera se stessa e le proprie relazioni. Le resistenze del Parlamento italiano a varare norme contro l’omofobia, da questo punto di vista, non sono un bel segnale della maturità del discorso pubblico su questi temi. Leggi come queste, che mirano a contrastare comportamenti distruttivi, servono ancora di più se mettono in campo risorse per la protezione delle vittime e per lo sviluppo di iniziative di prevenzione (la parte più vaga, ahimè, del decreto sul femminicidio e assente dalla proposta di legge contro l’omofobia).
La capacità di una norma di contrastare il comportamento che intende punire, tuttavia, non va sopravvalutata. Il timore della pena non trattiene il ladro, o l’evasore fiscale, che ritiene che il gioco valga la candela, o l’omicida che trova nell’atto di uccidere soddisfazione alle proprie pulsioni più profonde. Forse è proprio per il particolare tipo di soddisfazione che alcuni uomini trovano nell’uccidere una donna (che per lo più considerano propria) che gli assassinii di donne non sono diminuiti in questi anni, a fronte di una generale diminuzione degli omicidi. Analogamente, se qualcuno considera l’omosessualità e gli omosessuali una deformità contro natura e/o una tara morale, non basterà il timore di una pena per indur-
li a smettere di fare gli aguzzini dei loro compagni e a non usare le parole come pietre in una lapidazione quotidiana.
Così come è bene che ci sia una legge che dice che non solo uccidere è reato ma farlo perché si ritiene l’altra una proprietà è un’aggravante, è necessaria una legge che dica che quando un’opinione diventa un’arma distruttiva, utilizzata per umiliare ed emarginare qualcuno, non è più in gioco lalibertà di opinione ma il diritto al rispetto e all’integrità personale. Ma occorrono anche un discorso pubblico complessivo, comportamenti pubblici, modalità educative che esprimano concretamente il rispetto dovuto a ciascuno, indipendentemente dal sesso e dall’orientamento sessuale. Se nella vita quotidiana e nelle decisioni che contano le donne continueranno ad essere considerate cittadine di serie B, molti uomini continueranno a sentirsi autorizzati a trattarle come tali anche nei rapporti privati. E molte donne continueranno a ritenersi persone di serie B, con meno diritti, accettando richieste e violenze rischiose.
La legge di contrasto all’omofobia, se mai passerà, rimarrà solo simbolica se in società le persone omosessuali continueranno ad essere considerate una anomalia tendenzialmente pericolosa, senza gli stessi diritti degli eterosessuali ad una vita affettiva e famigliare. Se l’omosessualità, ma anche i modi diversi di essere maschi e femmine, non vengono detti ed elaborati come parte del caleidoscopio della normalità. Qualsiasi prepotente troverà legittimo e normale accanirsi su chi non risponde a standard “normali” stereotipici. Un bel romanzo di Catherine Dunne, Quel che ora sappiamo, racconta quanto ciò possa diventare intollerabile anche al ragazzo più intelligente ed amato, senza che genitori molto attenti e persino esperti riescano a coglierne per tempo i segnali. Anche perché dell’indicibile, di ciò che non viene mai nominato (inclusa l’incredibile capacità di cattiveria di alcuni ragazzi), è difficile parlare, confidarsi.
L’adolescenza è un periodo della vita fragilissimo, in cui le prove di identità sono una fatica e un rischio per tutti e il giudizio dei propri pari, ma anche di genitori e insegnanti, un quotidiano giudizio di Dio. Dovremmo fare di tutto per evitare che per qualcuno si trasformi in un inferno senza ritorno.

La Repubblica 14.08.13

“Il perchè di una strage”, di Paolo Pezzini

Molto opportunamente la Ministra Maria Chiara Carrozza ha inserito nella sua orazione ufficiale di commemorazione della strage di Sant’Anna di Stazzema un forte richiamo alla conoscenza storica, come elemento fondamentale di comprensione di quanto avvenuto e di formazione delle giovani generazioni. Vediamo allora, sul terreno specifico della storia («scienza degli uomini nel tempo», secondo la nota definizione di March Bloch che la ministra ha richiamato nel suo discorso), se vi siano questioni ancora aperte sull’episodio commemorato ieri. Partendo dalla domanda
più importante: il perché della strage.
La strage di Sant’Anna di Stazzema si inquadra in quella particolare fase della situazione bellica che si apre con l’arretramento dell’esercito tedesco sulla così detta Linea Gotica. In zone di grande rilievo strategico, come i monti a ridosso della Versilia, le Alpi Apuane o la Lunigiana, la presenza di numerose formazioni partigiane, di diverso orientamento (dai garibaldini agli autonomi) rappresentava per i tedeschi un effettivo problema. A partire da luglio si segnala così una radicalizzazione dell’atteggiamento degli occupanti nei confronti della popolazione civile, accusata, a torto o a ragione, di proteggere la guerra partigiana.
Nella zona arrivò in quei giorni la XVI divisine Panzer-Grenadier delle SS, comandata dal generale Simon, un fanatico nazista, formata di giovani militari, ma con un nucleo di ufficiali e sottufficiali fortemente ideologizzati e temprati da precedenti esperienze nel sistema concentrazionario nazista, o in operazioni belliche, comprensive di azioni di sterminio di ebrei e di civili, nella Polonia occupata.
L’eccidio di Sant’Anna si inserisce all’interno di un ciclo operativo di «lotta alle bande» che inizia appunto ai primi di agosto, colpendo con violenze e stragi vari territori del pisano, continua in Versilia, investe quindi, dopo Sant’Anna di Stazzema, le Apuane, per poi proseguire, al di là dell’Appennino, nella «grande» operazione di Monte Sole, contro le popolazioni di tre comuni, Marzabotto, Grizzana e Monzuno, nella quale dal 29 settembre al 5 ottobre, furono uccise circa 770 persone. In questo contesto operativo, la strage di Sant’Anna di Stazzema riacquista il suo tragico significato: si tratta di operazioni definite rivolte contro i partigiani che si configurano in realtà come azioni terroristiche di ripulitura del territorio, veri e propri massacri di tutti coloro che venivano trovati all’interno dell’area delimitata come quella da «bonificare», a priori considerati «partigiani», il cui sterminio, anche se neonati o anziani infermi, era programmato prima della strage.
Ma proprio questo carattere programmatico, considerato provato dal Tribunale Militare di La Spezia nel 2005 (con sentenza confermata in Cassazione), è stato messo in discussione dalla Procura di Stato di Stoccarda (Baden-Württemberg) che nell’ottobre 2012 ha chiesto l’archiviazione del procedimento penale a carico delle SS indagate (alcune delle quali condannate all’ergastolo in maniera definitiva in Italia). Il procuratore tedesco ha ritenuto che non si potesse provare il carattere predeterminato dello sterminio dei civili, che invece i giudici di La Spezia hanno argomentato nella loro sentenza, accogliendo l’impostazione del procuratore italiano Marco de Paolis, che, recependo anche l’esito delle più recenti approfondite indagini storiografiche, ha sostenuto che «la partecipazione con un significativo incarico di comando alle operazioni militari che determinarono come effetto finale il massacro di centinaia di persone civili non belligeranti, integra gli estremi di un consapevole concorso alla realizzazione del reato». Secondo la procura di Stoccarda, invece, questa pianificazione della strage non può essere provata e, nella affermata impossibilità di individuare, a distanza di quasi settanta anni, il ruolo avuto da ciascuno dei singoli imputati, ne ha richiesto il non rinvio a giudizio. Il carattere e la consistenza delle argomentazioni riportate nel provvedimento di archiviazione lasciano più che perplessi proprio sul terreno della ricostruzione storica, e dimostrano come in questi casi di giustizia tardiva solo la ricerca storiografica, condotta ovviamente con onestà e rispetto della verità fattuale che è possibile definire in base alla documentazione disponibile, possa portare alla verità giudiziaria.

L’Unità 13.08.13

“Il piano per i dipendenti pubblici”, di Raffaello Masci

Dando una generosa sforbiciata alle spese per auto blu e aerei ancora più blu, il governo guidato da Enrico Letta vuole fare una duplice operazione: da una parte dare il buon esempio cominciando a tagliare proprio in casa propria e proprio in quei settori che maggiormente catalizzano il risentimento collettivo verso «la casta», e – seconda aprendo la strada ad una serie di tagli di spesa che da settembre in avanti verranno messi in cantiere.

L’intervento più rilevante riguarda i dipendenti pubblici – tutti: statali, degli enti locali, degli enti pubblici controllati e ha un obiettivo assai ambizioso: 200 mila persone in meno in tre anni. Come, dove, con quali modalità è il compito a cui stanno lavorando i tecnici dei tre ministeri investiti di questo incarico: Funzione pubblica, Lavoro e previdenza sociale e – ovviamente – Economia.

L’ipotesi, che ancora non è stata formalizzata e che verrà sottoposta ai sindacati solo a settembre, dovrebbe essere quella di una serie di prepensionamenti agevolati ma non incentivati. Spieghiamo: i dipendenti pubblici che hanno almeno 57 anni potranno andare in pensione se lo desiderano, secondo le norme precedenti alla riforma Fornero, godendo dell’anzianità contributiva senza le penalizzazioni del caso. Non perderebbero niente, dunque, ma non avrebbero neppure incentivi di sorta sottoforma di buonuscite. Secondo i primi calcoli questa operazione porterebbe un risparmio di circa due miliardi da reinvestire (almeno in parte) nella contrattazione di secondo livello. I sindacati – non ancora coinvolti nella materia vorrebbero discuterne meglio e comunque propongono di trattare la cosa all’interno di un più vasto plafond di temi che coinvolgano anche le pensioni d’oro.

Sulla strada del risparmio, si continuerà poi con la spending review: non solo il decreto del Fare ha istituito un comitato interministeriale permanente a questo scopo, ma si vuole estendere il campo di azione a tutte le società (quotate e non) a capitale pubblico (anche parziale), alle società di servizi degli enti pubblici (solo quelle dei comuni sfiorano la cifra di 7 mila) e insomma a tutta quella greppia di prebende e di riposizionamento di politici trombati che erano (e sono) le società pubbliche. Uno degli interventi più qualificanti, a questo proposito, dovrebbe essere l’introduzione dell’obbligo, da parte di queste società, di comunicare alla Funzione pubblica le spese sostenute per il personale a qualunque titolo impiegato. Va da sé che questo sarebbe solo il primo passo verso una revisione delle piante organiche e del loro ridimensionamento. Resta inoltre vigente il piano di chiusura di molte di queste società, già definito da Filippo Patroni Griffi (oggi sottosegretario alla Presidenza) quando era ministro del governo Monti.

Una ulteriore sforbiciata dovrebbe riguardare le consulenze esterne: una vera manna per i politici che vogliono gratificare i loro sodali e che, a questo scopo, spendono oggi 1,3 miliardi di euro. Basta con tutto questo. O almeno questo è l’intento.

La Stampa 13.08.13

“Un miliardo a scuola e ricerca”, di Eugenio Bruno

Verificare come sono andati i programmi per l’utilizzo dei fondi europei. Puntare all’empowerment dei giovani. Reperire un miliardo per la scuola, l’università e la ricerca. Sono le tre leve che il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, chiede di azionare per rendere il nostro sistema più competitivo e al tempo stesso più attrattivo. Passando anche dall’introduzione di un vero credito d’imposta per le imprese. «Perché i cittadini sottolinea l’ex rettore della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa devono capire che non c’è solo l’Imu». E anche perché «non c’è un’opzione B»

I dati sull’utilizzo dei fondi Ue per la ricerca dicono che abbiamo speso poco più dell’8% e siamo solo quarti in Europa. Che impressione trae da quei numeri? La mia impressione è che le nostre prestazioni non siano state all’altezza del valore dei nostri enti di ricerca e delle nostre università. Occorre migliorare dal punto di vista dell’organizzazione della ricerca e aumentare sia il numero che la qualità dei nostri ricercatori. Il mio obiettivo è fare del 2013-2014 l’anno accademico dei giovani ricercatori. Per questo dobbiamo concentrare le risorse sui progetti a cui i giovani possono accedere. Ad esempio, bisogna dare la massima priorità al Firb (il Fondo per la ricerca di base, ndr).

Con quali mezzi? Le risorse le stiamo verificando ma dovrebbero essere circa 48 milioni. In più abbiamo lavorato per riportare il turn over al 50% e questo è un successo del Governo Letta. Ma ora è importante favorire una politica complessiva per i giovani ricercatori. Faremo una linea di indirizzo su come andranno realizzate le pubblicazioni. Diremo che verrà premiato chi firmerà le pubblicazioni senza il supervisore di dottorato dimostrando di essere indipendente. È un sistema già adottato nell’European Research Council dove i ricercatori devono dare prova di saper pubblicare da soli. Anche nel valore dei progetti di ricerca terremo conto dell’indipendenza e dell’autonomia dimostrate. E privilegeremo gli atenei e i centri di ricerca che hanno ricercatori come responsabili e coordinatori di progetti. I giovani devono diventare i protagonisti della riscossa. Dobbiamo lavorare per renderli più indipendenti come avviene all’estero. La nostra fuga di cervelli è anche legata al fatto che all’estero i ricercatori sono più liberi e l’ambiente li responsabilizza di più.

Dai numeri emerge una migliore capacità di spesa nei progetti che coordiniamo. Ma per coordinarli dobbiamo essere più credibili agli occhi di Bruxelles. Come? Abbiamo da poco nominato i nostri delegati nel comitato del prossimo programma Horizon 2020. Mi impegno a riceverli una volta al mese e mi diranno come possiamo muoverci. Tra l’altro abbiamo scelto persone che già conoscono il mondo imprenditoriale.Il contatto con le imprese è fondamentale. Non solo con le grandi ma anche con le piccole e le medie. Qui sarà importante anche il ruolo delle università e degli enti di ricerca che dovranno fare da raccordo. È tutta la filiera infatti che va attivata.

Anche con il credito d’imposta che le imprese chiedono da anni? Certo. Ma deve essere un credito d’imposta vero e che funzioni. Non un click day. il momento di dire che non si può parlare solo d’Imu. I cittadini devono capire l’importanza della ricerca e dell’innovazione. Ne va della capacità del nostro sistema produttivo e dell’attrattività dei capitali stranieri. C’è un termine che mi piace molto. Ed è l’empowerment dei giovani. Bisogna far sì che i ragazzi guidino il sistema. Come nel Dopoguerra anche oggi tocca ai trentenni fare ripartire l’Italia.

Ci sono le condizioni politiche per riuscirci? Su questi temi in Consiglio dei ministri e in Parlamento c’è un buon clima. Forse è più difficile farli passare nelle università e negli enti di ricerca. Ma è un segnale che va dato ai cittadini. Per questo mi chiedo: perché non cercare un miliardo per fare ripartire la scuola, l’università e la ricerca? Puntare sul capitale umano è l’unica via per uscire dalla crisi.

Prima ha citato Horizon 2020. In quel programma i fondi per la ricerca aumenteranno almeno del 20 per cento. Nei prossimi sette anni riusciremo a migliorare le nostre performance di spesa? Non c’è un’altra opzione. È un punto di vita o di morte del nostro sistema. O miglioriamo i tempi e la qualità dei progetti e aiutiamo i giovani ricercatori a essere all’altezza dei loro colleghi o perdiamo il treno. Non c’è un’opzione B.

Il Sole 24 Ore 13.08.13

“Il maquillage del Porcellum”, di Massimo Luciani

La riforma elettorale si deve fare subito. Giusto. Perché incombe la sentenza della Corte costituzionale che potrebbe dichiarare illegittima quella vigente. Sbagliato. Ragionando in questo modo si rischia di finire fuori strada. Perché si finisce per portare altra acqua al mulino, già vigorosamente alimentato, di quelli che pensano che la politica sia ormai incapace di risolvere qualunque problema e che solo la giurisdizione, ormai, riesca a sciogliere nodi altrimenti inestricabili. Se ci si decide a mettere mano alla pessima legge attuale non può e non deve essere solo perché c’è il rischio che la Corte la colpisca, ma perché si dà di quella legge il giudizio politico che merita: è triste constatare, invece, che una volta di più le istituzioni rappresentative vanno a rimorchio di poteri terzi.
Se questo è vero (e non si capisce come si potrebbe negarlo), chi ha a cuore le sorti della politica non si può accontentare di proporre un maquillage della legge Calderoli, di un’opera di cosmesi che si limiti a cancellarne gli aspetti di più vistosa incostituzionalità, senza toccare – però – tutte le sue incongruenze. Certo, fra legge elettorale e forma di governo ci deve essere coerenza, ma non per questo, in attesa dell’auspicata riforma costituzionale, potremmo ritenerci soddisfatti di raggiungere l’obiettivo minimo. Se nuova legge elettorale ha da essere, dunque, che sia organica e coerente.
Non basta superare le resistenze
minimaliste, però, per ottenere il risultato, perché le alternative che giacciono sul tappeto sono ancora troppe. Quale preferire? Molti proclamano formule proporzionali o maggioritarie, e sistemi con o senza premio di maggioranza, come se fossero articoli di fede e non si sforzano di ragionare su quello che, davvero, serve al nostro Paese.
Ora, se cerchiamo di vedere con onestà intellettuale i problemi che la riforma elettorale potrebbe contribuire a risolvere, ci accorgiamo che sono soprattutto due: la mancanza di stabilità e il deficit di rappresentatività. La mancanza di stabilità, perché i nostri governi continuano ad avere vita breve, o comunque difficile, anche quando sono sorretti da maggioranze larghissime. Il deficit di rappresentatività, perché la sottrazione agli elettori del potere di scegliere le persone degli eletti è vissuta come un’intollerabile espropriazione.
Per risolvere il secondo problema non ci vuole molto: basta reintrodurre il voto di preferenza o strutturare un sistema (anche proporzionale, come quello tedesco) articolato su collegi uninominali.
Più difficile è la questione della stabilità, anche perché una parte del problema sta nelle norme costituzionali (in particolare, nella previsione che entrambe le Camere debbano conferire la fiducia al governo) e un’altra nella realtà del
sistema partitico (nel quale è presente una forza che, almeno sino adesso, si è sottratta alla logica stessa del parlamentarismo, negando qualunque disponibilità coalizionale). Nonostante questo, il sistema elettorale potrebbe fare molto.
Si tratta soprattutto di capire quanto sia opportuno “forzare” la pura proporzionalità dei risultati per ottenere maggioranze stabili. Stabili, è bene ripeterlo, non necessariamente ampie: abbiamo fatto esperienza sufficiente di coalizioni mastodontiche eppure insincere, pronte a mettersi assieme per vincere, ma incapaci di restare unite per governare. È evidente che quanto più si forza, tanto più facile è l’ottenimento di una maggioranza. Il rischio, però, è che quella maggioranza, proprio perché “costretta”, sia meno solida di quanto dicano i numeri. Se si forza di meno, invece, accade l’inverso, perché si incentiva, nel medio periodo, la formazione di maggioranze stabili e sincere, ma si rischia, nell’immediato, di non ottenere il risultato. Il nodo, dunque, è tutto lì, ed è politico, non tecnico. Se si pensa che i pericoli del presente siano così critici da suggerire di non investire su una prospettiva di medio periodo, si deve forzare maggiormente, se la si pensa all’opposto si possono scegliere soluzioni meno drastiche. Questo, ripeto, il nodo. Ed è su questo che ci sarebbe bisogno di un confronto vero.

L’Unità 13.08.13

“Il virus razzista”, di Nadia Urbinati

Il pregiudizio non è innocuo. Il suo braccio armato è il razzismo, un’ideologia che unisce gli uguali contro i diversi e che mobilita parole e, quando può, il potere della legge per realizzare il piano di ripulire la società degli indesiderati. Un’ideologia che miete adepti con facilità perché facile da coniugare, elementare ed esprimibile con le parole dell’ignoranza ordinaria, istintiva. Scriveva John Stuart Mill nell’introduzione del Saggio sulla soggezione delle donne
(1869) che l’idea che la donna sia inferiore nell’intelletto e nelle capacità è così diffusa e radicata da apparire a tutti (perfino alle sue vittime) naturale: poiché istintiva e irriflessa, essa deve essere naturale! Diversamente come potrebbe annidarsi con tanta spontaneità nelle menti di milioni di persone? È vero proprio il contrario: quel pregiudizio è una costruzione sociale, tutto fuor che naturale e spontaneo. Creato dalle relazioni di potere tra dominatori e dominati per renderle – questo il vero obiettivo – così spontanee da farle accettare senza sforzo. Lo stesso accade con tutti i pregiudizi: l’eterosessualità è la condizione naturale; la razza bianca è naturalmente superiore; il genere maschile ha una naturale disposizione alla leadership; i settentrionali sono naturalmente più intraprendenti … e si potrebbe continuare, con una lista davvero lunga al punto che perfino tra gli uguali salterebbe fuori prima o poi una ragione di discriminazione. Si parte dall’umanità per cercare le forme inferiori e si arriva alla gente del proprio villaggio, tra la quale certamente albergano dei reietti. La logica del razzismo è quella dell’esclusione e si diffonde a macchia d’olio, per cui non si finisce mai di escludere.
La pericolosità del razzismo deriva dalla sua facilità di attecchire, alimentato da ignoranza e rifiuto di riflessione. È una gemmazione della pigrizia mentale, il consolidamento di un’atavica tendenza ad orientarsi nel mondo senza troppo sforzo. A Zurigo, nella civilissima e bianchissima Svizzera, qualche giorno fa la star della televisione americana (e una delle persone più ricche degli Usa), Oprah Winfrey è stata trattata come Julia Roberts in
Pretty woman:
voleva acquistare una borsa da 28mila euro e si è sentita rispondere che era troppo costosa per lei, che avrebbe potuto comprare l’intero negozio. In Italia, continuano gli attacchi e gli insulti feroci al ministro Kyenge.
Il pregiudizio vive di inettitudine mentale e di faciloneria. Per questo rende il razzismo un codice di riconoscimento: i razzisti vanno d’accordo tra loro, si riconoscono e si attraggono; rinforzano le loro credenze a vicenda. Proprio perché genera emulazione il razzismo non è mai un fenomeno isolato: infatti, se una persona ha il coraggio di rivelarsi razzista in pubblico è perché sa di poter contare sull’appoggio dell’opinione. Ecco perché quando si legge che l’ex leader della Lega Nord arringa i suoi a ricorrere ai fucili perché non si può riconoscere uno Stato che ha tra i suoi ministri una donna nera, occorre reagire. Non si possono rubricare quelle parole come un commento sbagliato, una frase infelice, un’uscita propagandistica folcloristica: il razzismo non è mai
innocente. E umilia tutti.

La Repubblica 13.08.13