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“A fine anno 3,5 milioni di disoccupati”, di Massimo Franchi

I segnali di ripresa ci sono, ma non sul fronte occupazione. Anzi. A fine anno, secondo la Cna, sarà sfondata la quota di 3,5 milioni di disoccupati con un aumento di ben 400mi1a posti di lavoro in meno rispetto agli ultimi dati di giugno. La confederazione dell’artigianato e della piccola e media impresa dunque non vede la ormai celeberrima «luce in fondo al tunnel». Il suo Centro studi, elaborando i dati sulle richieste di ore di cassa integrazione, parla apertamente di «allarme rosso» perché l’Italia ha raggiunto il picco più basso nel numero degli occupati: i 22,5 milioni circa di fine giugno sono il valore più basso del nuovo secolo con una emorragia di ben 407mi1a unità rispetto allo stesso periodo del 2012, che equivalgono all’1,8% in meno.

ALLARME CNA Situazione difficile specie per i settori dell’industria e delle costruzioni. Sono loro ad aver «sofferto la crisi degli ultimi cinque anni», ma «risultano anche in questa fase i settori più esposti al rischio di ulteriori emorragie occupazionali, presentando entrambi incrementi consistenti delle ore autorizzate (+6,4% l’industria e +13,7% le costruzioni) e una perdita potenziale complessiva di circa 263mi1a posti di lavoro (rispettivamente 224mi1a unità nell’industria, che assorbe il 67,3% delle ore complessivamente autorizzate, e circa 39mila unità nel settore delle costruzioni) ». Industria e costruzioni sono poi settori fondamentali per l’artigianato, «caratterizzato da una presenza rilevante di queste attività». Il numero di ore di cassa integrazione autorizzate per l’artigianato è risultato pari a circa 46 milioni di ore, con un aumento del 9,8% rispetto al 2012. Le previsioni della Cna sono fosche anche in questo caso: «L’utilizzo effettivo di queste ore si traduce in una perdita potenziale di quasi 28mila posti nell’artigianato». Rilevante anche la perdita occupazionale stimata per il settore del commercio: 4lmila posti di lavoro a rischio, corrispondenti a 67milioni di ore autorizzate. Ma diversamente che per l’industria e le costruzioni, il numero di ore richieste nei primi sei mesi del 2013 in questo settore diminuisce in maniera rilevante (-12,0%) rispetto all’anno precedente. Altro settore che non se la passa bene è quello del turismo. In piena alta stagione arrivano cattive notizie da una ricerca della Coldiretti commissionata a Ipr marketing. Per l’associazione degli agricoltori solo il 64% degli italiani che ha scelto di andare in ferie e questo ha «causato la perdita di almeno 25mila posti di lavoro nel settore della ristorazione turistica, dove tradizionalmente trovano opportunità di occupazione stagionale soprattutto i giovani ».

PART-TIME «COATTO» PER 9 SU 10 L’Istat intanto segnala un fenomeno correlato alla crisi molto negativo. Il boom negli ultimi cinque anni dei lavoratori sottoccupati part time: persone costrette a passare al tempo parziale. Secondo l’ente statistico nazionale su 605mila sottoccupati part time, valore più alto di sempre, con un aumento di 154mila 2011 (+34,1%) e di 241mila rispetto al 2007 (+66,1%), ben nove su dieci sono a carattere involontario. Lavorano in media per 16 ore a settimana, ma vorrebbero lavorarne 36. In particolare, il 28% vorrebbe svolgere fino a 34 ore e il 72% sarebbe disponibile a lavorare 35 ore o più. In Italia la sottoccupazione part time riguarda il 2,4% della forza lavoro, una quota inferiore alla media europea (3,8%). L’incidenza per gli uomini è dell’1,5% e per le donne del 3,6%.

L’Unità 17.08.13

“Crescono solo le facoltà tecniche atenei impoveriti da 5 anni di recessione”, di Agnese Ananasso

La crisi economica forse sta per allentare la morsa sull’Italia, ma restano sul campo gli effetti devastanti della più pesante recessione del dopoguerra per il nostro Paese. Rovine che non risparmiano l’università e le prospettive dei giovani e delle loro famiglie. Un percorso sempre più lungo e costoso, tra corsi di perfezionamento e master, e sempre meno propedeutico ad un posto di lavoro stabile. Datagiovani ha elaborato per Repubblica i numeri del Miur, mettendo a confronto l’anno accademico appena terminato con quello pre-crisi del 2007/2008 (per intenderci, i mesi dello scandalo subprime e del crac Lehman Brothers. L’inizio della fine). In 5 anni si sono registrate 38.340 immatricolazioni in meno, pari a una flessione del 12,5%, più evidente nel Mezzogiorno dove 24mila ragazzi hanno rinunciato a rincorrere la laurea. Considerando solo Sud e Isole le iscrizioni sono diminuite del 20%, mentre al Nord si parla di cifre più contenute, nell’ordine del 5%. La maglia nera spetta alla Sardegna (—23%) mentre limitano i danni Lombardia (—2,8%), Veneto ed Emilia Romagna (entrambe a — 4% circa).
Ma se è vero che al Sud si va meno all’università è anche vero che quando ci si va si punta al meglio, si investe sul futuro, pagando più della retta: i genitori sono disposti a mantenere i figli che scelgono di andare in un ateneo fuori regione, in genere al Centro-Nord. Così emerge che mentre 5 anni fa il 76,5% degli immatricolati meridionali rimaneva vicino casa per studiare, quest’anno sono stati poco meno del 73%, con i siciliani che “emigrano” di più.
Al Nord, Piemonte e Lombardia in primis, la tendenza è inversa, con i giovani che preferiscono rimanere nella propria terra — agevolati dalla prossimità di un’offerta accademica di alto livello — , anche se le variazioni sono minime se paragonate a quelle del Sud, intorno al punto percentuale. Cambia pure la scelta della facoltà, orientata sempre di più verso quelle che offrono, almeno sulla carta, maggiori sbocchi lavorativi. Prova ne è la tenuta delle facoltà scientifiche, con appena 142 immatricolati in meno (— 0,2%) per un totale di 94mila iscritti, e il quasi sorpasso sull’area sociale che sebbene abbia richiamato 96mila matricole ha subito una perdita del 20%, pari a 25mila studenti.
Non va molto meglio per le materie umanistiche (—11,9%) e sanitarie (—18,7%). Nel dettaglio è cresciuto in modo esponenziale l’appeal della facoltà di scienze agrarie, forestali e alimentari (+45%), seguita da scienze e tecnologie fisiche (+25%) e da ingegneria industriale (+19%). Nella classifica ai primi posti troviamo una facoltà umanistica, quella di lingue e culture moderne che vede un picco di iscritti (+16%) ma è solo un’eccezione, perché il segno positivo lo troviamo di nuovo in ambito scientifico con tecnologie chimiche (+10%) e ingegneria dell’informazione (+8%). «È evidente che le facoltà
che hanno visto crescere il numero di immatricolati in questo periodo di crisi sono quelle più orientate al mercato del lavoro e dell’impresa privata soprattutto — spiegano gli esperti di Datagiovani — ancora meglio se di tipo industriale e con lo sguardo verso l’estero, da cui la tenuta della facoltà di lingue.
Non è un caso che siano materie come architettura e ingegneria edile (—37%) e farmacia (—34%) a riscuotere meno successo, competenze che troverebbero applicazione in settori economici oggi in sofferenza o dove l’accesso alla professione è particolarmente difficile».

La Repubblica 17.08.13

“Gli aereoplanini di Silvio”, di Filippo Ceccarelli

Il mezzo è dunque il messaggio, e sulla coda dei bimotori Aertraining il prodotto commerciale Berlusconi, invero al momento messo piuttosto maluccio, svolazza e insieme incombe sull’orizzonte degli stabilimenti balneari.
DAL Twiga, in prudente caffettano bianco, Santanché fotografa il velivolo che si perde tra cielo e mare: “Forza Italia, Forza Silvio”. Con la consueta fantasia il Pd risponde volantinando tra gli ombrelloni, ma da Filadelfia, in Calabria, si deve pur segnalare l’iniziativa di un circolo democratico che ha fatto decollare un Piper recante l’amena scritta: “GraziaUnCazzo”. Mentre i grillini, forse paventando di restare indietro nella ricorsa, invocano i bagnanti affinché al passaggio degli apparecchi si uniscano in lunghe catene umane oppure disegnino sull’arenile delle enormi V, “che sta per quel che volete” ammicca su
Facebook l’ineffabile Crimi. In questo senso esiste già una foto, ma non si capisce se si tratta di un fotomontaggio.
Ciò detto, e più in generale, il sospetto è che la campagna aeronautica di mezza estate e la pretesa guerra delle spiagge segnino un altro triste passaggio verso la megalomania invasiva e la grottesca deriva di una politica che più si sente sfinita e più è costretta a inventarsi qualsiasi stravaganza purché macroscopica e spettacolare, senza ovviamente preoccuparsi dei costi né degli effetti che tali trovate suscitano durante le vacanze.
In tale contesto ci si sente un po’ in colpa ad affrontare la faccenda — che poi sarebbe l’intento originario dei promotori dell’avio- tour filoberlusconiano. Ma anche senza tirare in ballo la lezione di McLuhan, e rimanendo dell’idea che nulla dei raid tornerà a beneficio dei cittadini, né forse nemmeno servirà al Cavaliere stesso, come si fa a ignorarlo?
Dal cocchio dorato di Agamennone agli ingegni meccanici di Luca Ronconi, dai carri allegorici carnevaleschi alle itineranti liturgie sacramentales, da secoli il teatro mette in scena l’arte del cambiar luogo, e sempre il potere ricopia questi spettacoli in movimento per colpire la fantasia degli spettatori.
Riguardo ai mezzi usati, con qualche semplificazione si dirà che almeno in Italia la sinistra ha privilegiato il pullman (Prodi, Veltroni), il treno (Rutelli Express) e il camper (Di Pietro, Renzi); mentre alla destra, specialmente berlusconiana, compete il monopolio delle automobili (predellino), dei camion (per saggiare il simbolo del Pdl) e delle navi (crociera di An, motonave Azspettatori.
A parte i fantastici “blindoidi” dei secessionisti veneti, il “tanko” ricavato da un trattore con la bocca di fuoco che a sua volta utilizzava il tubo di una stufa.
E tuttavia gli aeroplanini, fino a ieri, sembravano
di incerta collocazione nello schieramento delle bizzarrie a breve impatto mediatico. O almeno, suonerebbe spropositato in questo senso il richiamo ai voli di D’Annunzio o di Guido Keller, che nel 1924 per protesta contro il Trattato di Rapallo sorvolò Roma lasciando cadere un pitale smaltato su Montecitorio (e una rosa su San Pietro e sul Quirinale).
A ben vedere, e in anni più recenti, fu la sinistra a utilizzarli. Così nell’autunno del 2002 un Piper con la scritta “La legge è uguale per tutti” apparve nel corso di una manifestazione della sinistra proprio sopra l’abitazione di Previti. Ma nove anni dopo il cielo della Fiera di Rho, dove si svolgeva il congresso fondativo del Fli di Fini, ospitò a sorpresa un dirigibile sotto cui si poteva leggere: “Forza Silvio, il popolo non ti tradirà”.
Ma poi Silvio, come si sa, venne sbalzato lo stesso da Palazzo Chigi. E allora accadde che nell’estate del 2012 il segretario lombardo del Pdl, Mantovani, ingaggiò un bimotore facendolo volare tra Senigallia e Milano Marittima con l’incoraggiante dicitura: “Silvio, ritorna!”. Al che alcuni antiberlusconiani riminesi aprirono una socialcolletta e fecero quindi decollare un analogo velivolo con l’ovvia risposta: “Silvio, non tornare!”.
Forse non si sottolineò con la dovuta cura il fatto che entrambi gli aeroplanini chiamassero Berlusconi con il nome di battesimo. Ma nel mondo della promozione aeronautica, come quello più in generale delle merci e del consumo, l’intimità e la stringatezza sono risorse irrinunciabili.
E vale la pena di fare un giro sul sito della Aertraining, che oggi reclamizza Berlusconi, per trovare un caleidoscopio di messaggi che a loro modo confermano le condizioni subalterne e forse terminali dell’odierna politica. Si va da “Alessio, ti amooooo, sposami!” a “Cucù, l’Ancona non c’è più”, a cura dei tifosi ascolani, passando per “Baia imperiale oggi Rocco Siffredi” — che magari rispetto a “Forza Italia, Forza Silvio” sarebbe anche o almeno una novità.

La Repubblica 17.08.13

“Stalking, nell’abisso delle 10mila denunce”, di Adriana Comaschi

Il Viminale ha appena diffuso i dati sui femminicidi (è donna il 30% delle vitti- me) e sulle denunce per stalking nell’ultimo anno (quasi 10mila), e già la cronaca incalza le statistiche, le sopravanza. In un crescendo che forse sollecita qualche riflessione sull’operatività dell’ultimo decreto del governo in materia, che la Camera – presente la presidente Laura Boldrini – incardinerà a breve, martedì 20, con immancabile polemica del Movimento 5 stelle («è un mero adempimento, nessuna riapertura dei lavori, si convochi invece la capogruppo» attacca Roberto Fico). «Bene la diffusione dei dati da parte del ministero – osserva ad esempio Angela Romanin della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna – ma dobbiamo chiederci cosa succede dopo le denunce».
Solo nelle ultime ore si registrano tre storie di ‘ordinaria’ violenza contro le donne – mentre a Genova viene indagato l’ex marito della donna sfregiata con l’acido lunedì. A Napoli finisce a Poggioreale Gianfranco Masullo, 41 anni, per maltrattamenti in famiglia e lesioni personali. Una richiesta di aiuto al 112 mette fine – fino a quando? – a una violenza domestica sistematica, i carabinieri lo trovano che sta infierendo sulla moglie a calci e pugni davanti ai figli di 5 e 9 anni: inutilmente, in lacrime, lo imploravano di fermarsi. La donna, 34 anni, riporta un trauma cranico e contusioni al volto e a una spalla. Le indagini chiariscono che subìva maltrattamenti da oltre due anni. Anche in presenza dei due minori, un’aggravante secondo il recente decreto.
Manette anche per Stefano Alvaro, 23enne incensurato di Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria. Il tribunale di Palmi lo accusa di stalking e tentato omicidio della sua ex, ventenne, e dell’attuale fidanzato di lei, 24 anni. Una prima volta a febbraio, quando cerca di investire il ragazzo che però riesce a scansare l’auto lanciata verso di lui. E ancora il 16 giugno, quando addirittura dopo averlo centrato l’aggressore scende dalla macchina per prender- lo a calci. In mezzo, per la giovane coppia sono mesi di terrore tra molestie e pedinamenti, di abitudini e orari stravolti. Viene messo ai domiciliari, a Verona, un uomo di 54 anni. A gennaio era già stato arrestato per avere sfondato la porta di casa della ex compagna. Gli era stato interdetto l’avvicinamento ai luoghi che lei frequenta, perché ritenuto responsabile di averla minacciata di morte e schiaffeggiata, fino a farla fini- re al Pronto soccorso. Ora il nuovo intervento delle forze dell’ordine.
E un bilancio della loro attività in relazione a crimini contro le donne arriva a Ferragosto dal ministro Angelino Alfano. In un anno, in Italia, un terzo de- gli omicidi vede come vittime ‘l’altra metà del cielo’. Ma la percentuale sale all’83% se si considerano solo i delitti commessi dal partner (45), al 100% quando l’assassino è l’ex compagno. E ancora: 38.142 le denunce presentate da quando nel 2009 è stato introdotto il reato di stalking, con una media di 9.500 l’anno, sono 9.116 tra il primo
agosto 2012 e fine luglio 2013. Il 77% di queste porta la firma di una donna.
OLTRE LA DENUNCIA
I numeri però non dicono tutto. E se la strada della trasparenza imboccata dal Viminale non può che essere apprezzata, chi da anni è in prima linea nell’assistenza delle donne maltrattate ricorda che l’impegno arriva comunque in ritardo rispetto ad altri paesi europei. «Un numero di denunce così elevato solleva un interrogativo – notano allora dalla Casa delle donne di Bologna -, e cioè quante di queste hanno seguito, e di che tipo». Se insomma davvero il sistema nel suo complesso riesca a farsene carico, «quali sono i tempi processuali, dopo quanti anni si arriva a una condanna». Basta pensare all’atto d’accusa della figlia di Antonella Russo, ammazzata a colpi di lupara dall’ex marito sotto gli occhi del loro bimbo di 4 anni: a ucciderla sono state anche le istituzioni, per le tante denunce ai carabinieri rimaste senza seguito fino all’epilogo di sangue, preannunciato più volte dall’uomo in famiglia.
C’è insomma «un limite, in un approccio solo sul versante penale, come quello su cui agisce anche il recente decreto sul femicidio». Nel caso di atteggiamenti persecutori, ad esempio, «il problema è che quando le forze dell’or- dine intervengono si dovrebbe fare una valutazione del rischio. Alcuni autori di stalking infatti possono non essere pericolosi, e per loro può bastare un ammonimento del questore su possibili conseguenze penali». Così magari da liberare energie per i casi più gravi. Anche sul fronte della raccolta dati occorrerebbe una marcia in più. «I numeri forniti dal ministero degli Interni sui femminicidi sono discontinui, gli ultimi li hanno diffusi nel 2008 mentre in seguito sono arrivati piuttosto dalle singole Procure. E sono difficilmente comparabili, perché non è chiaro con che criteri vengano selezionati. Anche per questo da anni i Centri antiviolenza sul territorio chiedono a gran voce la nascita di un unico Osservatorio sulla violenza di genere, impegnato proprio in questo censimento. Era uno dei punti del Piano nazionale contro la violenza di genere, previsto dall’allora ministro Mara Carfagna – tutti i paesi Ue ne sono dotati -, poi rimasto lettera morta». Molto insomma rimane da fare, per chi voglia affrontare le aggressioni contro le donne «come un problema complesso, che richiede la collaborazione tra diversi punti di vista: legale, ma anche culturale ed economico».

“Tra i due eserciti divisi dal Nilo”, di Bernardo Valli

Il venerdì della “collera”, decretato dai Fratelli musulmani, è cominciato sul ponte 15 maggio, tra le due sponde del Nilo. È là che ci sono stati i primi morti, per quel che mi è capitato di vedere. Ingrossato dai fedeli usciti dalle moschee, dopo le preghiere del venerdì, il corteo islamista proveniente dai sobborghi nord orientali era diretto a piazza Ramses, nel cuore della capitale, dove era prevista una grande manifestazione. L’avanguardia, con la bandiera egiziana e quella nera dell’Islam, è stata fermata in mezzo al ponte da una grandine di pallottole. Erano tiri di intimidazione che si incastravano nell’asfalto a qualche metro davanti ai ragazzi in prima fila. Un proiettile di rimbalzo ha ferito alla gamba destra un mingherlino, di non più di diciotto anni, che gridava a squarciagola «no al golpe militare» e «Dio è grande». È stato un parapiglia. C’era chi ordinava di avanzare, e dava l’esempio continuando a marciare verso l’altra sponda del Nilo; chi sfoderava un fucile fino a quel momento nascosto e si appostava dietro al parapetto; e chi indietreggiava esitante per poi darsi alla fuga in preda al panico, lasciandosi alle spalle i primi morti.
A sparare dall’altra sponda non era la polizia. Un barbuto, con la camicia arancione del servizio d’ordine, mi ha indicato una terrazza sull’edificio di fronte al ponte. C’erano decine di uomini in borghese con mitra e fucili puntati sul corteo. Era uno dei “comitati popolari” di quartiere creati per sostenere l’azione dell’esercito. Insomma una milizia, nata negli ultimi giorni, e già efficace. Perchè quando uomini e donne del corteo si sono dispersi, tentando di rifugiarsi nel quartiere residenziale di Zamalek, un’isola sul Nilo alle loro spalle, sono stati presi a fucilate da un altro “comitato popolare”. Sono rimasti imprigionati tra due fuochi. Il corteo si è poi riformato, di nuovo disperso e poi ancora ricostituito e rimesso in marcia. In serata non pochi manifestanti, decimati, hanno raggiunto piazza Ramses, dove hanno preso d’assalto un commissariato. I poliziotti hanno lanciato prima gas lacrimogeni e poi hanno sparato ad altezza d’uomo, con pallottole vere, come le avevano promesse i militari dichiarando lo stato d’emergenza. Un edificio in piazza Ramses bruciava a tarda sera, quando era già in vigore il coprifuoco. In una moschea vicina erano allineati i morti e venivano curati i feriti. La contabilità degli uccisi è come sempre approssimativa. Un centinaio nel paese, dopo il migliaio di mercoledì quattordici agosto.
La cronaca di quanto è accaduto sul ponte 15 maggio fa pensare all’inizio di una guerra civile. Da un lato gli islamisti, in preda alla collera per il massacro appena subito; dall’altro i “laici”, stanchi del fanatismo religioso. I primi, i Fratelli musulmani, sono numerosi e decisi a battersi, ma non a ottenere un appoggio popolare. I cairoti sono in generale ostili a quei portatori di fanatismo e di disordine, che oltretutto si sono anche rivelati incapaci di governare. Le manifestazioni del 30 giugno e del 26 luglio hanno raccolto masse imponenti. Forse un milione. Ma erano indette dall’esercito per combattere i “terroristi”. E i terroristi, i reietti, sono adesso ufficialmente i Fratelli mussulmani. Gli altri, i loro avversari, i laici, sono schierati con l’esercito, considerato una garanzia o un male minore. Morsi aveva la legittimità del voto, ma non l’ha saputa gestire; i militari hanno la legittimità della forza. La democrazia invocata il 25 gennaio 2011, all’inizio della primavera araba, è in queste ore più che mai un miraggio. Piazza Tahrir, che fu la ribalta di quell’insurrezione, ieri era popolata di autoblindo. C’erano anche quelli del Fronte di Salvezza nazionale, l’alleanza dei partiti d’opposizione a Mohammed Morsi, il presidente deposto ed ora in galera. Il Fronte approva l’azione dell’esercito, ma ci sono formazioni politiche contrarie ai Fratelli musulmani e al tempo stesso contrarie alla repressione dei militari. Ad esempio “Nour”, partito islamico estremista, concorrente dei Fratelli musulmani. Il quale è in verità un caso a parte. Un’eccezione. E tuttavia una forza assai più consistente degli altri movimenti che condannano il massacro: dei liberali del gruppo “6 aprile” e dei “socialisti rivoluzionari”, per ora coriandoli di una rivoluzione insabbiata e di una democrazia di là da venire.
Tanti altri cortei di islamisti, spinti dal desiderio di rivincita, ed anche animati da un’audacia spesso tesa al martirio, hanno percorso la capitale, inseguiti dai “comitati popolari” e ostacolati da un imponente spiegamento di forze di polizia. Bruciavano le automobili a Garden City, area affacciata sul Nilo dove si trovano molte ambasciate. E a Ghiza, al di là del fiume, verso le Piramidi, gli elicotteri hanno gettato gas lacrimogeni per
disperdere le file di manifestanti diretti a piazza Ramses. Il Cairo è stato per ore un campo di battaglia. Manifestazioni, sparatorie e morti ci sono stati anche ad Alessandria, a Ismailia e in tanti altri centri dell’Alto Egitto. I Fratelli musulmani si propongono di sfogare la loro collera anche nei prossimi sette giorni. Anzi, «fino a che non si dissolverà il potere militare».
In realtà sono profondamente divisi. Gehar el-Haddad, il loro portavoce, confessa che non è facile controllare le reazioni della confraternita, in preda alle passioni e alla disperazione per le perdite subite. Molti dirigenti sono in prigione, altri sono ricercati. Mohammed el-Beltagy, leader del partito Libertà e giustizia, espressione politica della confraternita, ha perduto la figlia. Aveva 17 anni ed è stata uccisa. Alcuni vorrebbero continuare a battersi con la violenza, optano in sostanza per il terrorismo; altri restano ancorati ai principi pacifisti. Le due anime dell’islamismo si scontrano nella grande organizzazione che dopo ottant’anni di clandestinità, di persecuzioni, di opposizione era infine arrivata al potere, e che adesso è dichiarata ufficialmente una setta terrorista, e quindi infrequentabile. Insomma fuori legge. Il ritorno alla clandestinità potrebbe rivelarsi una soluzione.
Di questo discutevano i militanti intenti ad allineare i cento e più corpi avvolti in lenzuola, come vuole la tradizione musulmana, e stesi sul pavimento di una moschea semibruciata. Dopo essere stato un bastione di resistenza, la moschea era diventato un obitorio. Con i cadaveri che per il caldo rendevano irrespirabile l’aria in tutto il quartiere. Bisognava seppellirli al più presto con un funerale dignitoso, ma la polizia non l’autorizzava. In quell’atmosfera le scelte più radicali erano le sole accettabili. E il ricordo del terrorismo di Gamaa al-Islamiya, il gruppo jihadista che tenne in agitazione l’Egitto vent’anni fa, ritornava come un esempio irresistibile da seguire. Gli animi erano ancor più esasperati quando la polizia ha fatto irruzione nella moschea e se ne è andata con i cadaveri accatastati nei loro camion.
Il Fronte della salvezza nazionale, il fragile scudo democratico dietro il quale c’è l’ esercito, e di cui il governo provvisorio è l’espressione, non ha esitato ad allearsi, o comunque ad accettare la compagnia degli esponenti del vecchio regime. I “fulul”, come sono chiamati i partigiani di Mubarak, il raìs cacciato dalla rivoluzione di piazza Tahrir, si sono riciclati facilmente schierandosi con il fronte laico, contro i Fratelli musulmani e gli islamisti in generale. Lo stesso Mohamed el- Baradei, il liberale, premio Nobel per la pace, dimissionario da vice presidente in segno di protesta dopo il massacro del 14 agosto, ha dichiarato tempo fa di essere pronto
ad accogliere nella sua formazione politica gli uomini del partito nazionale democratico di Mubarak. La laicità ha un prezzo alto, e per difenderla dagli islamisti, si deve sacrificare qualche pezzo di democrazia. In queste ore gli esponenti del Fronte di Salvezza nazionale, inclusi quelli al governo, denunciano l’incomprensione di Barak Obama che criticando l’azione dell’ esercito egiziano ha alimentato la rivolta dei terroristi, cioè dei Fratelli musulmani.

La Repubblica 17.08.13

“La filosofia dell’ombrellone”, di Massimo Adinolfi

A Ferragosto è facile strappare un consenso generale intorno a questa proposizione: sotto il sole agostano, l’ombrellone è un bisogno naturale. Come resistere senza un po’ d’ombra? In realtà, nulla è meno ovvio.
Ci si potrebbe accontentare di un cappellino. Soprattutto si potrebbe contestare che sia na- turale l’esposizione prolungata al sole. Il bisogno dell’ombrellone è insorto d’altronde in una condizione storicamente determinata, quella novecentesca del turismo di massa. «L’ombrellone» di Dino Risi costituisce il documento inoppugnabile di una precisa epoca storica, purtroppo lontana. Esattamente 50 anni dopo il film, nel 2005, il leader dell’Ulivo Romano Prodi ebbe a dire che si augurava un Paese con meno yacht e più ombrelloni, non sospettando che di lì a poco sarebbe venuta meno la scelta: non meno di una cosa e più dell’altra, ma purtroppo meno di entrambe.
Volendo però filosofeggiare non sotto l’ombrellone ma proprio a tal proposito, va detto che sin da quando Platone provò a tracciare i confini di una città «sana», non ancora gonfiata da pretese arbitrarie, è stato difficile indicare la soglia oltre la quale un bisogno naturale si moltiplica in una serie ingiustificata di bisogni artificiali. Dubbi e cavillazioni sono però spazzati via dinanzi ai progressi merceologici: per singolare contraccolpo accade infatti che l’ombrellone appaia senz’altro un «oggetto naturale» a confronto della varietà di fogge artificiali che sono ormai in commercio.
Forse è effetto della crisi: dinanzi ai prezzi di certi stabilimenti, che hanno già l’ombrellone in dotazione e possono solo differenziarne l’utilizzo variando le tariffe (con sdraio e lettino, con due lettini, con tariffa agevolata per metà giornata, ecc.), l’italiano riscopre le poche strisce di spiaggia libera rimaste, e vi scende con il proprio ombrellone: cioè con quale? Da questa rinnovata domanda il nuovo sforzo di differenziazione. Orbene, per «oggetto naturale» si può intendere un oggetto la cui foggia risulti dettata dalle funzioni elementari che deve adempiere. Un ombrellone deve riparare dal sole, dunque avrà un telo mantenuto da stecchi flessibili per resistere al vento, e un palo sufficientemente alto perché l’ombrellone proietti un’ombra sufficientemente ampia. Ma ormai le cose non stanno più così. A cominciare dalle dimensioni dell’oggetto: un tempo gli ombrelloni ave- vano stessa altezza e stessa ampiezza. È un fenomeno degno del famoso studio di David Lewis sulle convenzioni: chi ha deciso quanto dovevano essere alti gli ombrelloni da spiaggia? Nessuno. Eppure, fu subito raggiunto un valore standard di cui hanno dovuto contentarsi tanto i nani quanto gli spilungoni. C’entra sicuramente la standardizzazione degli stili di vita, ma c’entra pure una certa misura dell’ombra da gettare sulla sabbia.
Ormai però in spiaggia le ombre non sono più uguali: neppure quelle. Ci sono ombrelloni più alti e più sottili. Ci sono poi ombrelloni che possono reclinare la loro ampia corolla, mentre prima se ne stavano tutti invariabilmente diritti. Questo minimo clinamen determina nuove possibilità: ombre più lunghe o più corte, a favore di vento o controvento, ovali o circolari. A questo punto, ogni variazione diventa possibile. E non solo nella varietà di colori e nelle fantasie dei teli, con le quali si può dire che l’ombrellone sia nato, ma negli altri interventi ergonomici sulla struttura stessa dell’oggetto.
Il più clamoroso è la rottura rivoluzionaria della linearità del sostegno. Sul mercato ci sono infatti ombrelloni il cui palo è deformato in modo da fungere da maniglia per il trasporto. Anche la punta non è rimasta indenne: per migliorare la penetrazione nella sabbia è possibile applicarle un torciglione di plastica, che la trasforma in un cavaturaccioli, rendendo più agevole l’impianto (e così scompare anche la galanteria del giovanotto nerboruto che aiuta la signorina in bikini, come nel film di Risi).
Si potrebbe continuare (dalle tendine che trasformano l’ombrellone in cabina ai posaceneri applicabili), ma la questione filosofica è posta: dove comincia e dove finisce la natura? Dove la domanda di ombrellone è naturale e dove è invece creata dall’offerta di nuovi modelli? Viviamo in una società di sovraconsumi e non sappiamo più dire di no all’ultima, allettante proposta di mercato, oppure viviamo in un mondo più libero e più vario, dove per fortuna si può scegliere perfino sotto quale ombra riposare?

L’Unità 15.08.13

“Ferragosto”, di Marino Niola

Da antica festa pagana a nuovo capodanno del turismo last minute. Da tradizionale celebrazione dell’Assunta a ultima liturgia del tempo libero. Da giorno sacro al riposo, contadino e operaio, a migrazione stagionale del popolo delle vacanze. E adesso che quel popolo è diventato interinale, disperso, insicuro del presente e incerto sul futuro, anche il Ferragosto si adegua. E diventa liquido, interstiziale, frugale. Un’autentica spending review delle ferie, per far fronte a una crisi che spesso ci fa rimpiangere il passato e ci costringe a reinventare il presente. In effetti, come tutte le festività, la pausa agostana assume gli umori del momento. E questo ne spiega le continue trasformazioni. Come dire che la parola resta mentre i comportamenti e gli atteggiamenti cambiano. Ma non del tutto. Perché anche nel nostro frenetico Ferragosto mordi e fuggi resta comunque qualcosa del rito di passaggio. Dell’avvicendamento tra la stagione vecchia e la nuova, che noi continuiamo di fatto a celebrare. A modo nostro. Mescolando vecchio e nuovo, sacro e profano, consuetudini famigliari e abitudini affluenti. Col risultato di farne un cantiere festivo sempre aperto.
La lunga marcia dei vacanzieri — con autostrade intasate e aeroporti in overbooking — i falò sugli arenili, i tuffi di mezzanotte, i concertoni sulle cime dei monti, i barbecue pantagruelici non sono tutta farina del nostro sacco. Perché vengono da molto lontano. E precisamente dalle romane Feriae Augusti
— le cerimonie che si celebravano a Roma in onore dell’imperatore Augusto, da cui la parola Ferragosto — che solennizzavano il giro di boa dell’anno agrario. Niente lavoro e tutti a far bisboccia fuori porta. Anche il Cristianesimo ha solennizzato questo accapo del calendario facendo del quindici agosto il giorno dell’Assunta, la più antica delle feste mariane e probabilmente la più popolare. Da sempre occasione di abbuffate e scampagnate, processioni e indigestioni, balli e sballi. Di qui deriva dunque quel sapore vagamente anarchico dei nostri rituali agostani. Sempre en plein air. Senza troppi formalismi. Liberi, casual, pratici. Eredi inconsapevoli delle lunghe durate della storia.
Perché è pur sempre un nuovo inizio quello che noi continuiamo a celebrare. Quando sulle nostre strade si consuma la transumanza estiva della società del tempo libero. E le lancette del tempo cominciano un nuovo giro dopo la data climax della bella stagione. Ritualizziamo quel che ritualizzavano i nostri antenati ma, ovviamente, lo facciamo a modo nostro. I tempi che scandiscono la vita di oggi, infatti, non dipendono più dall’anno astronomico e tantomeno dalle condizioni meteorologiche, dal cammino del sole o dalle fasi della luna. Ma sono cadenzati dall’organizzazione dei cicli produttivi. Adesso il bello e il cattivo tempo lo fanno la tecnologia e l’economia che hanno finito per produrre una riforma sotterranea del calendario. Una semplificazione che ha tagliato le fasi intermedie e ha dato al tempo sociale un ritmo binario, una scansione digitale. Lavoro sì, lavoro no. Così il nostro Ferragosto assomiglia sempre più a un provvidenziale pit-stop che fa ripartire gli ingranaggi sempre più stressati della nostra vita. È una vacanza nel vero senso della parola, che significa vuoto. Un vuoto cui cerchiamo di dare senso inventandoci nuovi riti e nuovi miti.
Perché a differenza delle feste comandate, Ferragosto non ha tradizioni né devozioni fisse. Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi e Ferragosto dove vuoi. Ma soprattutto come vuoi. Il risultato è un sincretismo festivo, una nuova architettura temporale, che mette insieme frammenti di passato e inventa usi e costumi a tempo determinato. Accostando i lembi più lontani della nostra storia individuale e collettiva. Ciascuno di noi offre un contributo estemporaneo alla costruzione collettiva di questo copione rituale. Basta guardare le ultime tendenze. C’è chi si butta sul vintage, fatto di tanto cibo e molti affetti, perché in fondo amici e famiglia restano il nostro bene rifugio. Anche se i menù si adeguano ai diktat dei masterchef di turno. Che stigmatizzano l’abbiocco cheap e propugnano la leggerezza chic. Piatti verdi e a chilometro zero. Etici e dietetici. Non più teglie unte da Sora Lella, ma lunch box biodegradabili da Cappuccetto Rosso. Ma c’è anche chi si immola sull’altare della fitness, chi va in cerca di emozioni con il bungee jumping, un salto vertiginoso nel vuoto da qualche ponte altissimo per vedere l’effetto che fa. E non mancano nemmeno quelli che festeggiano sorvolando paesaggi incantati in mongolfiera come tanti Phileas Fogg, l’impavido protagonista del giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne.
Pochi però rinunceranno ai bagni notturni. Che sono delle autentiche immersioni lustrali. E ai falò in riva al mare che allontanano le energie negative. Ripetendo un esorcismo antico quanto il mondo. Che adesso si è fatto particolarmente rumoroso e fantasioso da quando i fuochi artificiali sono diventati low cost. Dalla Cina con fragore. Insomma se la crisi rallenta le lancette dell’economia non ferma l’eterno ritorno del calendario. E in questa frenesia ferragostana, in cui Pasolini vedeva una sorta di raptus collettivo, un’insolenza obbligata, resta qualcosa di profondamente rituale. Un modo per chiudere col passato e propiziarsi il futuro. Mentre ci godiamo l’ultima spiaggia davanti a un tramonto rosso spritz.

La repubblica 15.08.13