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«Più export per l’impresa È pronto il Piano Italia», di Massimo Franchi

«A settembre affronteremo i problemi del settore auto, con massima priorità alla Fiat». In un pausa del percorso della ferrata delle trincee sulle Dolomiti, immortalato anche su twitter, il ministro Flavio Zanonato, figlio di un operaio Fiat, annuncia le sue sfide di settembre: dagli investimenti del Lingotto al Piano Italia per internazionalizzare le nostre imprese, dal decreto per ridurre dell’8 per cento la bolletta energetica degli italiani alla soluzione dei tavoli di crisi.

Ministro Zanonato, istituti di statistica e investitori internazionali parlano di un inizio di ripresa per l’Italia che parte pro- prio dall’industria. Come la vede dal suo punto di osservazione?

«Come ci insegna il fondatore del vostro giornale Antonio Gramsci, bisogna operare con l’ottimismo della volontà e il pessimismo dell’intelligenza. Ci sono molti segnali che danno l’idea di una ripresa. Proprio per questo non dobbiamo adagiarci, ma lavorare alacremente per rafforzarla e riportare l’Italia a quei trend di crescita che sono consoni ad un grande Paese».

E come si può agganciare la ripresa velocemente, fare politica industriale e fermare la disoccupazione?
«La nostra politica industriale è riassunta nei due mantra del nostro ministero: tutte le imprese italiane devono godere delle stesse condizioni delle concorrenti europee rispetto a cinque fattori di competitività: fiscalità, burocrazia, costo del lavoro, costo dell’energia, costo del denaro. Il secondo è che non c’è nessuna giustizia sociale senza sviluppo produttivo. Se noi mettiamo le nostre imprese alla pari con le altre, hanno altissime possibilità di competere e battere la concorrenza, come dimostra il successo delle nostre aziende che esportano. Sul mercato interno è più difficile e per questo vogliamo lavorare da subito».

A settembre ha già annunciato un provvedimento per ridurre il costo dell’energia. Ce lo può illustrare?
«Oggi la bolletta energetica italiana è gravata da 12 miliardi di incentivi per le rinnovabili. Vengono utilizzati da mezzo milione di produttori che hanno investito in energia eolica, biomasse e tutte le altre fonti da energia rinnovabile. Le risorse necessarie gravano sulla voce A3 della bolletta e incidono non poco. Per questo stiamo studiando una norma che, senza toccare in nulla il sistema di erogazione degli incentivi, ridurrà in modo significativo per due anni quella voce della bolletta, producendo per tutti gli italiani un risparmio del 7-8 per cento. Ne ho già parlato con Letta e a lui l’idea è piaciuta molto. Si tratta di un’operazione prettamente finanziaria da circa 3 miliardi, che potremmo coprire con obbligazioni o tramite un soggetto finanziario (non la Cassa depositi e prestiti che non può per statuto) che per due anni neutralizzi quella voce. È qualcosa di simile a ristrutturare un mutuo: gli incentivi dureranno 22 anni invece di 20, intanto riusciamo a ridurre subito la bolletta».
Un provvedimento che migliorerà anche la situazione delle imprese? L’energia è un fattore fondamentale per il settore acciaio o chimico, penso all’Alcoa… «Per le aziende cosiddette energivore stiamo studiando una misura ulteriore: una rimodulazione delle voci della bolletta per abbassarla, del valore di circa 100-200 milioni».
A fine settembre scade l’ennesima cassa integrazione a Mirafiori. La fabbrica storica della Fiat è senza investimenti e nuovi modelli. Cosa succederà a Torino? «Come sa io sono figlio di un operaio Fiat, e quindi ho molto a cuore il futuro in Italia di quella azienda. In questo mese d’agosto Enrico Letta ha avuto un incontro positivo con Marchionne ed Elkann. Io stesso ho incontrato Marchionne due volte e recentemente ho visitato Grugliasco, dove la Fiat ha investito un miliardo. Ecco, anche lì Marchionne mi ha ribadito la voglia di investire in Italia, ma chiede di essere messo nelle condizioni di poterlo fare».
La sentenza della Corte costituzionale però impone alla Fiat di riconoscere alla Fiom il diritto di avere rappresentanza. Come se ne esce?

«Condivido la posizione della Corte costituzionale e credo che l’unico modo per risolvere la diatriba tra Fiat e Fiom sia quella di de-ideologizzare la questione ed andare al merito dei problemi. Prima fra tutti il futuro di Mirafiori».

Ecco, lei con Landini a giugno si era detto disponibile a convocare un tavolo Fiat, governo e sindacati…
«Insieme ad Anfia (l’associazione delle industrie automobilistiche, ndr), abbiamo già riattivato il tavolo per affrontare le problematiche industriali dell’intero settore, dove priorità massima sarà data a Fiat». Quindi si impegna a convocare un tavolo prima della fine di settembre? «Senz’altro convocheremo il tavolo automotive agli inizi di settembre. Mi aspetto molto, in questo senso, dall’esperienza maturata da Marchionne. Insieme – istituzioni, imprese, sindacati – dobbiamo riuscire nella sfida difficile di accelerare il recupero di competitività di Fiat e del settore». L’ultima grande vertenza in corso è quella Indesit. A settembre ripartirà il confronto.
Cosa può dire ai lavoratori? È riuscito a parlare con la famiglia Merloni? «L’Indesit e la famiglia Merloni hanno qualche difficoltà perché il mercato degli elettrodomestici si è ristretto a causa dalla crisi e della concorrenza. Sulla gamma bassa la Turchia è molto forte ed è difficile mantenere da noi le produzioni. Come ministero però l’obiettivo primario è quello di non far chiudere le unità produttive nelle Marche e in Campania, e salvaguardare così il più possibile i posti di lavoro. Questa regola vale per tutte le crisi che gestiamo: se una fabbrica chiude poi è difficilissimo farla riaprire. L’esempio dell’Indesit dovrà essere la tedesca Miele o la Samsung: aziende che operano sulla gamma alta, magari con un occhio al prezzo. In questo modo supereremo anche questa crisi».
Per lei la sfida è quindi l’internazionalizzazione delle imprese italiane?
«Sì, questa sarà la nostra sfida per l’autunno. Abbiamo già definito un vero e proprio piano operativo, composto di due iniziative. Con la prima, il Road show, girerò la provincia italiana per convincere gli imprenditori a puntare sull’export. In più porteremo gli imprenditori con noi verso i nuovi mercati: una Road map che punta a intensificare la nostra presenza nei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), in America Latina, Arabia e Africa».
Passando alla politica, come vede l’avvio polemico del dibattito congressuale nel suo Pd?

«Il Pd è l’unico partito che può tenere assieme benessere ed equità sociale. Dobbiamo concentrarci sulle cose da fare: parlare meno delle regole interne e delle primarie e più dei giovani che non trovano lavoro, degli esodati, di quelli che soffrono. Le persone si sono rotte le scatole di sentire polemiche su questioni incredibili».

Ma lei alle primarie chi appoggerà?

«Ho seguito con attenzione le discussioni di questi giorni, e vorrei dire una cosa: il nostro premier, Enrico Letta, sta lavorando benissimo. Proprio per questo non capisco come si possa parlare ora di primarie per il premier: noi un premier lo abbiamo già ed è bravissimo. Io sto con chi, e sono tanti, nel partito appoggia il governo. Sul segretario mi limito a dire che le primarie si possono allargare anche ai simpatizzanti, ma non c’è nazione al mondo dove per eleggere il capo di una associazione si fanno votare anche i nemici: è come se per eleggere il capo degli alpini si facessero votare anche i marinai. Non esiste».

L’Unità 18.07.13

“Vi racconto quelli che hanno riscattato l’Italia”, di Pasquale Scimeca

La mattina di Ferragosto, mi sveglio colpito dal silenzio di un giorno di festa. Tutto è fermo, l’Italia intera è ferma, e si prepara a vivere una giornata di riposo con la mente sgombra e leggera. Mi sdraio in terrazza a leggere la fine del romanzo di Capuana, Il marchese di Roccaverdina. La storia è appassionante, un gran melodrammone, che si snoda come un romanzo rosa, a dispetto del “verismo” teorizzato a piene mani dall’amico fraterno di Giovanni Verga. Il caldo è clemente, almeno dalle mie parte, e nel cielo sopra le montagne si vanno ammassando nuvole nere che minacciano un temporale. Ma la Sicilia si sa, come diceva Sciascia, è un continente, e il sole deve splendere in tutta la sua pienezza, se tanta gente ha fatto tanta strada per godersi il mare. Sono giunto nel punto più intenso del romanzo, quello in cui Capuana descrive la pazzia del marchese, quando mi arriva un sms. Me lo ha inviato Linda (che è una mia carissima amica, oltre ad occuparsi della produzione dei miei film). «Non ci puoi credere! C’è uno sbarco sulla nostra spiaggia! Piango!!!».

Linda si trova in vacanza a Portopalo, nella provincia di Siracusa. La spiaggia è quella di Morghella. Mi metto in macchina e vado fino a lì, il lembo di terra più a sud d’Europa, il parallelo più a sud di Tunisi. Lo spettacolo che si presenta ai miei occhi è di una struggente tristezza, è di una evocativa bellezza. Mi fa pensare alle parole del grande Totò, marionetta gettata in una discarica, sul finire di uno dei più bei film di Pasolini: «Oh sublime bellezza del creato!». A un centinaio di metri dalla spiaggia, galleggia immobile nel riverbero del sole sulle onde, un barcone. In realtà è un peschereccio, simile a quello dei nostri pescatori, solo più largo e tondo, con le scritte in arabo sulle pareti, i disegni di rose e fiori, e a prua l’occhio di Maometto, come una benedizione. Sopra il peschereccio, sfidando ogni legge della fisica, sono ammassati più di un centinaio di uomini, donne e bambini. Hanno la pelle scura, dicono di venire dalla Siria e fuggono dall’inferno della guerra.

La maggior parte di loro non sa nuotare. Agitano le braccia per chiedere aiuto. I bagnanti sono tutti raccolti sulla banchigia, i piedi a mollo e le mani sugli occhi per pararsi dal sole e poter vedere meglio. C’è un silenzio irreale in quel lembo di mondo, carico d’attesa e di paura. Poi anche il tempo si rabbuia, va via il sole e si leva il vento da ponente che agita il mare e fa alzare le onde. Il barcone ondeggia e si arena con la prua in su. Uno dei migranti cade (o si butta) in mare e agita le braccia tra le onde che sembrano volerselo inghiottire. Nessuno sulla banchigia dice una parola o fa un gesto, e «la sublime bellezza del creato» che è depositata nel fondo ogni cuore, si fa largo nella mente degli uomini e delle donne in costume da bagno che stanno a guardare come ipnotizzati, e li fa muovere.

Prima un vecchio, poi una ragazza, poi un’altra ragazza, poi un giovane, un padre posa sulla sabbia il figlioletto che tiene in braccio e s’avvia anche lui. È un attimo. Tutto avviene in silenzio, senza enfasi. Si forma una catena umana che dalla spiaggia arriva fino al barcone. I giovani, i vecchi, i padri e le madri di famiglia, si passano di mano in mano le povere creature, larve di bimbi che non hanno neanche la forza di piangere, e come fagotti vengono depositati sulla sabbia. Poi aiutano a scendere le loro madri, che si precipitano a cercare i loro figli per stringerseli al petto. E il miracolo si compie, senza ardore né retorica, con gesti semplici e naturalezza. Non serve fare la cronaca di quello che è successo (chi vuole può collegarsi al sito Unità.it e può “vedere” foto e immagini riprese col telefonino da Linda). Quello che mi preme dire è un’altra cosa: non c’è eroismo in tutto questo, non c’è retorica, non c’è buonismo e non ci sono scelte ideologiche. C’è il cuore antico di un popolo che si risveglia, spinto dal vento che porta le parole di Papa Francesco pronunciate nel viaggio a Lampedusa, c’è soprattutto l’esempio di quest’uomo che viene «dalla fine del mondo» che tocca nel profondo le coscienze di noi tutti e ci spinge verso luoghi di cui ci eravamo dimenticati l’esistenza.

E per finire mi si permetta di citare un altro uomo, che viene da «un altro tempo», il nostro Presidente Giorgio Napolitano. Il suo encomio per i bagnanti della spiaggia di Portopalo che hanno soccorso i migranti, le sue parole accorate e sincere, ci riconciliano e rafforzano in noi quella coscienza morale, quel senso da dare alle nostre vite troppo spesso smarrite nel turbinio di messaggi e di comportamenti idioti, nel cicaleccio inconcludente a cui ci ha ormai abituato una classe politica povera di idee e meschina nella difesa di interessi e corruzioni d’ogni genere. Personalmente non conosco il nostro Presidente, ma ho conosciuto bene Pio la Torre, che era un suo amico carissimo, e questo mi basta per farmi ben sperare nel futuro.

L’Unità 18.08.13

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“Catena umana in spiaggia, parole disumane di Salvini”, di PAOLO DI PAOLO

GENTILE MATTEO SALVINI, PARLAMENTARE EUROPEO E VICESEGRETARIO DELLA LEGA NORD,
come vede, tra i suoi colleghi politici lei non ha l’esclusiva delle esternazioni fuori luogo. L’esponente Pd Gianluigi Piras, che augura all’atleta russa Elena Isinbaieva di essere stuprata, ieri ha fatto molto di peggio. Ma anche lei, via Facebook e via Twitter, alimenta quasi ogni giorno l’indegno e pericoloso sciocchezzaio dell’estate 2013.

Nemmeno una settimana fa ha proposto un referendum contro il ministero «inutile e ipocrita» dell’integrazione. Qualche mese prima, dopo un episodio di violenza a Milano, si è espresso così: «I clandestini che il ministro di colore vuole regolarizzare ammazzano a picconate». L’altro giorno – di fronte alla catena umana che sulla spiaggia di Pachino ha salvato 160 migranti, fra i quali donne incinte e circa 50 bambini sotto i tre anni – lei non ha trovato di meglio che commentare: «Che palle! Ora li manterrà Napolitano i migranti?». Il riferimento era alle parole del presidente della Repubblica sulla generosità delle decine di bagnanti che hanno fatto «onore all’Italia». Non so se si tratta di strategia politica, ma a quarant’anni – la sua età – è un peccato vederla già così cinico. C’è invece qualcosa, nelle immagini di quella spiaggia, che commuove: per quello slancio improvviso; quel darsi da fare e costruire in pochi istanti – fra sconosciuti – una rete di solidarietà concreta verso altri e più sfortunati sconosciuti.

Lei sa bene quanto ogni discorso sull’integrazione sia a rischio di facile retorica: nulla, in questo processo comunque inarrestabile, è facile; gli aspetti critici superano di gran lunga, per ora, i risultati positivi. Né il dibattito sull’immigrazione può fermarsi a un concetto generico e imprecisato di accoglienza. I pregiudizi e le paure anche legittime ostacolano, pure su un piano pratico, l’eventuale istintiva generosità. Ma nell’episodio della spiaggia di Pachino c’è qualcosa di più. Quando accade (è accaduto pochi giorni fa) che su una spiaggia d’estate vi siano alcuni cadaveri – migranti sconfitti dal lungo viaggio; ma anche un bagnante colto da un malore – spesso si rimprovera a chi sta intorno, forse a ragione, l’indifferenza. Ma contro la morte, una volta accaduta, che cosa si può fare? Al largo della spiaggia di Pachino, caro Salvini, c’era la vita: c’erano 160 vite. E qualcosa c’era da fare: provare a salvarle.

Per questo motivo vedere decine di persone in costume – donne e uomini anche molto giovani – lasciare l’ombrellone e andare incontro ai passeggeri di quella nave è commovente. Non c’entra la retorica: c’entra l’umanità. Nessuno di quei bagnanti, nessuno di noi è al riparo dai pregiudizi, dalle paure, né indifferente alle implicazioni pratiche che comporta l’approdo in Italia, in un anno, di oltre ventimila migranti. Ma lei, avvistando quella nave dal suo ombrellone, sarebbe rimasto fermo? O si sarebbe mosso solo per dei connazionali? Avrebbe chiesto se provengono dall’area geografica che per lei ha il nome di Padania?

Il nuovo Papa ha scelto di fare uno dei suoi primi viaggi a Lampedusa. E ha ripetuto la domanda che Dio pone a Caino: «Dov’è tuo fratello?». «Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle?» ha aggiunto, osservando come sia difficile sentirsi responsabili della sofferenza altrui, sentirsi davvero chiamati in causa. Un signore sulla spiaggia di Pachino, intervistato da un telegiornale, ha detto: «Uno di questi sbarchi, visti dal vivo, è un’altra cosa, ti tocca il cuore». Il gesto di quelle persone, caro Salvini, non onora solo l’Italia, onora l’umanità – ovvero la possibilità di essere, prima dei confini e delle leggi, umani. Come fa a non vederlo? Come fa a non tacere?
L’Unità 18.08.13

“Atenei, le classifiche instabili, La Sapienza oscilla di 109 posti”, di Leonard Berberi

Dice il ministro francese: «Quella classifica non rispecchia il nostro sistema accademico». Aggiunge più di un esperto: «I criteri utilizzati sono opinabili e parziali». E mentre qualche rettore festeggia, molti altri precisano, mostrano dati disaggregati, si appellano a studi precedenti. Critiche e polemiche. Almeno quattro volte all’anno. E proprio quando vengono pubblicate la graduatorie sui migliori atenei del mondo. L’ultima, in ordine di tempo, è l’Academic Ranking of World Universities (Arwu) della Jiao Tong University di Shanghai. Le università americane — secondo l’Arwu — sono le migliori. Quelle inglesi inseguono. Le nostre restano indietro (Pisa e «La Sapienza» avanti a tutte). E nemmeno le francesi se la passano tanto bene.
Uno studio, questo cinese, che affianca il Taiwan Ranking, il Qs World University Rankings e il Times Higher Education. Quattro classifiche che, a leggerle, non concordano nemmeno sul migliore ateneo. Per tre di loro al primo posto c’è Harvard. Per l’altra il Mit di Boston. E se, per esempio, la Johns Hopkins è medaglia d’argento per il Taiwan Ranking, lo stesso non compare nemmeno tra le prime dieci nelle altre graduatorie. Una «confusione» che non risparmia gli italiani. La Sapienza oscilla tra il 107° e il 216° gradino. La Statale di Milano tra il 97° e il 200°. Addirittura nessuna traccia di istituzioni tricolori nella «top 100» di Times Higher Education.
«Mi fa piacere che nella classifica appena pubblicata da Shanghai le cose per gli atenei francesi siano migliorate rispetto all’anno prima», ha esordito polemica Geneviève Fioraso, ministro transalpino dell’Istruzione superiore e della ricerca. «Ma questa graduatoria non riflette il livello reale del nostro sistema accademico».
Che succede? «La questione sta tutta nei criteri che si utilizzano», spiega Marino Regini, esperto di sistemi universitari ed ex prorettore dell’Università Statale di Milano. «Si tratta di quattro studi comunque validi, ma parziali». Prendiamo, per esempio, quella di Shanghai. «La metodologia — continua Regini — privilegia le pubblicazioni scientifiche, ma penalizza l’attività delle facoltà umanistiche. Per forza di cose noi non ci collochiamo molto in alto». «Certo, i tagli alla ricerca e un sistema per nulla competitivo non ci aiutano», ammette Regini. Che però trova del buono anche nell’Arwu: «Se prendiamo le prime 500 università c’è un indice di concentrazione delle nostre abbastanza alto».
«I criteri di una ricerca, anche se seri, sono per forza controversi», chiarisce Franco Donzelli, direttore del Dipartimento di Economia, management e metodi quantitativi dell’Università degli Studi di Milano. «Certo, l’Arwu di Shanghai e quella di Taiwan hanno più di una “deformazione”». Una è linguistica: «Il lavoro privilegia gli studi in inglese ed esclude tutti quelli in italiano, francese, tedesco». L’altra è quantitativa: «Più ricerche pubblichi sulle riviste Nature e Science più acquisti punti: ma così finisci per favorire le grandi istituzioni accademiche». E i risultati, a sentire Donzelli, spesso sono «bizzarri». «Secondo i cinesi “La Sapienza” è la seconda migliore università italiana. Ma se andiamo a vedere i dati dell’Anvur, la nostra agenzia nazionale di valutazione, lo stesso ateneo non ne esce molto bene». Detto questo, «noi abbiamo le nostre colpe: per anni abbiamo privilegiato la qualità media dell’istruzione a scapito di quella d’eccellenza».
Anche Andrea Bonaccorsi, membro del Consiglio direttivo proprio dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, critica alcuni aspetti metodologici delle quattro graduatorie. «Ma togliamoci dalla testa l’idea di avere una classifica unica e certa», avverte. «Trovo in generale opinabile l’uso dei riconoscimenti storici a cui fanno riferimento alcuni ranking — spiega Bonaccorsi — perché così gli atenei antichi sono avvantaggiati». Non solo. «Penso che sia anche abbastanza arbitrario, per esempio, il modo in cui la Jiao Tong University aggrega i vari indicatori».
Bonaccorsi cita poi uno studio europeo che ha sottoposto tutte le classifiche internazionali delle università ad alcune «prove di robustezza» per verificarne la validità. «Soltanto le prime cinquanta posizioni sono risultate attendibili», sintetizza. «Tutte le altre presentano un tasso di errore molto elevato».
Insomma, fidarsi sì, delle graduatorie, ma fino a un certo punto. E come se non bastasse il prossimo anno ne arriverà una quinta. Si chiama «U-Multirank», è tutta europea (fondi compresi, messi a disposizione dall’Ue) e analizzerà circa 700 atenei di tutto il mondo. Una realtà «fortemente voluta dai governi del Vecchio Continente per contrastare proprio le altre quattro classifiche», rivela Regini.
Servirà? «Dipende», continua il professore. «Potrebbe farci capire come stanno davvero le cose. Oppure confonderci ancora di più». E allora saremmo punto e a capo.

Il Corriere della Sera 18.08.13

“Il fantasma dell’Algeria”, di Tahar Bel Jelloun

Nè Cristo né Maometto si sono fermati al Cairo nel sanguinoso venerdì 16 agosto. Lo spettro della guerra civile si stende sull’Egitto. Torna alla mente l’Algeria del 1991, quando l’esercito mise fine al processo elettorale perché le urne avevano assegnato la vittoria al Fronte islamico di salvezza. Quella sospensione della democrazia fu seguita da una guerra senza quartiere fra gruppi islamisti armati e il governo.
Il terrorismo prese il Paese in ostaggio, massacri orrendi furono commessi da una parte e dall’altra. Più di centomila civili algerini perirono nel corso di una guerra che andò avanti per una quindicina d’anni. Un simile scenario di orrore quotidiano, come quello a cui assistiamo da più di due anni in Siria, sembra poco probabile.
L’Egitto non precipiterà in una guerra civile, anche se le premesse di un simile disastro sono ben visibili oggi al Cairo, ad Alessandria o a Ismailia. La polizia ha aperto il fuoco sui manifestanti che si rifiutavano di lasciare la piazza Rabi‘a al-Adawiyya, che occupavano da un mese e mezzo. Ma la violenza è da entrambe le parti: dimostranti islamisti hanno dato alle fiamme alcune chiese copte; il ministro dell’Interno riconosce che ci sono stati centinaia di morti tra i manifestanti e molte vittime tra le forze dell’ordine.
I Fratelli musulmani egiziani non hanno niente a che vedere con il Fronte islamico di salvezza algerino. Esistono da quasi un secolo, sono ben strutturati, ben organizzati e formano uno Stato nello Stato. Pensano che l’Islam sia l’unica soluzione a tutti i problemi. Sull’altro versante, una parte del popolo egiziano (tra cui una decina di milioni di copti) pensa che la soluzione verrà dalla separazione tra religione e politica, ossia dalla laicità. Non è ateismo, ma un rispetto reciproco tra chi ha la fede e chi considera che credere o non credere sia una faccenda che deve riguardare la sfera privata. Ma la propaganda islamista si è affrettata a dipingere la laicità come il male assoluto, confondendola con la negazione della religione. Nella stampa islamica, la parola “laico” rappresenta un insulto e un’autorizzazione a cacciare l’ateo.
Ritroviamo lo stesso discorso in Tunisia, dove si affrontano due visioni del mondo, una abbarbicata alla religione e l’altra laica, libera e moderna. Più l’islamismo arretra (i vari governi di matrice islamica hanno dimostrato la loro incompetenza e la loro incapacità di rispondere ai problemi del popolo), più i suoi rappresentanti si innervosiscono e giocano il tutto per tutto. In che modo le aggressioni contro i cristiani copti potevano risolvere i problemi dell’Egitto, dove Mohamed Morsi si era accaparrato tutti i poteri o quasi, esattamente come aveva fatto l’ex presidente Mubarak? La legittimità conferitagli dalla sua vittoria elettorale, con una ristrettissima maggioranza, non lo autorizzava a reprimere le manifestazioni di piazza Tahrir.
L’attuale premier egiziano, Hazem al-Beblawi, ha fatto bene a ricordare che «l’Egitto non sarà né una repubblica islamica né una dittatura militare». Tuttavia, il sangue versato venerdì 16 agosto resterà un’onta ignominiosa per il governo in carica. Mohammed el-Baradei ha capito che era opportuno lasciare la vicepresidenza, perché la violenza omicida resta qualcosa di inammissibile.
Una parte importante del mondo arabo vive sotto tensione. In Siria un dittatore compiaciuto di sé massacra quotidianamente civili con il pretesto di combattere il terrorismo; ha distrutto Aleppo e i suoi monumenti patrimonio dell’umanità. La Libia è precipitata in un marasma tribale e religioso. La Tunisia è scossa da omicidi e attacchi violenti dei salafiti.
Il passaporto di un Paese arabo è visto con sempre più sospetto. È la decadenza che si annuncia in questi episodi, tutti caratterizzati da fanatismo e ignoranza. Se malauguratamente l’Egitto dovesse precipitare in una guerra civile all’algerina, sarà tutto il mondo arabo a subirne le conseguenze, che non potranno essere che tragiche.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 18.08.13

“Non sprecare l’occasione del governo”, di Bruno Gravagnuolo

L’Italia, il governo, il partito. E sullo sfondo l’Europa. È da queste coordinate che deve muovere ogni analisi sul «che fare» per la sinistra. Perché queste sono le circostanze selettive che ne plasmano le scelte e il cammino. E queste le grandi questioni su cui è necessario misurarsi. Senza trincerarsi dietro comodi stati di necessità, che fungano da alibi per non scegliere o navigare a vista. E allora l’Italia e il governo del Paese. Nasce quest’ultimo da un’impasse, alla quale è tempo di dedicare un’analisi circostanziata. Dai limiti di programma – nazionale e continentale – alle debolezze di comunicazione, all’idea di aver avuto la vittoria in tasca. Ma nella stretta in cui siamo e confortati dalle amministrative, questo governo, oltre che l’unico consentito, resta un’occasione importante per conseguire alcuni obiettivi di fondo.
Innanzitutto portare il Paese fuori dalle secche della crisi economica e metterlo al riparo dai ricatti dei mercati finanziari. Dunque, risanamento e redistribuzione. Semplificazione burocratica e taglio degli sprechi, moltiplicati dalla proliferazione dei centri di spesa. Una grande operazione di riallocazione delle risorse. Che colpisca rendite e impieghi clientelari al fine di rilanciare competitività e domanda interna, nella salvaguardia piena dei diritti e di una rinnovata centralità del lavoro. Il che è essenziale anche per far giocare all’Italia un ruolo forte in Europa, volto a premere per un cambio radicale delle politiche economiche monetariste e liberiste. Che hanno contribuito non poco a compromettere l’idea stessa della costruzione europea, oltre che a generare una recessione tutta a carico di ceti subalterni e imprese.
Ma per far ciò è necessario che il governo vada avanti, senza complessi o intralci dall’interno della sua forza di riferimento: il Pd. E senza cedere a ricatti. A quelli del populismo grillino, che punta allo sfascio (magari lasciando intravedere «disponibilità»). O a quelli della destra, oggi più che mai divisa e incerta dopo la nota del Capo dello Stato a margine della sentenza in Cassazione. Nota rigorosa e inequivoca, e che non lascia spazi possibili a Berlusconi per sconti su pena accessoria, decadenza e incandidabilità. Ecco perché la destra che «reindossa» Forza Italia è nel dilemma. Tra l’affondo sovversivo e antiStato, cavalcando piazza e Aventino (fino alla crisi di governo). E sostegno condizionato a Letta,
sostegno non privo di attacchi e logorio, ma in direzione di una diversa leadership. Magari scontando un periodo «speciale» di direzione berlusconiana, da bordo campo per intendersi. Certo, gran parte delle sorti del governo dipendono dall’evoluzione di questo dilemma. E quindi dalla possibilità o meno che questa destra accetti la fine di un’era, e un cambio di pelle e natura.
Tuttavia se è vero che occorre assecondare questa evoluzione – una destra normale – essa non è nelle mani e nella disponibilità della sinistra. E allora? E allora nervi saldi, parole chiare e assunzione delle proprie responsabilità. Lasciando agli altri le proprie, senza equivoci. Il che, sul piano operativo, significa: che il dramma e il travaglio si consumino sull’altra sponda, e senza interferenze. E però non ci si lasci fuorviare o provocare. Perché questo governo, che vede il Pd in posizione centrale, ha davanti a sé compiti ben precisi, da cui non è possibile deflettere, crisi o non crisi dell’esecutivo. Il punto sta qui. Il governo, con dentro il suo programma e le finalità indicate dal presidente del Consiglio, possono essere, e sono già, anche un programma politico più ampio, proprio per il Pd. Sicché non solo occorre non piagnucolare, nascondendosi e derubricando l’esecutivo a brevissima iattura non voluta. Al contrario. Va rovesciato il discorso: in questo governo – voglia o meno la destra – c’è un’idea da far valere per l’Italia. Anche in caso di scontro elettorale prima del semestre italiano in Europa (tappa chiave per cambiarla, questa Europa). E l’idea è quella di un’Italia sociale e produttiva. Liberata da sprechi e privilegi che alimentano l’antipolitica. Gonfiano i demagoghi ricchi o plebei e distruggono i partiti.
Ecco perciò squadernata l’altra questione chiave su cui né il governo, né il Pd debbono fallire. Ed è il tema dell’Italia neo-costituzionale dei partiti. Che significa? Le modifiche alla nostra Costituzione, nel solco della Costituzione. Un nodo cruciale, l’aver eluso o mancato il quale ci ha portato dove siamo, incluso il compromesso con la destra. E banco di prova «definitivo» di questo governo. Che non per caso fin dall’inizio è stato incardinato su tale obiettivo. Vuol dire portare a casa la fine del bicameralismo, il cancellierato e la semplificazione del sistema politico. Rilanciando il ruolo dei partiti di massa come vero elemento stabilizzatore del bipolarismo: su basi di interessi e valori, non di modellini politologici. Qui la sinistra si gioca tutto, nel confronto con la destra e con se stessa. Qualità del governo, partiti e istituzioni. Se ci pensate è il cuore del congresso del Pd.

L’Unità 17.08.13

“Il premier: ora misure per le imprese. Varrà la pena di investire in Italia”, di M. Antonietta Calabrò

Letta annuncia il decreto «Fare 2». «L’Europa non può essere solo sacrifici». «Dobbiamo, prima di tutto, avere maggiore fiducia in noi stessi. Uscire da quella cappa di sottovalutazione, autolesionismo, che troppo spesso ci toglie ossigeno. Dimostrare all’Europa e al mondo che non c’è più bisogno che ci si dica di fare i “compiti a casa”. I sacrifici li abbiamo fatti e li stiamo facendo non perché ci sia qualcuno ad imporceli, ma perché siamo un Paese adulto che vuole ricominciare a costruire il futuro dei propri figli. L’Italia può farcela: questo è il messaggio».
Intervistato dal Sussidiario.net, il premier Enrico Letta anticipa le linee guida dell’intervento che pronuncerà domani per l’apertura del Meeting di Rimini. Dopo una pausa estiva-lampo, 5 giorni con figli e famiglia a Pisa, la prima uscita pubblica di Letta sarà al dibattito su «Un’Europa unita, dall’Atlantico agli Urali» che inaugurerà il tradizionale appuntamento di Comunione e Liberazione. Discorso incentrato sull’inevitabilità del nostro ruolo in Europa, ma in un Europa che «sia veramente l’Europa dei popoli» e «non del rigore e basta». E un’ammissione (dopo le critiche dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne) sulla difficoltà di fare industria nel nostro Paese, ma anche una lista dei molti passi avanti compiuti con l’azione di governo.
Partendo dall’impegno per correggere la rotta europea dal rigore verso la crescita, il presidente del Consiglio si concentra sul programma di governo: il rispetto dei vincoli di bilancio, sottolinea, ha consentito all’Italia di uscire dalla procedura di infrazione e di avviare, pur nella ristrettezza delle risorse, politiche per l’occupazione e la crescita. Provvedimenti che, è l’impegno di Letta, il governo rafforzerà sia con nuovi decreti come il «Fare 2», ma soprattutto nella legge di stabilità. Mentre ministri tecnici e partiti saranno al lavoro per riformare l’Imu — il 20 è previsto un preconsiglio — mercoledì 21 agosto il premier sarà a colloquio a Vienna con il cancelliere austriaco, Werner Faymann. Letta farà poi rientro a Roma, dove il 23 si riunirà il consiglio dei ministri. Ci sarà sicuramente un primo confronto su come superare la tassazione immobiliare ma, secondo fonti parlamentari, l’approvazione della riforma avverrà nel cdm del 30 agosto.
Nell’intervista a Sussidiario.net Letta afferma che l’Italia può «tornare a competere solo dentro un’Europa più solida e unita, anche e soprattutto sul piano politico», mentre «dire che l’euro è una sciagura», «è una sciocchezza»: le conclusioni del Consiglio europeo dello scorso giugno, con gli interventi in favore della lotta alla disoccupazione dei giovani, segnano, da questo punto di vista, secondo il premier, «un cambio di passo. È in questa direzione che vogliamo e possiamo continuare a insistere».
In questo quadro, annuncia Letta, il tema dell’Unione bancaria «sarà centro del semestre di presidenza italiana dell’Ue, l’anno prossimo. «È vero — sostiene il presidente del Consiglio — che fare industria in Italia è difficile perché molti fattori di svantaggio competitivo — esogeni ed endogeni al sistema produttivo italiano — condizionano i processi economici e sociali. Su questi fattori, però, stiamo lavorando e continueremo a farlo per dimostrare a tutti che, per quanto sia difficile, fare impresa è possibile». E annuncia «il grande progetto “Destinazione Italia”, che presenteremo a settembre per ribadire un messaggio chiaro: vale la pena di investire in Italia».
La ripresa economica passerà anche attraverso la valorizzazione del nostro patrimonio culturale e ambientale che costituisce una risorsa eccezionale per il nostro Paese. E non a caso Letta sottolinea come «tema essenziale» anche la programmazione dei fondi europei. Segnale colto dal ministro per la Coesione Territoriale, Carlo Trigilia, che ha assicurato l’utilizzazione «al meglio» dei fondi UE per il 2014.

Il Corriere della Sera 17.08.13

“Il dilemma della diplomazia occidentale”, di Pasquale Ferrara*

Sarebbe ingeneroso, oltre che scorretto, imputare quanto accade in Egitto e – nonostante le profonde differenze – in Siria e Tunisia a una mancanza di attenzione del mondo euro-occidentale. Con le rivoluzioni arabe si è innescato in Nord Africa un processo sociale e politico che nessuno sembra davvero in grado di prevedere o controllare. Non lo controllano le piazze, ma non lo controllano nemmeno le piazzeforti.
Quando un esercito interviene con metodi pseudo-militari contro la propria popolazione, è un segno non solo di debolezza, ma anche della mancanza di una strategia di medio-lungo termine, al di là della conservazione del potere. Sarebbe tuttavia altrettanto fuorviante sostenere che la comunità internazionale ha davvero fatto tutto quanto era politicamente in suo potere per sostenere le transizioni con massicce iniezioni di fiducia e apertura di credito. Investire politicamente in Paesi che tentato d trovare una propria strada alla democrazia è sempre rischioso, ma c’è da chiedersi se non sia più rischioso non farlo.
La prudenza se non il sospetto hanno dominato in larga misura l’atteggiamento dell’Occidente nei confronti dei rivolgimenti nel mondo arabo-islamico. È anche vero che tali processi si sono manifestati in un momento critico per le relazioni internazionali, a causa soprattutto della crisi finanziaria in Occidente e delle pesanti conseguenze sul tessuto sociale, economico e politico-istituzionale. C’è poco spazio per le relazioni internazionali se esse sono percepite come una sorta di lusso che non ci si può permettere quando si hanno dinanzi questioni ben più pressanti e cruciali, che in qualche misura mettono a rischio un intero modello di sviluppo.
Tuttavia l’ipotesi della «distrazione» rischia di essere superficiale e di non cogliere il vero nocciolo della questione, che non riguarda solo il mondo arabo-islamico, ma tutte le società in fase di transizione o di consolidamento democratico, o quelle che faticosamente emergono da conflitti interni laceranti.
Molti sono i fattori che rendono l’azione della comunità internazionale in gran parte inefficace rispetto ai conflitti «civili».
La prima ragione risiede nella stessa natura di tali conflitti, molto diversi dalle guerre del passato. Qualche decennio fa, riferendosi alle guerre intestine nei Paesi della ex-Jugoslavia, Mary Kaldor propose il paradigma delle «nuove guerre»: conflitti non più inter-statali, ma crisi interne che ben presto si internazionalizzano, diventando trans-nazionali. Inoltre le «nuove» guerre sono di carattere identitario, non patrimoniale, e pertanto destinate ad essere combattute con maggiore determinazione, con poco spazio per il negoziato.
C’è però un altro motivo che rende inefficace l’intervento politico-diplomatico, e cioè la contraddizione, ormai patente, tra due principi fondanti dell’ordine internazionale, che possiamo sintetizzare facendo riferimento a due documenti internazionali: da una parte, la Carta delle Nazioni Unite, che sancisce il dogma dell’inviolabilità della politica interna, della «giurisdizione domestica» e che fa della sovranità un baluardo contro ogni ingerenza esterna; dall’altro, la Dichiarazione dei diritti umani fondamentali, che invece pone al centro di ogni azione politica internazionale la dignità della persona umana e le libertà individuali.
I tentativi di superare questa imbarazzante dissonanza si sono rivelati sinora di limitata efficacia, nonostante la creazione della Corte penale internazionale e la più recente configurazione di una «responsabilità di proteggere» facente capo proprio alla comunità internazionale.
Tutto ciò riduce notevolmente le possibilità di influenza, a meno che non si pretenda di risolvere ogni crisi interna o internazionale con un intervento militare, più o meno legittimato dalle istituzioni multilaterali.
Realisticamente, e nonostante il sostanziale cambiamento degli equilibri mondiali in corso, esistono solo due attori internazionali in grado di svolgere quanto meno un ruolo di persuasione nella direzione del dialogo e del negoziato, vale a dire l’Unione Europea e gli Stati Uniti. L’Europa, in particolare, dovrebbe finalmente varare un disegno complessivo di stabilizzazione, di sviluppo e di partenariato nel Mediterraneo. Se prima era una scelta, oggi è una necessità.
*Segretario generale Istituto universitario europeo

L’Unità 17.08.13