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“Cosa c’è dietro l’attacco al presidente”, di Michele Prospero

Cosa si muove dietro l’attacco reiterato di certi ambienti politico-culturali contro il Presidente della Repubblica? Tra gli affondi spericolati dei falchi della destra, le giravolte aggressive di Grillo e le sciabolate provenienti da un giustizialismo antipolitico caldeggiato da influenti giornali-partito, esiste una grande convergenza nel puntare il fuoco contro il Quirinale. C’è di sicuro del metodo in così tanta follia.
E in effetti, entro una crisi di sistema che potrebbe subire in qualsiasi momento una improvvisa torsione catastrofica, il Colle è rimasto l’essenziale elemento di tenuta dell’ordinamento repubblicano. Franati sono i partiti, che per la loro evanescenza ed elevata frammentazione interna non possono più operare come reali fattori di stabilizzazione. Il Parlamento versa in un continuo stato di affanno per la presenza di un tripolarismo polarizzato che impone rimedi di emergenza e sollecita continui sforzi del Colle per costringere gli attori in campo ad adottare un minimo di razionalità strategica.
Il valore politico della stabilità è al centro della politica istituzionale dell’ultimo Napolitano. La tenuta del quadro parlamentare è da lui percepita come un elemento imprescindibile per scongiurare la saldatura tra la crisi economica, la caduta della credibilità internazionale del Paese, la crisi-crollo del sistema politico. Si possono valutare in vario modo le singole mosse del Colle e discuterle persino in modo critico, ma non è certo agevole rigettare il significato storico che la continuità delle istituzioni in quanto tale possiede in una fase convulsa di crisi di sistema, di oscuramento delle culture di massa.
Non è semplice affermare il canone della stabilità in una democrazia che, nel recente appuntamento elettorale di febbraio, ha dato il 55 per cento dei consensi all’eterogeneo blocco antipolitico costituito dalla destra berlusconiana e dal movimento di Grillo. Un ulteriore fattore di complicazione è stata poi l’implosione repentina del Pd registrata nel corso delle elezioni per il Presidente della Repubblica. La governabilità, in tali condizioni di estrema vulnerabilità sistemica e di alienazione politica della società civile, pare un autentico miracolo politico.
In un quadro di così evidente provvisorietà e incertezza, la stabilità politica diventa un miraggio perché la strana maggioranza che la incarna è logorata di continuo da un partito personale che strapazza il valore della separazione dei poteri, sfida il principio della legalità. L’inaffidabilità e anche la slealtà della destra complicano il cammino di un anomalo governo di coalizione riproponendo il volto terribile della politica, costretta ad affermare il suo connotato costruttivo pur in presenza di attori irresponsabili che esibiscono spudoratamente il volto di un neopatrimonialismo regressivo.
La categoria del presidenzialismo di fatto, raccolta per descrivere la sovraesposizione del Quirinale nel tentativo di conservare tra le macerie un biennio di stabilità politica per poi ripristinare il gioco dell’alternanza, è una sciocca metafora. Certi sedicenti difensori della Costituzione, che la diffondono con troppa leggerezza, trascurano che se davvero la Carta del 1948 è solo una forma vuota, e se la geografia dei poteri è stata stravolta proprio dal suo custode, non ha senso alcuno l’appello a difenderla. Non si difendono i cadaveri. Ma la Carta non è uno spettro anche perché l’azione di supplenza di Napolitano resta l’emblema di un regime parlamentare che, nell’emergenza acclarata, sa trovare le risorse estreme per sopravvivere e sfidare le contingenze più avverse. Il parlamentarismo non equivale a un regime imbelle, incapace di governare le eccezioni. Già Massimo Luciani, su queste colonne, ha rimarcato il tratto iper-parlamentare dell’esperienza del secondo mandato di Napolitano. Alludendo a una sorta di mandato a tempo, il Presidente non persegue certo un disegno personale di stravolgimento degli equilibri costituzionali più delicati. Opera invece tra gli scogli con un interventismo di marca parlamentare, necessario per il ripristino integrale delle condizioni istituzionali di una democrazia dell’alternanza.
La cultura dell’uomo solo al comando, che gode di molteplici e trasversali bocche di fuoco, vede nel Quirinale l’ultima roccaforte di un regime parlamentare in agonia, che si intende seppellire in fretta per marciare verso un altro sistema a traino carismatico. Dietro l’aspra battaglia contro Napolitano opera dunque un concentrato di forze eterogenee che (in maniera consapevole o meno, poco importa) sperano in una irreversibile crisi di regime. E proprio la caduta dell’ordinamento dinanzi al precipitare della crisi è salutata come l’occasione propizia per la comparsa mitica dell’uomo del destino che con la carrozza del commissario pronuncia la parola fine alla decrepita democrazia costituzionale.

L’Unità 15.08.13

“Precari, in migliaia passeranno il Ferragosto senza stipendio”, di Alessandro Giuliani

I mancati pagamenti riguardano in prevalenza il servizio svolto negli ultimi mesi dell’anno: su internet è stata pubblicata la lista nera con tanto di nominativi degli istituti “morosi”. Non pochi supplenti hanno già provveduto ad inviare alle scuole un atto di diffida e messa in mora. Ma per tanti la situazione non si sblocca. E il malessere cresce.
A pochi giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico sono migliaia i docenti, amministrativi, tecnici e ausiliari della scuola che attendono di essere pagati dagli istituti dove hanno svolto supplenze cosiddette “brevi”: mancate autorizzazioni, ritardi negli stanziamenti, eccesso di burocrazia ed ora rallentamenti dovuti alla carenza di personale, stanno costringendo tantissimi supplenti a vivere l’estate senza il corrispettivo economico che avrebbero dovuto percepire. In alcuni casi anche da diversi mesi. Se la maggior parte di loro attende gli stipendi dei mesi di aprile, maggio e giugno, non mancano infatti i casi in cui i mancati pagamenti riguardano addirittura gli ultimi mesi del 2012.
Dal ministero dell’Istruzione continuano a sostenere che si tratta di casi sporadici. Qualche giorno fa, però, i docenti hanno deciso di mettere on line una vera e propria “black list”, con tanto di nominativi degli istituti “morosi”. Eppure una circolare del Miur di inizio mese fa sembrava dover risolvere finalmente tutti i problemi della retribuzione del personale precario: l’amministrazione centrale, con l’avallo della Direzione Generale per la Politica Finanziaria e del Bilancio, ha infatti inviato agli istituti l’invito a “procedere entro il 30 agosto p.v. a tutti i pagamenti corrispondenti a contratti per supplenze brevi e saltuarie stipulati fino ad agosto, utilizzando, in ogni caso, la disponibilità, anche parziale, per i pagamenti necessari. Le disponibilità non utilizzate saranno azzerate dal 31 agosto”. Ma evidentemente l’invito del Ministero non è servito a molto. Diversi docenti, anche nostri lettori, continuano a lamentare la mancata assegnazione degli stipendi. E ora, considerando che nei prossimi dieci giorni le segreterie scolastiche lavoreranno a regime ridotto, c’è ora anche da temere che quei pagamenti possano essere addirittura “congelati” e corrisposti a data da destinarsi.
Eppure, in base agli articoli 36 e 97 della Costituzione Italiana, la corresponsione dello stipendio non può essere cancellata. Diversi precari hanno già inviato alle scuole che non hanno onorato i contratti di lavoro sottoscritti, un atto di diffida e messa in mora. Anche perché, giunti a questo punto, ad una manciata di giorni dal nuovo anno scolastico, non vi sono più motivazioni valide per non procedere ai pagamenti.

La Tecnica della scuola 15.08.13

“Crisi dimenticate: da Nord a Sud persi 180mila posti”, di Massimo Franchi

Se proprio il settore industriale pare trainare la ripresina italiana, l’elenco infinito di aziende in crisi dice tutt’altro. A fianco dei casi che fanno notizia (Indesit, Acciaierie di Terni, Alcoa e Fiat) ci sono tantissime crisi che passano inosservate, ma sono quelle che più colpiscono sul territorio, quelle che, sommate una all’altra, formano i numeri della crisi. Secondo la Filctem Cgil dal 2008 tra licenziamenti, mobilità, cassa integrazioni e processi di ristrutturazione, i lavoratori coinvolti nei settori chimici, tessili, energia e farmaceutico (tutto il comparto industriale tranne il metalmeccanico) ha già coinvolto più di 180mila lavoratori. Una cifra in costante aumento. Perché la crisi continua a colpire e la luce in fondo al tunnel i lavoratori non la vedono per niente.

DESERTIFICAZIONE INDUSTRIALE Ecco dunque una mappa della crisi invisibile, un Giro d’Italia nei territori più colpiti dalla de-industrializzazione. Si parte da Marghera, un tempo la Mecca della chimica italiana. Accanto agli operai della Vinyls, che se all’Asinara hanno occupato l’isola dei cassintegrati a Marghera sono saliti sul campanile e sulle torce spente del petrolchimico, ottenendo sei mesi di esercizio provvisorio dal Tribunale di Venezia, ci sono le crisi della raffineria Eni, le chiusure di Montefibre, Dow Chemical e Sirma, le crisi di Solvay, Pilkington, Pansac International e Reckitt Benckiser, le difficoltà dei distretti del vetro di Murano e del calzaturiero della Riviera del Brenta: in totale, nell’arco di un quinquennio, sono finiti in mobilità oltre 24mila lavoratori. Scendendo leggermente a Sud, non va meglio a Ferrara. Il Centro di ricerche «Giulio Natta» è un vanto per il Paese e ogni anno sforna i due terzi dei brevetti internazionali della società proprietaria: la Lyondell Basell. Ma la multinazionale olandese-americana a gennaio ha annunciato un drastico ridimensionamento del sito, con 105 esuberi su 850 addetti. Il tutto nonostante ricavi per 51 miliardi di dollari. 1119 luglio, grazie anche alla mediazione della Regione Emilia-Romagna, arriva una boccata d’ossigeno: niente licenziamenti ma 41 esodi volontari e prepensionamenti. Un accordo che dovrà essere perfezionato il 20 settembre. La Basell era stata poi la prima e apripista ad abbandonare il polo dell’acciaio a Terni. A fine 2011 chiuse un impianto con 70 addetti. L’hanno già seguita finendo in commissariamento o in amministrazione straordinaria Treofan, Meraklon spa e Meraklon Yarn. La Sardegna è ancora l’epicentro della crisi. Oltre alla vertenza infinita degli operai dell’Alcoa, la lotta è forte anche a Fiume Santo (Sassari), dove il gruppo energetico tedesco E On, proprietario della centrale, pur continuando a guadagnare (70 milioni di utili nel 2012) non dà corso all’investimento previsto di costruzione del nuovo complesso a carbone, in sostituzione dei gruppi a olio combustibile, obsoleti e inquinanti: l’effetto immediato è la richiesta di 120 esuberi su 245 unità. Completano la panoramica sui poli chimici i ridimensionamenti avvenuti nelle aree industriali di Siracusa e Gela con migliaia di esuberi che colpiscono l’intera Sicilia.

IL CASO DELLA FARMACEUTICA Senza dimenticare la crisi del comparto farmaceutico, che negli ultimi cinque anni ha perso 10 mila posti di lavoro, tra Sigma Tau, Pfizer, Corden Pharma, Sanofi Aventis, Takeda, Bristol Myers Squibb, Menarini, AbbVie, tutte società investite da forti ridimensionamenti. Di più: proprio recentemente la «Merck Sharp & Dhome» ha annunciato la chiusura del sito di Pavia, mettendo a rischio 270 lavoratori. «Gli annunci di grandi gruppi – esordisce Emilio Miceli, segretario generale della Filctem-Cgil – che si ritirano dal contesto italiano ed europeo sono davvero pesanti: molti di loro considerano esaurita l’esperienza industriale nel nostro paese, senza che le istituzioni – italiane ed europee – muovano un dito, siano in grado di una vera discussione su ciò che sta avvenendo.Dal nostro osservatorio, ovunque, dalla grande alla piccola impresa, siamo in una condizione di assoluta disperazione

L’Unità 15.08.13

“Il fallimento dell’islamismo moderato”, di Roberto Toscano

Quello che si temeva è avvenuto: l’esercito egiziano ha dato inizio – con l’uso delle armi e con l’impiego di mezzi blindati e bulldozer – alle operazioni per lo sgombero degli accampamenti allestiti dagli aderenti al movimento dei Fratelli Musulmani per protestare contro il colpo di Stato e l’arresto del presidente Morsi e di altri dirigenti del movimento.
Si registrano già centinaia di vittime, sia al Cairo che in altre località, e fra i morti ci sono anche giornalisti stranieri (fra cui un cameraman di Sky). Vi sono pochi dubbi sull’esito della repressione militare. Gli accampamenti verranno di certo smantellati, e il potere del generale al-Sisi ne risulterà rafforzato. Intanto, è stato proclamato lo stato di emergenza, che fornirà all’esercito ulteriori strumenti di controllo e repressione.

Diventa così sempre più difficile definire l’intervento militare come qualcosa di diverso da un colpo di Stato.
Non si tratta di disquisizioni politologiche, ma di semplice constatazione di fatti reali – fatti che rendono insostenibile la tesi del “golpe per la democrazia”, a meno di non volere parafrasare quel colonnello americano che in Vietnam, dopo che un villaggio era stato raso al suolo dall’aviazione, aveva detto: “E’ stato necessario distruggere il villaggio per salvarlo”.

Un golpe non certo democratico – scrive d’altra parte il professor Parsi sul Sole-24 Ore – bensì rivoluzionario. E cita il parallelo del «18 Brumaio» di Napoleone. Bonapartismo: in fondo niente di nuovo, e soprattutto niente di nuovo in Egitto, da Nasser (e prima di lui Neguib) a Sadat a Mubarak. Dovremmo quindi abbandonare i moralismi e rassegnarci al fatto che in una prospettiva storica la rivoluzione ha spesso bisogno di essere promossa con la violenza armata. La «levatrice della Storia», come dicevano i leninisti.

Non credo che fosse quello che prevedevamo, e speravamo, quando avevamo salutato con grande simpatia ed entusiasmo la Primavera Araba. Colpisce anzi la sorprendente volubilità di gran parte dell’opinione pubblica occidentale che, dopo aver dato anche troppo credito all’ipotesi dell’islamismo moderato, adesso prende per buone le assicurazioni di un esercito che proclama la propria intenzione di difendere la rivoluzione e l’interesse nazionale, ma in realtà è impegnato nella restaurazione del proprio potere sia politico che economico.

Certo, è assurdo – come ha fatto la Premio Nobel per la Pace yemenita Tawwakkul Karman – definire Morsi, personaggio mediocre, incompetente e autoritario, come un altro Mandela. Ma se le forze armate dovessero rovesciare tutti gli incompetenti con tendenze autoritarie avrebbero di certo un bel da fare, e non solo in Egitto.
Non sarà comunque facile, alla luce dello spargimento di sangue di oggi, e di quelli che probabilmente seguiranno (anche dopo le delusioni del governo Morsi i simpatizzanti dei Fratelli Musulmani sono pur sempre centinaia di migliaia), mantenere l’apertura di credito ai militari egiziani, quell’atteggiamento favorevole che, come scrive Adam Shatz nella London Review of Books, vede «un’improbabile coalizione di sostenitori del golpe, da Tony Blair a Bashar al-Assad, dai vertici dell’intelligence israeliana a, soprattutto, Arabia Saudita ed Emirati».

Diventerà anche difficile per i liberali egiziani, che hanno aderito al golpe in odio ai Fratelli Musulmani, continuare a sostenere i militari, almeno apertamente. Infatti, come aveva minacciato nel caso i sit-on fossero stati smantellati con la forza, ieri sera il vice presidente El Baradei si è dimesso. La questione islamista, in ogni caso, non è risolta. Ben diversa sarebbe stata una sconfitta elettorale, che avrebbe sanzionato un fallimento politico che ora viene mascherato, e addirittura nobilitato dalla brutale vittimizzazione degli islamisti prodotta dalla repressione violenta.

E’ in ogni caso estremamente difficile poter sperare che la futura vicenda politica dell’Egitto possa sfuggire ad un perverso ciclo di violenza. E’ subito inquietante la notizia di attacchi a case, negozi e chiese di cristiani copti, per gli islamisti capri espiatori ideali. Faremmo anche bene a chiederci come mai i salafiti, islamisti radicali e apertamente antidemocratici che hanno sempre accusato i Fratelli Musulmani di essere degli illusi perché propongono una via pacifica all’islamismo, facciano parte della «improbabile coalizione» filogolpista.

Nulla di buono nemmeno per noi, sull’altra riva del Mediterraneo. Sembra che negli ultimi sbarchi di clandestini sulle nostre coste ci fossero molti siriani, ma anche egiziani. Non più quindi una emigrazione prodotta dalla miseria ma la fuga da conflitti e violenze. Il fatto è che siamo tutti, sia europei che americani, incapaci di individuare una linea politica sostenibile: i militari non tornano indietro, mentre una loro sconfessione aperta comporterebbe (soprattutto per Washington) la sospensione di aiuti senza i quali l’Egitto sprofonderebbe nel caos più totale. L’idea di un islamismo moderato ha subito un duplice colpo: da un lato il fallimento dell’esperienza di governo e dall’altro il rovesciamento violento di un governo islamista democraticamente eletto, che ha indebolito ulteriormente la già tenue ipotesi di una via pacifica.

I liberali, quelli che avevamo sperato potessero svolgere un ruolo importante dopo la caduta di Mubarak, sono numericamente deboli e vittime di una pesante contraddizione: come si fa a difendere democrazia e laicità con i carri armati? La crisi egiziana è solo all’inizio.

La Stampa 15.08.13

“La condizione per arrivare al 2015”, di Claudio Sardo

In un Paese normale oggi si discuterebbe soprattutto dei timidi, eppure importanti segnali di ripresa europea: di come rafforzarla – a fronte del rallentamento delle economie emergenti – e di come evitare che la disoccupazione resti una variabile indipendente. In un Paese normale si discuterebbe con serietà di riforme, dopo il fallimento della seconda Repubblica. Altro che presidenzialismo! Dobbiamo ammodernare e rendere efficiente quel sistema parlamentare, che i nostri costituenti ci hanno consegnato e che nell’ultimo ventennio è stato manomesso (mentre nel resto d’Europa funziona bene). Invece, mentre l’Egitto diventa l’epicentro di un Medio oriente destabilizzato e potenzialmente esplosivo, mentre l’Occidente mostra la sua drammatica impotenza, in Italia si parla di Berlusconi che non ha ancora deciso se ribellarsi (?) o accettare la condanna a suo carico. Si parlasse almeno del futuro della destra dopo Berlusconi, dell’ormai inevitabile cambiamento di uomini e di strategie, dell’apporto (o della rinuncia) della destra al governo Letta e a questa breve legislatura, che comunque non potrà spingere le elezioni politiche oltre la primavera del 2015. Invece no. Da noi si favoleggia di trucchi e di strategie degli avvocati del Cavaliere per fare slalom tra un’udienza e un provvedimento giudiziario, tra un processo e un voto in Parlamento. Si continua a polemizzare sulla grazia, a sproposito, anche dopo la nota del Capo dello Stato, che ha rimarcato con forza come ogni atto di clemenza sia obbligatoriamente subordinato da un lato alla legge, alla giurisprudenza e alla «prassi» seguita in precedenza, e dall’altro al rispetto della «sostanza» e della «legittimità» della «sentenza passata in giudicato».
E polemiche contro Napolitano arrivano anche dal fronte opposto, da settori del radicalismo disperati al pensiero che Berlusconi non sia più in campo. Questi colpiscono Napolitano per colpire la continuità costituzionale, per accelerare la crisi di sistema nell’illusione estremista che la fine del Cavaliere azzeri tutto e apra la porta a chissà quale svolta salvifica. Ma chi produce solo macerie, chi vuole solo distruggere, non costruirà mai un bel nulla. La storia nazionale ha già insegnato alla sinistra che il presidio delle istituzioni, come ha scritto Reichlin di recente sul nostro giornale, è parte essenziale della sua battaglia sociale per il cambiamento. Averlo dimenticato in passato, è stato il preludio di sconfitte catastrofiche. l governo Letta è oggi parte di questo presidio. Non vuol dire che debba andare avanti a tutti i costi. Anzi, la sinistra deve essere esigente: il governo può vivere solo se il Pd sarà capace di incalzarlo sui diversi fronti. Ovviamente sul rispetto rigoroso della legalità e della separazione dei poteri. Sull’equità distributiva, a partire dall’Imu. Sull’impegno per le riforme elettorali e istituzionali (almeno la fine del bicameralismo paritario e la sfiducia costruttiva).
Ma è tempo di dirlo con chiarezza: sarebbe un bene per il Paese, e dunque non può che esserlo per la sinistra, che Letta completi il suo percorso fino alla fine del semestre di presidenza italiana dell’Ue. Naturalmente, la destra può rendere impossibile il cammino. Tuttavia sarebbe grave se, per ragioni egoistiche, il congresso del Pd entrasse in rotta di collisione con un governo che comunque è in parte non secondaria espressione della sua classe dirigente.
Dal canto suo, il Pdl è davanti a un bivio. La nota del Capo dello Stato ha reso ancora più chiare le scelte alternative. O Berlusconi si dimette da senatore, e apre la strada a una destra democratica, plurale, contendibile, europea, oppure la destra diventerà, come corpo collettivo, un fattore di destabilizzazione istituzionale. Perché Berlusconi la userà, al pari dei suoi avvocati, come arma di una battaglia disperata per sottrarsi al diritto. Il problema non è la grazia. Il presidente della Repubblica lo ha detto in modo chiaro. Il problema è cosa decidono di fare Berlusconi e il Pdl. La destra italiana non è un fatto criminale. Ha radici politiche nella società e l’Italia ha diritto a una destra rispettosa della Costituzione. Ma, come ha scritto Napolitano, le sentenze definitive si rispettano e si applicano. Senza eccezioni. Se Berlusconi intende usare la sua forza residua per manomettere il diritto, non ci sarà la grazia, né resterà il governo. Ci sarà un conflitto istituzionale globale. Il governo Letta, invece, così come ha garantito neutralità sui processi, può garantire il passaggio a una nuova competizione politica, con una destra finalmente post-berlusconiana. La scelta è questa: se si arriva al 2015, Berlusconi non sarà più in campo. Altrimenti precipiteremo al voto in condizione di pericolo: e sia Berlusconi che Grillo punteranno all’ingovernabilità anche dopo le elezioni.

l’Unità 15.08.13

“La mossa del Colle che toglie ogni alibi”, di Claudio Tito

Gli alibi a questo punto sono caduti per tutti. Per il centrodestra, per il centrosinistra e soprattutto per il governo. La mossa di Napolitano ha strappato il velo delle contrapposte ipocrisie. Adesso nessuno può avere giustificazioni. Ognuno deve dimostrare di essere in grado di svolgere il compito che gli è stato affidato dal Quirinale e, in primo luogo, dagli elettori.
La mossa del presidente della Repubblica, infatti, produce potenzialmente effetti già dalla prossima settimana.
Di fatto, ha consegnato a Palazzo Chigi una sorta di lasciapassare per un altro anno. Una green card per arrivare a luglio 2014, quando prenderà il via il semestre di presidenza dell’Unione europea. Si tratta di una boccata d’ossigeno rilevante per un esecutivo che fino ad ora è stato strattonato dalla tempesta giudiziaria che ha investito il capo del Pdl, Silvio Berlusconi, e anche dagli imbarazzi del Pd a far parte di una coalizione di larghe intese. Una difficoltà che ha impedito al Partito democratico di imporre almeno segmenti della sua linea al governo. Lasciando che fosse il centrodestra a caratterizzare l’azione dell’esecutivo con i provvedimenti più “popolari”.
Adesso però anche per la squadra di Enrico Letta cambia tutto. Si è rafforzata, vede allontanarsi lo spettro di una crisi e delle elezioni anticipate. Ma deve fare i conti con le nuove sfide. Il “granaio” delle misure varate da Palazzo Chigi fino ad ora è stato riempito con alcuni chicchi. Si tratta di diversi provvedimenti, approvati nell’emergenza della crisi economica e senza il sostegno delle casse pubbliche, sempre più vuote. Dunque tutto, o quasi, a saldo zero. Nulla capace di imprimere una svolta sul piano della crescita. Adesso, però, proprio grazie al rinnovato endorsment del Colle, il governo non può non cogliere i segnali che sono arrivati in queste settimane. Prima l’Unione europea ci ha fatto uscire dalla procedura d’infrazione per il nostro deficit, e ieri sono arrivati i primi segnali di una ripresa. Intercettata dai paesi più virtuosi ma non dall’Italia che fa registrare ancora un segno meno al nostro Pil nell’ultimo trimestre. Mentre, nel complesso, l’Unione europea ha invertito – seppur di poco – la rotta. Il prossimo autunno, con il pericolo che le difficoltà si abbattano ulteriormente sul tasso di disoccupazione, sarà quindi decisivo. Riuscire a dare una spinta da questo punto di vista diventerà determinante. «I risultati della nostra azione – ripete da giorni il presidente del Consiglio – si potranno osservare nel 2014, il prossimo anno». Ma la legge di stabilità che sarà esaminata da ottobre sarà probabilmente il test più probante per questa strana alleanza sempre in bilico tra gli strappi del Cavaliere e le titubanze del Pd.
Si tratta però di un test che prevede alcune responsabilità in solido. A cominciare da quelle del Pdl, il primo destinatario del messaggio di Napolitano. Irritato dai contorcimenti giudiziari del partito del Cavaliere, il capo dello Stato – raccontano in molti – ha scritto la nota di martedì scorso piuttosto malvolentieri. Molti dei suoi richiami, infatti, li considerava scontati. Ad esempio, la necessità di rispettare le sentenze della magistratura o l’esigenza di seguire l’iter costituzionale qualora si volesse chiedere la grazia per Berlusconi. Ma la condanna del Cavaliere apre anche un altro fronte: la possibilità di avviare una stagione completamente nuova per il centrodestra. Il Popolo della libertà si trova di fronte forse alla sfida finale. Quella che riguarda la sopravvivenza di un partito che ha dominato la scena politica negli ultimi venti anni e che deve decidere come affrontare, appunto, il dopo-Berlusconi.
Il capo dello Stato su questo è stato esplicito. Il Pdl deve risolvere al suo interno – senza far ricadere sul governo le incertezze di questa fase – il nodo della successione. Perché, al di là della discussione sui possibili atti di clemenza, l’ex premier non sarà comunque candidabile alle prossime elezioni. Un’osservazione implicitamente indicata dal Quirinale. Ed è questo il vero punto che sta trasformando il confronto tra i berlusconiani. Anzi, lo sta accelerando. E lo trasforma in un appuntamento per i prossimi mesi. Non a caso – come spiega a questo giornale Giuliano Ferrara – le smentite di Marina Berlusconi circa un suo impegno in politica sono formali ma non sostanziali. E il Cavaliere sta lentamente accettando l’idea che le elezioni anticipate siano per lui un’arma spuntata. Si ritroverebbe a dover affrontare le urne senza un leader immediatamente spendibile. Ha bisogno di tempo per preparare la successione e, soprattutto, si sta convincendo che solo conservando il ruolo di “socio fondatore” di questo governo, può pensare di preservare il suo futuro. Anche chiedendo al Quirinale la concessione della grazia o la commutazione della pena. Ma sempre nella prospettiva di non poter essere lui il prossimo candidato premier della nuova Forza Italia.
Le sue scelte allora si misureranno già nelle prossime due settimane quando dovrà essere concordata una soluzione per l’Imu. Entro il 31 agosto la scelta sarà compiuta e Berlusconi deve decidere se accettare un compromesso o insistere sull’abolizione tout court dell’imposta anche a costo di fare cadere il governo. Opzione ormai gradita solo ai falchi. La strada dello scontro si sta infatti via via restringendo.
Anche perché, fino a quando il Parlamento non sarà intervenuto sulla legge elettorale, Napolitano non permetterà di giocare la carta del voto. L’esecutivo guidato da Letta è nato sotto l’ombrello protettivo del Colle. Per la seconda volta in due anni un “governo del presidente” ha ottenuto la fiducia del Parlamento. Ma una delle condizioni imposte riguarda proprio la modifica del Porcellum. Il prossimo 3 dicembre la Corte costituzionale si esprimerà sul peggior meccanismo elettorale che l’Italia abbia mai avuto. Questa maggioranza dovrà dunque rapidamente ricordarsi i suoi obiettivi fondanti: le risposte alla crisi economica e le riforme. Il governo ha ottenuto da Napolitano un’altra linea di credito. Ma ha chiesto un’ipoteca: Dare un sistema elettorale decente al Paese. Un’urgenza, però, che non tocca solo la coalizione di governo ma anche alle forze di opposizione. Anche il Movimento 5 Stelle dovrà decidere se continuare a dimostrarsi una forza sterile o se scendere nel campo del confronto democratico.

La Repubblica 15.08.13

“Dalle tasse alle riforme, le affinità elettive a Cinque stelle”, di Toni Jop

Mille anni fa, eravamo più piccoli. Nel movimento, quello che avevamo alimentato con i nostri corpi e con le nostre fervide coscienze spesso sfidando l’incoscienza, veleggiava una parola d’ordine, tra le altre: presalario per tutti, all’università. Cioè: il contributo pubblico per affrontare gli studi doveva essere esteso agli studenti, senza badare al censo. Ci pareva una cosa buona: era il modo, così riflettevamo, per cancellare almeno all’interno del recinto scolastico l’odiosa separazione che la classe sociale imponeva anche ai ragazzi per le strade del mondo. Ci sembrava, in altre parole, una via per garantire alla scuola una sorta di extraterritorialità benevola, garantita, molto tecnica. Andammo a sbattere contro il senso del Pci per le cose, per la giustizia
sociale: il partito di Berlinguer non cedette un millimetro, il presalario doveva andare solo a chi non aveva i numeri bancari per sostenere un corso di studi. Volò anche qualche ceffone, in assemblea, ma noi sbagliavamo e aveva ragione il Pci: che senso aveva caricare sulle spalle dei contribuenti, in genere non facoltosi, il peso di una manovra che avrebbe cancellato tra le mura degli istituti universitari una fondante contraddizione di classe? Così, eccoci alle ragioni dell’Imu e alla fondatezza della battaglia che la sinistra sta sostenendo perfino in un governo che molti vogliono vedere come espansione del berlusconismo. Pd e Sel riprendono la palla del Pci e insistono nel sostenere che la tassa sulla casa debba seguire il tracciato una giustizia che s’ispira all’uguaglianza: i ricchi paghino, gli altri no. Semplice, non è vero? Soprattutto se si pensa che togliere tutto questa tassa, sulla prima casa, equivale a fare un favore proprio ai ricchi, a chi dispone di appartamenti di gran pregio in situazioni urbanistiche di gran pregio. Ed è del tutto evidente che la barricata eretta da Berlusconi in materia è un messaggio con regalo incorporato, diretto proprio a quelli come lui. Ottimo: Beppe Grillo si picca di impugnare la bandiera di una nuova giustizia sociale? Sicuro. Ma allora come mai non è sensibile al criterio, impugnato dalla sinistra, che oggi sta facendo tremare il governo e la disperante maggioranza che lo sostiene? Come mai l’unico, che nel Movimento abbia diritto, con Casaleggio, di assumere decisioni strategiche, non urla «ma certo, sinistra, sarete cadaveri putrefatti ma sono con voi, si può fare»? Non lo fa, non urla, anzi: qualunque cosa Grillo dica e faccia su questo versante non è altro che un modesto aiuto al Pdl e alle sue ragioni. È difficile, per Grillo, smarcarsi da questa pallida sintonia: se ci prova teme di perdere se stesso, perché ciò che lui teme sopra ogni altra cosa è distogliere la mano dalla
ghigliottina che da anni tenta di issare sulla sinistra. Ma questa interpretazione ha un vizio: pretende forse da Grillo cose che non gli appartengono. Chi l’ha detto che ha a cuore la giustizia sociale, almeno come la intendiamo noi, figli del Movimento Operaio? Lui vuole sbancare il Parlamento, incenerire i partiti, rilanciare sul mercato della politica una massa di interessi autorappresentati, rifondare le Aule istituzionali sulla base di quegli interessi, in forme non distanti dal modello di un corporativismo sostenuto e mimetizzato dalla morgana di una democrazia diretta che fin qui nessuno ha visto, e che comunque non gli impedisce di gestire ciò che vuole e come vuole al di fuori di ogni controllo. Cambierà? Intanto, accetta di non dare troppo fastidio al Pdl, a Berlusconi, come ha sempre fatto, perché non è quello il bersaglio. Come per la legge elettorale: perché accade che in questo campo pur minato non si giunga a una discreta composizione delle urgenze che ciascun soggetto politico avverte? Grillo, par di capire, non vuole presidenzialismi e semi-presidenzialismi; ma non li vuole nemmeno gran parte della sinistra e da qualche parte bisognerà pure uscire. Punta a un proporzionale puro, ma è evidente che, in un Parlamento diviso in tre blocchi, e ciascuno col proprio intestino di progetti e interessi, solo il collasso totale e irreversibile di almeno un blocco può consentire di giocare la seconda mano senza cambiare neppure una carta. Così, anche su questo fronte Grillo fa da sponda al Pdl, mentre immagina che questo muoia e quell’altro precipiti in un burrone. Del resto, a lui va bene così: ogni volta che qualcuno gli prospetta, per il futuro, una pronta riesumazione delle larghe alleanze, ringiovanisce. Ci ha preso gusto: la sua campagna elettorale la fanno, a proprie spese, gli altri, lui sta bene chiuso in un freezer, il terzo blocco è un blocco di ghiaccio.

L’Unità 14.08.13