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“Lavoratori e voto: c’era una volta l’identità di classe”, di Carlo Buttaroni

C’era una volta il lavoro, paradigma di una società che faceva perno in- torno alla fabbrica e all’ufficio. Ritmi scanditi, spazi organizzati, sincronie che comprendevano l’attività lavorativa vera e propria, ma anche l’educazione dei giovani, la sfera personale, il tempo libero, le relazioni sociali, lo spazio dedicato alla famiglia. La scuola accompagnava il giova- ne all’età lavorativa, la sanità pubblica si occupava di ridurre i rischi individuali derivanti dalle malattie, le pensioni di anzianità garantivano la sicurezza economica all’uscita dal mondo del lavoro. Un modello di organizzazione sociale riflesso di una pienezza che copriva l’intero ciclo di vita, il cui tracciato essenziale era stato incastonato nel primo articolo della Costituzione: una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
Nell’epoca del lavoro multiforme, instabile, discontinuo, la politica ha perso gran parte dei rispecchiamenti che avevano origine da quell’organizzazione sociale. Il lavoro non è più il «pentagramma» della politica su cui erano scritti i «fini generali», i partiti non affondano più le radici nelle fabbriche, i discorsi pubblici dei leader non ambiscono più a scandire il ritmo dei processi di produzione, non tentano più di coniugare il rapporto fra capitale e lavoro. Oggi, se dovessimo interrogarci sulle possibilità che nasca (o rinasca?) un «partito del lavoro», una forza politica, cioè, che attraverso il lavoro si ponga l’obiettivo di governare la società nel suo complesso, non potremmo che darci una risposta negativa, perché il lavoro non è più il «centro» della politica. E all’orizzonte non si annuncia- no soggetti pronti a raccogliere l’eredità di quelle forze politiche che, pur da sponde lontane, per cinquant’anni, hanno avuto nel lavoro il loro denominatore comune. La perdita della centralità del lavoro ha reso meno rappresentativi i partiti, più fragili le istituzioni, più soli i lavoratori e persino più deboli le imprese. Non è un caso che da vent’anni, nel nostro Paese, manchi una vera politica industriale.
Il lavoro non è più l’unità di misura dell’interpretazione sociale ed economica che orientava le scelte delle grandi famiglie politiche del Novecento: ne hanno preso il posto le mutevoli leggi della finanza e politiche asincrone che hanno necessità di contabilizzare il consenso in tempi brevissimi. I partiti del novecento potevano permettersi orizzonti e visioni di campo lungo, che avevano corrispondenza nei cicli di vita economici, mentre le insicure leadership del post-Novecento hanno bisogno di un consenso che deve essere rendicontato in fretta. In settimane, se non in giorni. Le organizzazioni politiche «impersonali» potevano mettere in campo scelte anche impopolari, mentre le leadership individuali e solitarie di oggi hanno bisogno costantemente di interpretare l’onda emotiva, assecondandola e alimentandone le pulsioni, anche quelle più retrive. Senza che si abbia la forza e il coraggio di dire qualcosa di diverso, o qualcosa che abbia una declinazione di respiro più ampio di un incombente presente.
La fine della centralità del lavoro ha portato a non far più coincidere i cicli di vita economici e quelli politici. Col risultato che gli uni non dipendo- no più dagli altri e sono cresciuti gli spazi di rarefazione politica e d’ingovernabilità della società.
Parlare di «disoccupazione» non è la stessa cosa che parlare di «lavoro», perché mentre il primo è un indicatore economico, il secondo definisce un ambito e un’essenza che già Freud definiva fonda- mentale nella costruzione dell’identità dell’individuo. E, conseguentemente del palinsesto sociale. Infatti, piaccia o no, il conflitto
di classe, anche se diverso rispetto al passato, non è scomparso e nemmeno attenuato. Né la sua corrispondenza politica. Al contrario, po ne nuove sfide di fronte all’incalzare della crisi. Non possono sfuggire le conseguenze delle nuove asimmetrie dei rapporti di potere tra finanza, produzione e lavoro. Ciò che tuttavia sembra essere mutato profondamente è il loro primato relativo, la loro perdita di centralità politica rispetto all’insieme di conflittualità che attraversano la società contemporanea.
Non sono le «classi» a essere superate – benché siano cambiate in termini di composizione, caratteristiche e bisogni – ma appare inadeguata la capacità di interpretarne e rappresentarne il connotato politico che per anni ha avuto il suo focus nel lavoro.
I cambiamenti, semmai, sono stati nella composizione delle classi stesse. Vent’anni di globalizzazione, infatti, hanno modificato questo agglomerato inizialmente composto prevalentemente da operai, a cui si sono aggiunti progressivamente gli impiegati e i lavoratori del settore terziario. Gruppi accomunati da bassi salari e da una crescente precarietà, che vivono ai margini delle zone dove si produce ricchezza, in una no man’s land culturale. E non è un caso se, proprio in questi paesaggi sociali degradati, tendono ad affermarsi i partiti populisti. Cambiamenti di questo tipo si sono visti negli ultimi anni anche in altri Paesi, come gli Stati Uniti o la Francia, dove il rapporto con la nuova middle class proletarizzata è stato determinante nel successo all’appuntamento elettorale. Spesso dimenticata, talvolta data per estinta, la classe operaia si è riaffacciata quindi anche sulla scena politica americana. Il voto dei «colletti blu» è stato determinante per Obama, soprattutto in alcuni Stati chiave. Come in Ohio, simbolo della sua elezione, dove hanno sede stabilimenti Chrysler e molte aziende dell’indotto del settore automobilistico. Anche in Francia il voto dei lavoratori è stato determinante.
François Hollande e Nicolas Sarkozy aprirono il duello delle presidenziali con un inedito confronto proprio sulle classi medie e popolari, accusandosi a vicenda di non volerle tutela- re. Ed è stato proprio il divorzio da quelle fasce di popolazione dell’ex presidente francese a favorire il successo di Hollande e ad aprire al candidato socialista le porte dell’Eliseo. In Italia, la fine della centralità del lavoro, si riflette nel tessuto multiforme di una conflittualità costante ma quasi latente, ad alta frequenza e bassa intensità, che non si accompagna ad alcun vettore di trasformazione che non sia frutto di una risultante provvisoria, riflettendosi in un deficit di rappresentanza e non di domanda politi- ca. Un deficit cui i partiti rispondono con la continua ricerca di un «uomo forte», che sappia farsi interprete di una «politica forte», ma che è soltanto la risposta incompleta di un sistema inaridito e rarefatto, lontano dalla società e che vive, mai come oggi, gli affanni dell’inadeguatezza.

L’Unità 19.08.13

“Il valore della creatività”, di Pietro Greco

Gli ultimi dati di Eurostat sull’andamento dell’economia sono incoraggianti per l’Europa. Nel secondo trimestre 2013 il continente esce dalla recessione e ricomincia a crescere: + 0,3% del Pil. Purtroppo quegli stessi dati sono molto meno incoraggianti per l’Italia. Il nostro Paese è ancora in recessione: – 0,2%. Peggio di noi ha fatto solo Cipro.
La Germania (+ 0,7%) è, ancora una volta, la locomotiva dell’Unione. Seguita a stretto giro da Gran Bretagna (+ 0,6%) e Francia (+ 0,5%). Noi siamo, ancora una volta, il vagone piombato che frena il convoglio. Poiché questo differenziale di circa un punto tra noi e il resto d’Europa nella crescita del Pil dura, con sconcertante costanza, da quasi trent’anni: poiché negli ultimi decenni siamo il Paese al mondo cresciuto di meno dopo Haiti; e poiché la decrescita (la recessione) degli ultimi 5 anni non è stata e non è tuttora affatto felice, ma, ahimè crea disoccupazione e povertà dovremmo chiederci: perché? E tenere la domanda costantemente sulla prime pagine dei giornali e in cima all’agenda politica. Purtroppo da vent’anni ci facciamo distrarre dai problemi personali di Berlusconi e ci dimentichiamo del Paese.
La crisi italiana non è solo economica. E la domanda non ammette una risposta semplice. Tuttavia un co-fattore determinante va cercato nell’industria manifatturiera, che pure è la seconda in Europa. Il problema è la sua specializzazione produttiva. Il nostro sistema industriale produce beni a basso e medio tasso di conoscenza aggiunto. Dove maggiore è la concorrenza dei Paesi a economia emergente. Non ci siamo accorti che, negli ultimi trent’anni, che il mondo è entrato nell’economia fondata sulla cultura.
E così, invece di cercare di cambiare specializzazione produttiva e puntare sulla qualificazione del lavoro, reagiamo tentando di competere sul versante del costo del lavoro, puntando sulla compressione dei salari e dei diritti sul posto di lavoro. Anzi, su una vera e propria dequalificazione del lavoro. Nei giorni scorsi è stato reso noto il dato che il numero di laureati assunto dalle industrie tende a diminuire e ha raggiunto un minimo.
Tutto questo non solo crea ingiustizia (siamo uno dei Paesi al mondo in cui negli ultimi due decenni la disuguaglianza sociale è cresciuta di più) ma deprime l’economia. Salari più bassi e maggiore disoccupazione determinano una contrazione strutturale della domanda interna. Dovremmo invece cambiare la specializzazione produttiva del sistema Paese seguendo l’esempio di altre economie di Paesi con una forte industria manifatturiera – dalla Germania alla Corea del Sud o anche alla stessa Cina – e puntare sulla cultura.
Ma quante divisioni ha la cultura, ci chiedono gli scettici? Beh, molte più di quanto si creda e si voglia far credere. Per contare le divisioni occorre definire cosa intendiamo per cultura.
Per fortuna ci viene in aiuto, autorevolmente, Umberto Eco, il quale sostiene che per cultura che ha un forte impatto socioeconomico dobbiamo intendere tre cose: la formazione, la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico, l’industria creativa. Per industria creativa dobbiamo intendere, spiega ancora Eco, una serie di attività che vanno dall’industria editoriale (informazione e comunicazione) al design, dal cinema al teatro, dalla musica all’infinita, (ma ben definita) serie di attività che hanno la creatività per ingrediente di base.
Ebbene, queste sono le tre divisioni che la cultura mette in campo è che hanno già conquistato la parte maggioritaria dell’economia mondiale. I beni e i servizi del sistema produttivo che si fonda sulla ricerca scientifica (beni e servizi hi-tech) rappresentano il 30% del Prodotto interno loro mondiale. L’industria creativa rappresenta il 15% del Pil mondiale. E, infine, la formazione (dalla scuola materna all’università) rappresenta almeno il 6 o 7% del Pil mondiale. Il che significa che almeno il 52% dell’economia del pianeta, ormai, si fonda sul «triangolo di Eco». A questo bisognerebbe aggiungere, a onor del vero, un altro 8-10% rappresentato dalla sanità, che è ormai quasi per intero fondata sulla medicina scientifica e l’alta qualificazione.
La cultura cui facciamo riferimento, dunque, rappresenta circa il 60% dell’economia del mondo. Ebbene in questo grande flusso sono totalmente immersi i Paesi economicamente più dinamici del pianeta (dalla Germania alla Corea del Sud alla Cina, per non parlare degli Usa). Mentre l’Italia ne è sostanzialmente fuori. Gli investimenti in formazione dell’Italia sono tra i più bassi dei Paesi Opec e il numero di laureati tra i giovani è addirittura un terzo di quello della Corea, del Canada, del Giappone, della Russia. Idem per gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico. Ma, quel che è persino più grave, abbiamo una delle bilance tecnologiche dei pagamenti più in passivo d’Europa. Acquistiamo all’estero la gran parte della tecnologia che consumiamo.
Persino nell’industria creativa segniamo il passo. Quanto alla sanità, continuiamo a considerarla un settore dove tagliare, ben sapendo che è una delle meno care e più efficienti tra i paesi Ocse. Vogliamo parlare di questo? Vogliamo scordarci per un attimo Berlusconi e verificare come cambiare il Paese partendo da questi quattro divisioni?

L’Unità 19.08.13

“Cie hanno già fallito: chiuso anche quello di Modena”, di Andrea Bonzi

La Bossi-Fini perde i pezzi. L’insofferenza delle associazioni, sindacati – Cgil in testa – e degli enti locali contro i Centri di identificazione ed espulsione (Cie, gli ex Cpt istituiti dalla Turco-Napolitano) ha raggiunto il culmine in queste settimane. Le strutture – oggi complessivamente 13, per un totale di 1.900 posti disponibili – sono sempre più spesso nell’occhio del ciclone, sia per le pessime condizioni di vita degli ospiti, sia per una gestione al ribasso che ha lasciato per mesi gli operatori senza stipendio. Un fallimento certificato dalle chiusure di Bologna (avvenuta a marzo per lavori, e poi confermata a giugno) e Modena, che è stato svuotato mercoledì scorso, nonché dalle polemiche che stanno investendo il centro di Gradisca d’Isonzo, vicino a Gorizia, dopo che un immigrato, cercando di fuggire, è caduto dal tetto e versa ora in gravissime condizioni. Per questo dunque, anche la politica sta cercando di portare a casa la definitiva cancellazione di queste vere e proprie prigioni mascherate. Il Pd, a fine luglio, ha presentato alle Camere una mozione a firma Ghedini-Zampa per abolire tutti i Centri.

IL CASO DI BOLOGNA

In Emilia, al momento, nessuno dei due Cie presenti sul territorio è aperto. A Modena, mercoledì è stato dato il via ai lavori di ristrutturazione: gli “ospiti”, 6 quelli rimasti, sono stati trasferiti altrove e i 30 addetti della consorzio Oasi che gestiva la struttura sono stati messi in cassa integrazione. Il tutto, previo accordo tra il prefetto Mi- chele Di Bari e il vicepremier Angelino Alfano. «Se non si è più in grado di garantire condizioni di vivibilità dignitose all’interno del Cie, allora bisogna intervenire», ha sentenziato Di Bari annunciando i lavori, ben accolti anche dal sindaco modenese Giorgio Pighi. Difficile dire quando riaprirà, e non è escluso che il Centro resti inattivo. Tanto che i parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi e Stefano Vaccari ammoniscono: «Non si deve arrivare alla riapertura del Cie senza averne rivisto prima, a livello nazionale, funzioni e obiettivi, nel quadro più generale di una seria e rinnovata politica sull’immigrazione». A Bologna, del resto, è andata proprio così: lo stop a marzo per lavori analoghi è stato reso definitivo a giugno.

LE RAGIONI DI UNA DÈBACLE

Le ragioni della dèbacle vanno ricercate nel “manico”: l’ultimo capitolato d’appalto al ribasso prevedeva costi di gestione insostenibili: con circa 29 euro al giorno a migrante (il 40% di quanto offerto da una società concorrente) il consorzio siciliano Oasi si è aggiudicata entrambe le strutture. Però poi le condizioni di vita degli ospiti peggioravano e i lavoratori lamentavano stipendi in ritardo o non pagati, che alla fine sono stati saldati dalle Prefetture. Polemiche finite sui giornali, tanto che a Milano il Prefetto ha stoppato l’affidamento all’Oasi, giudicando incongrua l’offerta presentata. Insomma, nessuno – a parte forse qualche esponente della Lega Nord – sembra ne sentirà la mancanza. E non è una questione solo emiliana. L’ultima rivolta è avvenuta al Cie di Gradisca d’Isonzo, in Friuli. Un gruppo di clandestini è salito sui tetti della struttura, protestando per le condizioni della detenzione. Durante un tentativo di fuga, un marocchino 35enne è caduto e versa ora in condizioni gravissime. Una tragedia che ha fatto alzare la voce alla governatrice della Regione, Debora Serracchiani, creando anche un inedito asse M5S-Pd per chiederne la definitiva chiusura.

L’Unità 19.08.13

“L’ultima occasione”, di Carlo Galli

Non vi è dubbio che questo non sia il governo auspicato da chi ha votato Pd alle ultime elezioni; e che non possa essere vissuto con entusiasmo da nessun democratico. Il conflitto, non la rissa ma la divergenza, la contrapposizione è il sale della democrazia; e questo governo deve necessariamente neutralizzarla, temporaneamente. Resta drammaticamente vero che questo è un governo d’emergenza, di necessità, e quindi di servizio e di scopo.

Si legittima per quello che fa, ovvero per quello che deve fare: e la prima cosa è mettere in sicurezza i conti pubblici, e invertire il trend economico e occupazionale. Obiettivi centrati, finora, solo parzialmente; che richiedono, piaccia o no, continuità d’azione e ininterrotta legittimazione sulla scena internazionale, soprattutto europea. Ora, le sorti del governo sono in forse per le vicende giudiziarie di Berlusconi, personali come tutte le vicende giudiziarie, ma dagli evidenti possibili risvolti politici. E che, davanti al non possumus nec debemus di Napolitano (per quanto riguarda provvedimenti straordinari o trattamenti di favore), a fasi alterne si agitano nella mente del Cavaliere fantasmi di persecuzione e di rottura, insieme a più miti e costruttivi consigli. Non si sa ancora quale umore prevarrà; certo, chi andrà alla rottura dovrà spiegare al Paese perché mette a repentaglio i sacrifici fin qui sopportati con un atto inconsulto di rara gravità, di straordinario egoismo e di immane cecità.

Nell’attesa di un chiarimento, che può avvenire subito alla ripresa dell’attività politica ma potrebbe anche avere bisogno di un paio di mesi per maturare, alcune osservazioni.

La prima: questo governo è una coabitazione coatta (non una pacificazione né una storia d’amore, quindi), che in quanto tale può essere gestita con assoluta freddezza (si sta insieme per dividere i costi delle bollette), con rissosità quotidiana fatta di mille dispetti e vessazioni per far saltare i nervi dell’altro (per potersi dare la colpa della separazione, e tanto peggio per la neutralizzazione dei conflitti), o infine con quel minimo di buon senso e di collaborazione reciproca che consiste nell’utilizzare il tempo della convivenza per risanare qualche crepa che sta lesionando le fondamenta della casa, in attesa che la situazione si normalizzi (fuor di metafora, che l’alternanza torni a essere possibile; oppure, ipotesi peggiore e meno probabile, che, se il nostro destino sta nel neo-centrismo, questo sia almeno chiaro ed esplicito, cioè politicamente spendibile senza infingimenti).

Le crepe a cui far fronte minano strutturalmente la nostra permanenza in Europa. A questo fine non negoziabile è necessario da parte nostra un recupero di efficienza del sistema-Paese (con una serie di politiche scolastiche, della ricerca, industriali e del lavoro, che ci faccia recuperare i venti anni perduti che abbiamo alle spalle), e, da parte europea, una revisione delle debolezze specificamente politiche della Ue, che deve accelerare drammaticamente la propria originaria vocazione democratica, perduta per via; dal combinarsi di questi sforzi deve risultare una riqualificazione della vita civile del Paese, una nuova speranza e una nuova cittadinanza per gli italiani, ciò di cui oggi abbiamo più bisogno. Ma per stare dignitosamente in un’Europa migliore, l’Italia deve anche farsi carico di un’altra crepa che mina la compagine nazionale: la mancanza di un efficiente sistema politico. Ricostruirlo non è la stessa cosa che riformare il sistema istituzionale, ed è anche più difficile ma non meno importante; anzi, forse lo è di più. Si tratta di ridisegnare i perimetri, le funzioni sociali e i ruoli politici dei partiti, rinnovandoli ma non rinnegandoli col trasformarli in comitati elettorali o in agglomerati d’interessi o in labili federazioni di correnti personali. È questo il nodo che è venuto al pettine, insieme a quello economico e produttivo. È questa la questione che, evidentemente, interpella il Pd, e che con ancora maggiore intensità scuote il Pdl, messo davanti, oggi, all’esigenza di scegliere se perire insieme al suo Capo o se immaginare per sé un futuro in cui la destra faccia gli interessi degli italiani e non di Berlusconi; in cui sia un partito moderato e non incline all’estremismo; in cui si concili pienamente con la Costituzione e con la democrazia parlamentare, purgandosi di ogni populismo.

Così, se la vita del governo, ragionevolmente prevedibile fino al 2015, non fosse interrotta da disperati escamotage o da improbabili avventure personali, o da inaccettabili strappi alla legalità, e invece rendesse possibile la riforma dei partiti, oltre che il risanamento economico in prospettiva europea, allora il sostenerlo potrebbe essere, anche da parte del Pd, non tanto una triste necessità quanto un impegno da assumere e da rivendicare senza alcuna vergogna davanti all’Italia.

L’Unità 19.08.13

“Ma il Pd non baratta legalità e stabilità tocca a loro liberarsi del tabù Berlusconi”, di Umberto Rosso

Onorevole Speranza, nelle parole di Letta c’è il no al ricatto fra salvezza di Berlusconi e crisi di governo?
«Discorso di alto profilo, quello del presidente del Consiglio, sul cammino già compiuto e i tanti problemi che restano da affrontare. Ma da una parte ci sono appunto le questioni reali che riguardano il nostro paese e dall’altra gli interessi personali di Berlusconi, le sue grane giudiziarie. Due piani da tenere accuratamente separati. Senza corto circuiti».
Invece è proprio quel che continua a minacciare il centrodestra: se non arriva il “salvacondotto” l’esecutivo rischia di brutto.
«È da irresponsabili aprire una crisi di governo con tutti i problemi che stanno ancora qui, che abbiamo ancora sul tavolo. Ma se il Pdl davvero sceglie di anteporre i destini privati di Berlusconi agli interessi generali degli italiani, se ne assumerà le responsabilità. Molto pesanti».
Secondo Capezzone però il premier dovrebbe rivolgersi piuttosto ai “provocatori” del Pd, che negano l’agibilità al capo di un partito con molti milioni di voti. Si sente un provocatore?
«E perché mai? Perché diciamo che la legge è uguale per tutti e una condanna va eseguita senza eccezioni ad personam? Questo è semplicemente stato di diritto».
Non esiste il problema politico Berlusconi?
«Posso capire le difficoltà, la crisi di un partito di fronte al leader che rischia di finire fuori dal Parlamento e fuori gioco. Ma non è un problema del Pd o che il Pd può risolvere. C’è una sentenza definitiva, tre gradi di giudizio, va solo applicata».
E’ un problema tutto del Pdl?
«Si trovano davanti ad un bivio. Gli interessi di Berlusconi o gli interessi del paese. Tocca a loro scegliere ».
Immagina un “altro” centrodestra, senza il Cavaliere?
«Presuntuoso e scorretto entrare in casa altrui. Ma il Pdl deve provarci a liberarsi del condizionamento di Berlusconi».
Intanto voi lo fate fuori per via giudiziaria, accusa il centrodestra.
«Ripeto: non voteremo la decadenza con gli occhiali politici dell’antiberlusconismo.
Ma per rispetto della legalità. Avremmo fatto esattamente lo stesso se fosse toccato a qualcuno del nostro campo».
Letta ha attaccato anche i “professionisti del conflitto”. Ce l’ha pure con i falchi del centrosinistra?
«Non direi. Il presidente del Consiglio ha ripercorso un’infinita stagione di conflitti fra gli schieramenti, che hanno bloccato le riforme istituzionali. Certo, dentro questa lunga storia di stallo c’è anche il centrosinistra».
Ci sono linee diverse nel Pd sul salvacondotto?
«No, la linea è quella espressa dal segretario Epifani».
La legalità viene prima della stabilità?
«La legalità e la stabilità sono due valori importanti e diversi, che non vanno mescolati. La stabilità è decisiva ma non vuol dire che in suo nome bisogna poi violare la legge».
La vostra battaglia congressuale interna pesa nelle decisioni su Berlusconi, come sostiene il Pdl?
«Accuse insensate. Per la semplice ragione che parliamo con una voce sola, diciamo tutti quanti le stesse cose su questa impossibile corsa a salvare Berlusconi».
Per Gasparri la legge Severino non è retroattiva, si tratterebbe infatti di una norma penale e non amministrativa. C’è spazio per un confronto?
«Non mi pare. La legge Severino è comunque chiarissima».
Sisto chiede invece di aspettare le motivazioni della Cassazione, prima di dare il via alle decisioni nella giunta per le elezioni. Possibile allungare i tempi?
«Il percorso è già stato incardinato, e uno slittamento francamente non lo vedo».
Il Pdl punta davvero alla crisi?
«Io posso dire che il Pd sosterrà fino in fondo il governo, e non saremo certo noi a staccare la spina. Al Pdl chiedo di riflettere bene, molto bene», Letta chiede di far presto con la riforma elettorale.
«Sono stato fra i promotori della procedura d’urgenza. Su soglia di sbarramento, premio di maggioranza e l’eliminazione delle liste bloccate c’è una larga convergenza. Si tratta ora di mettersi attorno ad un tavolo. Con chi ci sta».

La Repubblica 19.08.13

“Il rovescio di un diritto”, di Gad Lerner

L’Egitto irradia attorno a sé presagi d’apocalisse che raggiungono le coste della nostra penisola. Ne restano immuni solo i turisti che non vogliono rinunciare allo snorkeling nel Mar Rosso. E i tifosi dell’Inter che confidano sul musulmano coi soldi Erick Thohir per la riscossa dei colori nerazzurri. Ma è fra i politici che la sindrome da invasione dei barbari rischia di sovvertire troppo in fretta la promessa di un rinnovato spirito di Lampedusa, ovvero il francescanesimo dell’immedesimazione nel destino degli ultimi, che poi sarebbero i nostri vicini di casa.
È dell’altro ieri l’elogio di Napolitano ai bagnanti di Pachino, trasformatisi in catena umana per soccorrere 160 migranti in fuga dall’ecatombe siriana. Peccato che nel frattempo perfino la ministra Kyenge sia ricaduta nell’improbabile corsa al pronostico su quanti nuovi immigrati in Italia possano essere generati dal putsch militare con cui al Cairo è stato liquidato il governo dei Fratelli Musulmani. Per la verità la titolare del ministero dell’Integrazione si è limitata a prevedere genericamente “un’impennata” di arrivi dall’Egitto, cui dovremo fare fronte attrezzandoci con strutture adeguate. Tanto è bastato perché Matteo Salvini, ovvero uno dei più stretti collaboratori del segretario leghista Maroni, la invitasse a lasciare l’Italia, cioè la nazione di cui Kyenge è a pieno titolo cittadina, naturalmente per fare la ministra sotto le piramidi.
Non è tanto il monotono brontolio di un Salvini a preoccupare – piacerebbe anzi che lo promuovesse davvero, il minacciato referendum anti-Kyenge, per misurarne l’entità numerica – quanto invece il riflesso condizionato da pensiero unico: rivolte, repressione e guerre sulla sponda Sud del Mediterraneo = proclamazione dello stato d’assedio sulla sponda Nord dello stesso mare.
Tornano alla memoria le cifre sparate a casaccio nel corso della primavera 2011, quando le rivolte provocavano la caduta dei rais in Tunisia e in Egitto, col seguito della guerra di Libia. Ci furono allora ministri italiani disposti a fornire le cifre più pazzesche, ricavate da chissà quali consulenti cialtroni: sbarcheranno a milioni, i famigerati “clandestini”; con alla testa i criminali evasi dalle carceri e i terroristi islamici… Quando ormai il fenomeno assumeva contorni più chiari, l’allora responsabile dell’ordine pubblico ridimensionò la previsione, da milioni a trecentomila prossimi arrivi. Trecentomila equivarrebbe più o meno alla cifra annua di nuovi arrivi stranieri sul territorio italiano (prima della lunga recessione, ora sono diminuiti). Ma la verità statistica certificata è che al termine di quel fatidico 2011 gli sbarchi dei fuggiaschi dal Nord Africa furono contabilizzati in meno di trentamila. Dieci volte meno della previsione del ministro dell’Interno.
Anziché fantasticare su cifre improbabili, dunque, il governo farebbe bene a formulare in tempo utile proposte articolate d’intervento nelle aree di crisi a noi così prossime (oggi sono in fiamme, ma è difficile immaginare una ripresa economica dell’Italia che non le veda direttamente coinvolte). E a tradurre la necessaria opera di integrazione e naturalizzazione dei cittadini stranieri residenti sul nostro territorio in modifiche operative della vecchia legge Bossi-Fini (bastano i due nomi per segnalarne l’anacronismo), così come ha finalmente preannunciato ieri il ministro Kyenge.
Lo stesso Pdl, emancipandosi dal ricatto dell’alleato leghista, potrebbe cogliere l’occasione per allinearsi sulle posizioni assai meno retrive della destra europea. Si prenda atto che è fallito il disegno di usare i dittatori per tenere soggiogati popoli nostri vicini, cui ci lega sempre più un destino comune. Lo stesso mutato atteggiamento della Chiesa cattolica sui temi dell’identità cristiana e della relazione con l’Islam escludono che da Roma possa giungere una legittimazione anche solo indiretta a pseudocrociate contro i Fratelli Musulmani.
Quanto alla polemica sull’introduzione dello
ius soli— cioè sul diritto alla cittadinanza italiana per i figli di stranieri residenti sul nostro territorio, qualora siano nati qui o vi abbiano completato l’istruzione obbligatoria — bisognerà sfuggire alle trappole ideologiche. Nessuno, a cominciare dalla ministra Kyenge, propone la generica accettazione di un principio generale qual è lo ius soli.
Il governo ha già perso troppo tempo in annunci e ha tutti gli strumenti per sottoporre al Parlamento una normativa articolata, finalizzata all’integrazione e al rafforzamento di un senso di comunità che non può fondarsi certo sull’appartenenza etnica. Il diritto di cittadinanza in Italia è spaventosamente in ritardo sulla realtà, si tratta di aggiornarlo nei tempi brevi che la storia ci sta dettando.

La Repubblica 19.08.13

“Questa politica da cambiare”, di Claudio Sardo

C’è uno scarto enorme tra le necessità di un paese ferito dalla crisi e dalla disoccupazione e questo dibattito pubblico, legato ai dilemmi di Berlusconi che tenta di sottrarsi a una sentenza definitiva, dalla quale sottrarsi è impossibile. C’è uno scarto enorme tra le responsabilità che gravano sulle spalle del Pd (nonostante l’insuccesso elettorale) e questa parodia di confronto precongressuale su date e regole. C’è uno scarto enorme anche tra le domande di rinnovamento, affidate da milioni di cittadini al Movimento 5 Stelle, e il cinismo di Grillo che lavora per lo sfascio di questa e della prossima legislatura.

Eppure l’Italia non ha tempo. Né la politica ha tempo. La sua impotenza è la causa prima di tutte queste fratture: e ora siamo davanti a una vera e propria crisi di sistema. Non è un caso se nell’ultimo decennio l’Italia sia cresciuta meno degli altri Paesi occidentali, se abbia perso più lavoro, più risorse, più produttività. Per questo la flebile ripresa dell’Eurozona, pur con tutte le sue contraddizioni, è adesso per noi una prova decisiva. Ancora più importante che per gli altri. Perché in gioco c’è la fiducia nel futuro, c’è il legame tra interessi reali e democrazia, c’è lo stesso patto di cittadinanza.

Non è soltanto una questione di Pil. Se la politica dovesse arrendersi ancora, se non riuscissimo ad agganciare la ripresa europea, se fallissimo le politiche del lavoro e le riforme necessarie per riattivare il tessuto economico e sociale, se rinunciassimo ancora a reagire al collasso istituzionale della seconda Repubblica, allora metteremmo a rischio la democrazia. Chi vuole rinviare sempre a dopo, chi lancia anatemi di illegittimità a tutti gli attori di oggi, indistintamente, chi promette catarsi future, in realtà, scommette sul disastro. Sulla rottura del Paese, e anche dell’Europa. Ma quale ricostruzione ci sarebbe dopo tante macerie? Quale tessuto civile può resistere, quale solidarietà sociale? La stessa Costituzione va difesa oggi, preservandola dagli sconclusionati assalti presidenzialisti, ma ponendola al servizio del cambiamento. La Costituzione ci può aiutare ad uscire dalla seconda Repubblica, approdando ad un sistema parlamentare razionalizzato e ad una competizione politica efficace, che riduca le probabilità di larghe intese.

Intanto si lavori per l’Italia reale. Per colmare queste diseguaglianze sempre più insopportabili. Non si riscatteranno né la democrazia, né i partiti rifiutando le responsabilità sulla nuova fase. Noi non volevamo questo governo: ci siamo battuti per averne un altro, anche dopo l’esito controverso delle elezioni. Ora però il governo deve diventare uno strumento di cambiamento, al servizio di un Paese che intende tornare a dire la sua in Europa. Anzi, che vuole rilanciare la battaglia per gli Stati uniti d’Europa, a partire da una forte politicizzazione delle prossime elezioni europee. I progressisti in competizione con i conservatori, due candidati a confronto per la guida della Commissione: così si contrastano i populismi, gli anti-europei, le destre estreme, i Grillo.

Berlusconi può far cadere il governo. È vero. La destra italiana è in preda a convulsioni, e il decorso è incerto. Lancia parole d’ordine non plausibili come l’«agibilità politica» del suo capo dopo la condanna definitiva, e di fronte al muro dell’impraticabilità minaccia ritorsioni istituzionali ed elezioni anticipate. Berlusconi non ha altra strada che le dimissioni da senatore e l’avvio di un percorso democratico del suo partito da cui presto dovrà scaturire un successore. La legge è uguale per tutti. E le sentenze si rispettano, come l’autonomia della magistratura. Fuori da questo non c’è lo Stato. Berlusconi resterà il fondatore di Forza Italia. Ma ormai è già un leader extra-parlamentare, come Grillo.

Il governo Letta ha fatto alcune cose, molte altre deve ancora fare. Non può vivere a tutti i costi. Lo Stato di diritto, tanto per cominciare, è un limite invalicabile. Così come l’equità distributiva: non esiste (vedi l’ipotesi Pdl sull’Imu) che i più poveri paghino l’esenzione fiscale dei più ricchi. Tuttavia, mentre il governo proseguirà la sua missione, mentre la battaglia politica tra destra e sinistra si svilupperà anche sulle scelte operative dell’esecutivo, mentre le riforme elettorali e istituzionali passeranno al vaglio del Parlamento, i partiti non possono restare negli spogliatoi.

Non può farlo soprattutto il Pd, il solo a presidiare la definizione «costituzionale» di partito. Il partito deve sfidare, spingere il governo ad agire. Ma soprattutto deve tenere insieme la responsabilità dell’oggi con la speranza del futuro. Governare i cambiamenti possibili e costruire quelli più grandi. Stare nel presente e comporre, insieme ad altri, una promessa. Le tante fratture, che la crisi della politica ha prodotto, stanno proprio nell’eclisse dei partiti, nel soffocamento dei corpi intermedi, nella sfiducia nei soggetti collettivi. Una politica ridotta solo al presente è destinata a morire. Così come una politica che rinuncia alla responsabilità di governo, puntando tutto sul crollo del sistema, sui carismi individuali, sulle catarsi populiste. Berlusconi è stato l’avanguardia dell’antipolitica: attorno a noi, ci sono i risultati. Che ora paga anche la destra. Senza partiti democratici non ci sarà una rinascita. Non ci sarà se la politica verrà schiacciata tra mero governo dell’esistente e illusioni plebiscitarie.

L’Unità 18.08.13