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“Stage o buccia di banana?”, da ScuolaOggi

Ha fatto discutere e inquietare i sindacati, ma qualcuno dice anche i vertici ministeriali, la mossa “feriale” dell’INVALSI, il nostro istituto di valutazione, di promuovere una scuola estiva di valutazione (un Vcamp, uno stage, quasi per rinverdire gli allori dei campi estivi scout) e di rivolgerla a 100 fortunati partecipanti, convocati a Roma dal 25 agosto al 1° settembre 2013.

Dove sta lo scandalo? Forse che un ente pubblico, con una sua riconosciuta autonomia istituzionale, amministrativa e scientifica, non può liberamente organizzare uno stage di formazione? Qualche approfondimento tecnico-scientifico? Qualche evento culturale?

Messa in questi termini la proposta dello stage non fa una piega, ma evidentemente c’è dell’altro se il 1° agosto u.s. i cinque sindacati più rappresentativi della scuola hanno preso carta e penna ed hanno esternato il loro disappunto al Ministro M.C. Carrozza per il modo in cui l’INVALSI si sta muovendo, dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 4 luglio 2013 del DPR 28-3-2013, n.80 che regolamenta l’avvio del Sistema Nazionale di Valutazione.

E proprio qui sta la commedia degli equivoci. Il MIUR e le scuole (ed i sindacati) si aspettavano qualche segnale d’intesa, mentre l’INVALSI ha proceduto in modo unilaterale: l’iniziativa infatti, è giunta come un fulmine a ciel sereno, nel bel mezzo dell’estate, con procedure rapidissime per individuare i candidati ai corsi per valutatori. Nella comunicazione (riservata) inviata agli Uffici Scolastici Regionali con nota 5736 del 4-7-2013, l’INVALSI pur senza dirlo esplicitamente, fa balenare l’idea che i fortunati partecipanti al campo – stage (non a caso sottoposti ad una scrematura del 50% delle candidature, che già vedevano un tetto nazionale di 200 segnalati) sarebbero diventati i primi interpreti del novello Sistema Nazionale di Valutazione (SNV), cioè i membri di quelle equipe di valutazione esterna che avrebbero compiuto le visite alle scuole, in una sorta di audit pedagogico.

Nuove professionalità per la valutazione

Ma allora dov’è l’inghippo? Il nuovo sistema lo si sta sperimentando in anteprima tramite il progetto VALES (Valutazione e Sviluppo), che coinvolge 300 scuole autopropostesi nel corso del 2012 e che dovranno appunto “provare” in un triennio di lavoro i diversi passaggi in cui si articola il processo valutativo:

– l’autovalutazione (già compiuta dalle scuole VALES, sulla base di dati però forniti dal centro);

– la valutazione esterna (da realizzare nel prossimo autunno);

– il miglioramento (con un ruolo incerto dei soggetti a ciò deputati);

– la rendicontazione (da mettere alla prova nei prossimi due anni).

Per far fronte a questi impegni l’INVALSI aveva pubblicato nei mesi scorsi un apposito Bando pubblico per reclutare le figure necessarie, scegliendole preferibilmente dal mondo della scuola, ma anche dall’esterno. Erano pervenute oltre 5.000 candidature, a riprova dell’interesse della scuola verso l’articolazione delle professionalità e la valorizzazione delle competenze acquisite.

Un buon segno, che però aveva appesantito la macchina selezionatrice dell’Invalsi, che solo il 9 settembre 2013 (a scuola ormai chiusa), sarà in grado di pubblicare l’elenco dei selezionati (400 figure) e poi organizzare la loro formazione.

Di qui il pasticcio: perché sono state attivate due procedure diverse per scegliere gli stessi profili professionali:

a. esperto nell’area della dirigenza scolastica;

b. esperto nell’area pedagogico didattica;

c. esperto di ricerca qualitativa;

d. esperto di gestione e funzionamento delle organizzazioni.

Molti si chiedono: perché dare la precedenza alla procedura accelerata, non pubblica, tutta da consumarsi in pochi giorni d’estate, a scuole chiuse?

Quali i motivi di urgenza, che hanno convinto l’INVALSI a tagliare tutti i tempi ragionevoli fino ad immaginare test di ammissione (il 29 luglio e il 5 agosto) sotto la canicola romana?

Se i partecipanti così formati – come assicura l’Invalsi – non precostituiscono la prima “pattuglia” di valutatori reclutati dall’incipiente SNV, per cui ci vorrebbero altre garanzie di trasparenza, allora perché convogliarli in un impegnativo stage di fine agosto? L’INVALSI fa sapere che questo tipo di iniziative è utile per far crescere la cultura della valutazione, di cui pure c’è un gran bisogno nella scuola. Nulla questio, sed modus in rebus… Non vorremmo che magari lo stage di formazione fosse già stato predisposto per i valutatori da scegliere con la procedura pubblica e che poi, per la difficoltà a chiudere la procedura, si sia deciso di non sprecare il setting già allestito, ma con tanti saluti alla strategia politica, alle larghe intese con i diversi soggetti sociali, alla scaletta delle priorità.

Ma non c’erano alternative praticabili? O la macchina era ormai in moto e dunque inarrestabile, come è trapelato da Villa Falconieri, sede dell’Invalsi.

Nodi da sciogliere…insieme

Se si vuole far partire il nuovo sistema di visite esterne alle scuole (che è la vera novità del Regolamento, anticipate da Vales) ci sono ancora molti aspetti da chiarire:

1. come leggere i rapporti di autovalutazione predisposti dalle scuole VALES, ma anche dagli 800 neo-dirigenti;

2. come individuare gli obiettivi strategici di miglioramento, coerenti e in connessione con la lettura del contesto (sempre definibili con target numerici? come restituire i dati? come tenere in equilibrio dimensioni qualitative e quantitative?);

3. quali protocolli di visita e indicatori (cioè cosa osservare quando si entra in una scuola?);

4. come mettere in relazione l’azione individuale del dirigente scolastico (la sua performance) e l’impegno complessivo della scuola per il suo miglioramento;

5. come sviluppare le iniziative di miglioramento (facendo cosa? Da parte di chi? Con quali risorse?)

6. come gestire i tassi di trasparenza, restituzione, rendicontazione della valutazione, senza produrre “disastri” maggiori dei benefici che si potrebbero ottenere?

Si tratta di nodi veri per lo sviluppo di un sistema di valutazione che non possono essere oggetto di una semplice “ripassata” ferragostana a corsisti desiderosi di apprendere, ma che richiedono confronti serrati, studio, coinvolgimento di figure strategiche e rappresentativi di esperienze e realtà scolastiche. Un bel seminario aperto (e non blindato) avrebbe potuto affrontare con una certa libertà tali questioni, con l’apporto di ispettori vecchi e nuovi (non saranno loro i coordinatori delle future equipe di valutazione?), di rappresentanti delle tante reti di scuole e docenti che hanno lavorato sulla valutazione (Saperi, AIR, Avimes, AUMI, Aicq, Caf, Progetto Qualità, ecc.), magari strizzando un occhiolino “partecipativo” ad associazioni e sindacati. La scommessa, infatti, è costruire un sistema di valutazione con la scuola e non contro di essa.

Un’agenda per la valutazione

Insomma, al di là del piccolo incidente di percorso per uno stage d’estate, ci stanno interrogativi più sostanziosi circa il posizionamento dell’INVALSI nel sistema dell’istruzione, del pluralismo della sua impostazione scientifica (l’Ente è commissariato e non c’è un organismo scientifico di indirizzo), della correttezza e pertinenza delle decisioni strategiche (manca la cabina di regia del sistema a tre gambe: Indire, Invalsi, Servizio ispettivo; manca una Direttiva del Ministro che rinnovi il mandato all’Invalsi, dopo l’approvazione del Regolamento con Dpr 80/2013).

Dopo le polemiche di questi anni, a partire dal testing generalizzato sugli apprendimenti, con una persistente diffidenza della scuola nei confronti del nascente sistema docimologico, non era certo il caso di accendere gli animi, ma piuttosto di accompagnare la scuola con gesti misurati e condivisi. Dunque, il 1° settembre 2013 -con il nuovo anno scolastico- sarà necessario voltare pagina e aprire una nuova agenda della valutazione.

In ballo non ci sono solo corsi e stage da fare (o non fare) ma molteplici aspetti della valutazione, che vanno oltre la portata dell’INVALSI che, ricordiamolo, dovrà occuparsi solo di un tassello della valutazione, quello relativo alla rilevazione strutturata degli apprendimenti. Valutazione è anche (e soprattutto) utilizzo quotidiano delle verifiche, rapporti con la didattica, procedure amministrative (voto o non voto…), certificazione delle competenze, valutazione/valorizzazione della professionalità, sistema degli esami, atti ispettivi, controlli di gestione, ecc.

Si tratta di una pluralità di aspetti che interrogano una pluralità di soggetti, in primo luogo gli operatori scolastici che ne devono fare uso quotidiano per regolare le loro azioni didattiche.

Una ragione in più per procedere con stile condiviso e partecipato.

da ScuolaOggi 14.08.13

Intervista a Carlo Padoan «I mercati iniziano a crederci», di Bianca Di Giovanni

I segnali ci sono, gli indici cominciano a cambiare di segno, le aspettative sembrano più rosee. Eppure nessuno sa veramente se il ciclo è a una svolta o meno. «Quello che ancora non si vede sono gli investimenti delle imprese», spiega Pier Carlo Padoan vicesegretario generale dell’Ocse. Insomma, siamo su un crinale che potrebbe condurre ad esiti imprevedibili. Tutta l’Europa condivide questa incertezza, perché soffre ancora di problemi strutturali profondi. Intanto in Italia si dibatte sull’Imu. «La questione delle tasse va affrontata in un quadro complessivo: non si risolve con un unico tributo», avverte Padoan.

Professore, dopo i dati diffusi da Eurostat si può parlare di ripresa in Europa?
«La questione è che ci sono vari indicatori che messi assieme indicano un punto di svolta, e che nei prossimi mesi il Pil in Europa avrà un segno positivo. La domanda è: si tratta di una vera inversione del ciclo?».
E come risponde a questa domanda?
«Per rispondere bisogna chiedersi da dove sta venendo questa ripresa. I segnali positivi sono sostenuti soprattutto dalla crescita delle esportazioni, che hanno agganciato una crescita sostenuta soprattutto negli Stati Uniti. Quello che ancora non si vede è la crescita degli investimenti, per non parlare dei consumi che arrivano sempre dopo. Gli investimenti ancora deboli sono l’eredità della grande crisi. In particolare manca ancora la fiducia delle imprese, che certamente migliora ma non è ancora abbastanza forte da convincere gli imprenditori a spendere. Inoltre il canale del credito è ancora asfittico».
Cosa aspettano di vedere le imprese per convincersi a investire?
«Negli anni passati si è registrato un crescente legame tra fiducia delle imprese e indirizzi di politica economica. Per esempio negli Stati Uniti le imprese non hanno investito per timore del fiscal cliff (il cosiddetto baratro fiscale, cioè un consistente aumento delle tasse simultaneo a un poderoso taglio di spesa pubblica, atteso per l’inizio del 2013, ndr). Anche i mercati guardano alla politica economica, cioè si chiedono se ci siano le condizioni per garantire un piano di sviluppo di medio termine. In Europa tuttavia le cose sono un po’ più complicate che in America».
Perché?
«Perché nell’Eurozona quello che i mercati si aspettano è la soluzione dei gravi problemi strutturali ancora irrisolti: dai mercati finanziari ancora frammentati alla sostenibilità del debito in alcuni Paesi dell’area periferica. Ma sostanzialmente quello che davvero manca è una strategia per la crescita, che vada oltre le sole parole e diventi azione concreta».
In Italia si sono visti segnali contraddittori, come il debito in crescita e lo spread in calo. Come si spiega?
«Il debito cresce per motivi quasi meccanici, in presenza di deficit di bilancio. C’è da aggiungere che quello che noi registriamo è il rapporto tra debito e Pil: se questo diminuisce automaticamente il rapporto peggiora. I mercati non sono impressionati da queste tendenze, che per l’appunto sono quasi automatiche. Il calo dello spread invece riflette la svolta del ciclo: se c’è la crescita vuol dire che il debito cala e che l’occupazione in futuro scenderà, con un miglioramento dei mercati».
Come mai il differenziale cala nonostante le fibrillazioni del governo Letta?
«Ci sono due ragioni. Prima di tutto i segnali di svolta di cui abbiamo parlato. In secondo luogo c’è da dire che il governo, pur nella difficoltà della maggioranza, sta prendendo decisioni concrete, come lo sblocco dei debiti della Pa e il contenimento del deficit. Questi sono fatti, che il mercato apprezza».
Come giudica il dibattito sulle tasse in corso oggi all’interno della maggioranza? «La questione del peso tributario è importante. Bisogna affrontarla in un quadro complessivo, in cui va fatta la scelta su quale tassa abbassare e quale no. L’obiettivo dichiarato è tornare a crescere e aumentare l’occupazione. Su questo le indicazioni sono chiare. L’evidenza empirica dice che per creare crescita e occupazione bisogna alleggerire le tasse sul lavoro e sulle imprese. Altre imposte hanno un effetto minore. Per questo la raccomandazione generale dell’Ocse è che qualunque scelta tributaria va fatta nell’ambito di un quadro generale: concentrarsi su una sola imposta significa varare misure dal fiato corto. Inoltre qualsiasi abbassamento di tasse non può che avvenire con coperture certe. Se domani per ipotesi tagliassimo un’imposta senza un corrispondente taglio di spese, avremmo l’effetto di perdere la fiducia del mercato. Svanirebbe quindi l’effetto positivo perché dovremmo pagare molto di più per la gestione del debito».
Quando si comincerà a vedere la svolta anche nell’occupazione? «L’occupazione segue sempre con ritardo di qualche trimestre la svolta del ciclo. Questo intervallo si può accelerare attraverso alcune misure, che il governo sta prendendo: ad esempio facilitare l’accesso ai servizi per il collocamento, oppure gli incentivi alle imprese per l’assunzione stabile di giovani».
Anche in Germania, a dispetto di chi ave- va segnalato una «locomotiva» in rallentamento, migliora la fiducia delle imprese. Come mai? C’è un effetto elezioni? «Paradossalmente in Germania il clima migliora perché si vede più vicino il recupero della zona euro. Questo dimostra che la Germania è pienamente integrata all’Europa e non può prescindere da questa».

l’Unità 14.08.13

“La destra oltre il Cavaliere”, di Carlo Galli

Il Capo dello Stato ha fatto chiarezza sulla vicenda Berlusconi, riportandola alle sue giuste dimensioni, cioè privatizzandola. Non può essere fatto valere, di fronte alla legge, un plusvalore politico; non si può giocare la legittimità derivante dal voto popolare contro la legalità degli ordinamenti; non esistono eccezioni personali davanti alla norma uguale per tutti; non si può pensare a patteggiamenti fra un reo e lo Stato come se fossimo davanti a due Stati sovrani che cercano un punto d’equilibrio fra i loro interessi. In quanto rappresentante della nazione, Napolitano ha anteposto l’interesse collettivo (la stabilità politica necessaria in questa delicata fase economica) al caso personale di un pur importante uomo politico; ha distinto il pubblico dal privato; ha, insomma, disgiunto quello che Berlusconi ha sempre confuso, l’Italia e il proprietario di Mediaset. E ha implicitamente invitato il Cavaliere a fare altrettanto, ossia a non far cadere il governo, da una parte, e, dall’altra, ad affrontare l’iter che il verdetto della Cassazione gli prospetta: decadenza dal Senato, accettazione della pena, sottomissione all’incandidabilità.
Quale che sia l’esito della vicenda, ancora tutto da vedere, la domanda più importante al riguardo è quella sul destino, e sulla stessa possibilità d’esistenza, di un’eventuale destra de-berlusconizzata, o post-berlusconiana. La destra, nella storia d’Italia, ha avuto un’esistenza tenace ma criptica; dopo avere espresso e gestito il disegno innovatore di un’unità d’Italia interpretata in chiave moderata, ha più spesso ceduto la propria autonomia politica ad altre forze e ad altre culture e tradizioni, accontentandosi di vedere salvaguardati alcuni interessi economici e alcuni pregiudizi sociali all’interno di configurazioni istituzionali e ad apparati intellettuali che le erano estranei. Tali furono il fascismo (che con la destra venne a patti, lungamente, ma che alla fine ne fu rovesciato) e la democrazia cristiana, che dalla destra prese i voti ma li utilizzò in direzione diversa e a volte opposta, come si conveniva a un partito di centro che guardava a sinistra e che perseguiva, più o meno coerentemente, un suo disegno autonomo.
È con la fine della prima repubblica che la destra si è trovata sola, costretta ad assumersi responsabilità dirette, a prendere una configurazione politica precisa. E sulla sua strada non ha trovato Cavour (e neppure De Gaulle) ma Berlusconi che con il sempre valido collante dell’anticomunismo e di un ossequio di facciata al cattolicesimo, ha propagandato un liberalismo di massa ma nella pratica ha realizzato l’incontro fra un neo-corporativismo e un leaderismo populistico, fra disuguaglianza e finzione mediatica, che ha avuto l’effetto di paralizzare la modernizzazione dell’Italia, di frammentare la società, di ledere lo spirito civico e la lealtà repubblicana, di sostituire l’eccezione alla norma e la dismisura alla misura, di abituare il Paese a una politica in cui tutto è possibile perché nulla, nessun principio e nessuna regola, è rispettato. Una politica senza idee e senza futuro, quella della destra, che ha dovuto essere dapprima supplita dai tecnici e poi, ora, diluirsi in un governo di larghe intese.
Una destra senza Berlusconi oggi è difficilmente pensabile e praticabile: Fini e Monti, con i loro pur diversi insuccessi politici, dimostrano quanto la destra italiana sia poco permeabile a temi e impostazioni che, pure, sono le bandiere delle destre moderne: senso dello Stato, spirito di legalità, rigore economico. La successione a Berlusconi non è quindi una questione dinastica (Marina ha rinunciato al trono) e neppure una questione di leader-ship: il problema infatti non è solo nell’individuare chi prenderà il posto del Capo (se questi lo lascerà libero) ma è un problema d’identità. Anche la destra deve reinventarsi, insomma, e decidere che cosa vuole essere: sciogliersi in un contenitore neo-centrista, restare un insieme di cordate di interessi disparati in salsa populista (quale finora è stata), diventare un punto di raccolta di pulsioni antidemocratiche, razziste e antieuropee (ruolo assegnato finora alla Lega), o risolversi in un moderno partito conservatore, che si è rappacificato con la costituzione e con la magistratura, che non coltiva né i miti del «Berlusconi martire» né sogni autoritari, e che raccoglie l’opinione moderata in una prospettiva liberaldemocratica. In ogni caso, non si tratta di una questione interna al campo avversario: è tutto il Paese a non potersi permettere, su un lato dello scheramento politico, un vuoto che fatalmente inceppa anche l’altro e azzoppa la democrazia.

L’Unità 14.08.13

“Il presidente rimette le cose al loro posto”, di Mario Lavia

Limatissima fino all’ultima virgola, la dichiarazione di Giorgio Napolitano fissa diversi punti fermi dai quali ora non si può tornare indietro. Dopo tante pressioni, anche indebite, sono parole definitive. Chiare. Il primo punto fermo riguarda quel governo Letta – una crisi «sarebbe fatale» – di cui il capo dello stato si conferma essere il “padre” e che egli considera come l’unico strumento in grado di risollevare le sorti del paese. Un mantello steso nel vivo della più dura contesa politica, per porre il governo al riparo: e con ciò le ipotesi ritorsive di un suo siluramento vengono a cadere.
Secondo, il messaggio di comprensione
che il presidente ha voluto inviare ad un partito – il Pdl – tramortito dalla condanna di Berlusconi. Con un non casuale (e inedito) riconoscmento del diritto di manifestare «riserve e dissensi» sulla sentenza, tuttavia escludendo attacchi alla funzione della magistratura.
Terzo, nel merito del problema-Berlusconi, Napolitano è stato fermo, come era prevedibile: nessuno lo tiri per la giacca in cerca di vie surrettizie per aggirare la sentenza e «il conseguente obbligo di
applicarla». Non ci possono essere vie traverse, né tantomeno trattative occulte. C’è la via maestra prevista dalla legge. Che,
per inciso, nel caso del capo della destra, non prevede il carcere.
E la grazia? Non è stata richiesta. Qualora il Cavaliere la volesse, dovrebbe chiederla, come vuole la prassi: poi ci sarebbe una regolare istruttoria e un’eventuale decisione. Se e quando sarà. Posizione correttissima, che solo una propaganda prefabbricata ma debole come quella dei grillini può sottoporre a rilievi.
Né spetta al capo dello stato risolvere il problema politico che il pdl ha. Decida coa intende fare. Sarà ancora Berlusconi il capo della destra italiana? E in quale forma? O
passerà la mano? Interrogativi pesanti, che non possono sfiorare il Quirinale. Al quale sta solo una preoccupazione, e grande:
garantire all’Italia «una prospettiva di serenità e coesione», fuori dallo «scontro distruttivo» che ha lambito in questi giorni
lo stesso Colle più alto. Ecco, ora Berlusconi sa tutto. E lo sanno anche gli italiani, i più interessati al ristabilimento di una politica normale. Adesso le cose sono al loro posto.

da Europa Quotidiano 14.08.13

“L’unico percorso possibile”, di Stefano Folli

Fin dall’inizio era chiaro che la grazia presidenziale non ci sarebbe stata. Nell’idea di certi personaggi vicini a Berlusconi, doveva essere una specie di sconfessione della magistratura da parte del Quirinale. Ma il solo chiederlo era del tutto insensato e infatti nessuno ha avuto questo coraggio, al di là dei furori mediatici. Le sentenze divenute definitive si applicano, dice Giorgio Napolitano. Magari si dissente da quello che la Cassazione ha deciso e anche questo è legittimo; e tuttavia non si butta all’aria il Governo, non si fa pagare al Paese un prezzo inaccettabile. Si accetta il verdetto con rispetto e senso delle istituzioni.

Il presidente della Repubblica è molto chiaro nella sua nota: la più attesa, la più politica, quella da cui può dipendere il futuro di una legislatura cominciata da pochi mesi.

Ma egli non si limita a sottolineare che Berlusconi oggi può solo scontare la sua pena, sentendosi emarginato dalla dialettica democratica. In realtà il capo dello Stato risponde alla domanda di fondo che è arrivata dal Pdl: come consentire a Berlusconi un certo grado di “agibilità politica”, espressione oscura che significa permettere al leader di restare in qualche forma nell’agone politico. Qui la risposta di Napolitano, che si è trovato a interpretare in solitudine quasi un quarto grado di giudizio, è complessa nella forma, ma molto esplicita nella sostanza.

Si riconosce a Berlusconi di essere stato un protagonista innegabile della scena nazionale e di essere ancora il capo incontrastato di una forza “importante”, tanto importante che da essa discende la stabilità del Governo. Quindi il leader del Pdl ha nelle mani un grande responsabilità, al di là dei casi che riguardano la sua persona: egli resterà alla guida del suo partito nelle forme che saranno possibili e opportune. Continuerà a svolgere un ruolo politico, ma commetterebbe un errore imperdonabile se distruggesse l’equilibrio attuale, quello che si riassume nel Governo Letta e che egli stesso ha contribuito a costruire.

Non solo. Fra le righe il presidente sembra suggerire a Berlusconi di accettare l’affidamento ai servizi sociali. Per meglio dire, gli suggerisce di avere fiducia e di avviarsi lungo un percorso virtuoso di riabilitazione per il periodo, circa un anno, in cui dovrà scontare la pena. È l’opposto esatto della linea, pressoché eversiva, di chi ha consigliato all’ex premier condannato di correre l’avventura delle elezioni anticipate. Eppure la storia di Berlusconi è fatta di mosse d’azzardo, ma anche di gesti di forte realismo. Tutto lascia pensare che stavolta, giunto al momento più difficile della sua vita pubblica, egli sceglierà ancora una volta il realismo. Del resto, la nota solenne di Napolitano è il frutto di un lavoro preparatorio e non è certo destinata a cadere nel vuoto delle polemiche. Serve a chiudere la vicenda, per quanto è possibile, salvando il Governo e l’assetto delle larghe intese faticosamente messo in piedi. Non è un caso se il punto politico – la preoccupazione per la sorte del Governo – apre e chiude la nota scritta di suo pugno dal capo dello Stato.

Quanto a Berlusconi, egli può persino vedere la luce in fondo al suo personale tunnel. Non quella che avrebbe desiderato in base a una bizzarra concezione dello Stato di diritto e dei poteri del Quirinale. Ma la luce di un sentiero che potrebbe portarlo in futuro anche alla grazia. Purché, sia chiaro, si seguano tutte le procedure, si lasci al presidente il compito costituzionale di valutare e soprattutto, nel frattempo, si proceda con l’espiazione della pena. Poi, se le circostanze saranno propizie e soprattutto se nessuno avrà scassato l’equilibrio politico per vendetta o ritorsione, si vedrà. Senza alcuna forzatura istituzionale. Questo significa che il leader del Pdl è in grado di costruirsi la propria “agibilità politica”. Immediata per quanto riguarda il destino del Pdl o di Forza Italia, come di nuovo si chiamerà: formazioni di cui egli continuerà a essere il capo. Ma c’è un’agibilità più sostanziale, più idonea a un uomo che è stato per tanti anni presidente del Consiglio di questo Paese: ed è quella che discende dal pagare per i propri errori accettando il verdetto della magistratura, garantendo al tempo stesso la necessaria stabilità.

Il Sole 24 Ore 14.08.13

“In nome della legge”, di Massimo Giannini

Avevano preso l’impunità giudiziaria e l’avevano chiamata “agibilità politica”. L’ennesimo trucco, etico e politico, che violenta le parole e la verità. Per fortuna, il tentativo, tecnicamente eversivo, è fallito. Giorgio Napolitano rompe l’assedio che da settimane Berlusconi e le truppe del Pdl avevano lanciato intorno al Colle. E lo fa nel modo più fermo, chiaro e inequivoco. Lo fa da vero garante della Costituzione, quale è sempre stato nel corso di uno dei settennati più difficili dal dopoguerra. Lo fa da vero custode dei valori repubblicani, che vedono nell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e nel principio di bilanciamento e separazione dei poteri due capisaldi irrinunciabili per il buon funzionamento della vita democratica.
Il comunicato del Quirinale ha una doppia chiave di lettura, che cambia e ridefinisce il corso della legislatura, in nome della legalità e della stabilità. C’è una chiave di lettura costituzionale, che ruota intorno a tre cardini principali. Il primo cardine: le sentenze, specie se definitive, vanno sempre e comunque applicate.
Dunque, non c’è spazio per scorciatoie o manipolazioni: il Cavaliere è stato condannato a quattro anni per frode fiscale, e da questa realtà processuale non si può sfuggire.
Le decisioni di tre organi giurisdizionali si possono criticare, nel rispetto della divisione dei poteri, ma non certo disapplicare. E certo non si possono minacciare ritorsioni antidemocratiche contro la magistratura. Sembra una banalità, e lo sarebbe, in una qualunque democrazia europea. Riaffermarlo nell’Italia di oggi, è invece un grande merito civico del Capo dello Stato. Il secondo cardine: Berlusconi non andrà comunque in carcere, e questo fa piazza pulita, una volta per tutte, delle grida sguaiate e bugiarde dei falchi della destra, che urlano allo scandalo da settimane per un leader eletto e acclamato dal popolo ma condannato a concludere il suo glorioso cursus honorum
nelle patrie galere. Non andrà così, perché Berlusconi è un ultra-settantenne e perché per lui sono previste pene alternative al carcere, come per ogni pregiudicato nelle sue stesse condizioni. Il terzo cardine: la grazia, della quale nel cerchio magico berlusconiano si favoleggiava da giorni, resta al momento una chiacchiera da bar, anzi da saloon. Non ci sono le condizioni tecnico-giuridiche, perché nessuno l’ha chiesta. Se qualcuno la chiederà, il Quirinale la tratterà come tutte le altre domande di grazia: ossia valutandone attentamente il fondamento. È il massimo che il Colle può concedere e il Pdl si deve accontentare di questo.
E comunque un’eventuale clemenza inciderebbe solo sulla pena principale, cioè sulla condanna alla reclusione, e non anche sulla pena accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici. Questa, come si legge esplicitamente nel testo del Colle, nessuno la potrà mai togliere a Berlusconi, nel momento in cui la Corte d’appello l’avrà ricalcolata.
Dunque, non ci sono spazi per alcun salvacondotto, per il quale, nonostante la propaganda sediziosa degli esagitati dirigenti del partito del popolo delle libertà, mancano le condizioni etico-politiche.
Ed è proprio qui che s’innesta l’altra chiave di lettura dell’intervento di Napolitano, che è appunto tutta politica, e che discende direttamente e naturalmente dalla chiave di lettura costituzionale. Anche in questo caso, i cardini del discorso di Napolitano sono almeno due. Il primo cardine: il governo Letta, a questo punto, esce decisamente rafforzato dalla nota del Colle. Per la semplice ragione che viene riaffermato
e rienfatizzato il suo carattere di assoluta eccezionalità, ma al tempo stesso di assoluta necessità: dalle parole del Capo dello Stato si evince chiaramente che nell’attuale fase di crisi acuta che l’economia sta attraversando, non sarà consentito alcuno scioglimento anticipato delle Camere soltanto per opporsi ad una sentenza della Corte di Cassazione. Questo disarma ulteriormente e platealmente la lotta esasperata portata avanti fino a questo momento dal pregiudicato Berlusconi.
Il secondo cardine: se non ci sono margini per garantire in altri modi, impropri e inaccettabili, la cosiddetta “agibilità politica” di Berlusconi, allora questo significa che in un modo o nell’altro il suo destino politico è segnato. Per questo, tocca solo al Cavaliere e al suo partito decidere il futuro della destra italiana. Tocca al Cavaliere decidere se il destino dei sedicenti moderati italiani si debba esaurire con l’avventura autocratica e cesarista della vecchia o nuova Forza Italia, dove il potere si tramanda magari di padre in figlia per diritto dinastico, oppure se si possa aprire una fase nuova, nella quale il partito-azienda, guidato da un solo padre-padrone, può evolvere verso una dimensione finalmente plurale della leadership. E tocca ai colonnelli del Pdl decidere se il destino dei cattolici liberali e dei laici liberisti si debba esaurire con la sventura sfascista
e populista del forzaleghismo, o si possa aprire un ciclo diverso, nel quale il partito di plastica può evolvere verso l’identità risolta dei conservatori di tutta Europa.
È una scelta complessa, dopo il Ventennio dominato dal sedicente “statista di Arcore”. Ma è ormai una scelta irreversibile. La posta in gioco, come ha chiarito implicitamente la nota del presidente della Repubblica, non è e non è mai stata quella di eliminare un avversario politico per via giudiziaria, come è andata ripetendo per anni, mesi, settimane e giorni l’armata Brancaleone riunita intorno al Cavaliere. Molto più semplicemente, si tratta di riaffermare e salvaguardare non una persona, ma lo Stato di diritto.
E si tratta di ricreare le condizioni perché nasca finalmente una destra normale, anche in questo sciagurato paese. L’Italia può tornare ad essere una grande democrazia occidentale. Non può ridursi a essere una piccola satrapia mediorientale.

La Repubblica 14.08.13