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“C’è il via libera per le immissioni in ruolo: saranno assunti 11.268 docenti e 557 presidi”, di Salvo Intravaia

Il ministero dell’Economia dà l’ok alle immissioni in ruolo nella scuola: 11.268 docenti e 557 presidi. A comunicarlo sono gli stessi tecnici del dicastero dell’Istruzione in un incontro durante il quale sono stati illustrati ai sindacati criteri e numeri delle assunzioni che decorreranno dal prossimo primo settembre. Dopo tante polemiche, termina in questo modo l’attesa dei precari e dei vincitori dell’ultimo concorso a cattedra bandito lo scorso anno dopo 13 anni di attesa. Adesso la palla passa agli uffici periferici del ministero – gli ex provveditorati agli studi, ora Ambiti territoriali provinciali – che in pochissimi giorni dovranno organizzarsi per assegnare le cattedre ai neoassunti. I tempi, come hanno sottolineato a più riprese i sindacati, sono strettissimi.

La normativa vigente impone infatti agli uffici scolastici regionali e provinciali di assegnare i posti entro il 31 agosto. In caso contrario, il posto andrà a un supplente e verrà attribuito al vincitore di concorso – o al precario inserito nella graduatoria ad esaurimento – soltanto l’anno successivo. Una beffa per chi aspetta da anni o si è sobbarcato un lunghissimo iter concorsuale per ottenere la cattedra. Gli 11.268 posti che cominceranno ad essere assegnati nei prossimi giorni verranno suddivisi in parti uguali tra i vincitori del concorso e i precari inseriti nelle liste provinciali. Poi, si procederà alla nomina dei supplenti che dovrebbero arrivare in cattedra prima dell’inizio delle lezioni.

Le assunzioni autorizzate da via XX settembre sono state suddivise tra i vari odini di scuola assegnando 1.274 posti ai docenti di scuola dell’infanzia, 2.161 ai colleghi della primaria, 2.919 cattedre ai futuri prof della scuola media e 3.136 cattedre agli insegnanti delle superiori. Inoltre, 1.648 posti andranno agli insegnanti di sostegno e 68 agli educatori dei convitti nazionali e degli educandati. Ne mancano 62 che andranno a insegnanti di scuole comunali e provinciali passate allo Stato. In totale 11.268 cattedre. Per il personale Ata (ausiliari, tecnici e amministrativi) è, al momento, tutto bloccato dalla vicenda dei docenti inidonei che secondo la Spending review del governo Monti dovrebbero passare proprio nei profili di Assistente tecnico e Assistente amministrativo.

Un provvedimento che, sin dall’inizio, ha suscitato tantissimi mal di pancia tra gli interessati. Per questa ragione è in ballo un provvedimento ad hoc, portato avanti da tutte le forze politiche che formano l’attuale governo, che tenderebbe a scongiurare il declassamento dei docenti inidonei per motivi di salute liberando i posti per le assunzioni di bidelli, tecnici di laboratorio e amministrativi. Ma non è ancora stata trovata la copertura finanziaria e il provvedimento è in stand by. Intanto, il ministero dell’Economia ha autorizzato anche l’assunzione di 557 dirigenti scolastici che hanno vinto il concorso avviato nel 2011 che prevedeva l’assunzione in due anni di 2.386 neodirigenti incaricati di traghettare la scuola italiana nel terzo millennio.

Ma in diverse regioni, dopo gli scritti, sono fioccati i ricorsi che hanno – come in Lombardia, Piemonte, Molise e Emilia Romagna – bloccato tutto. In altri contesti il dimensionamento scolastico – l’accorpamento tra scuole operato dalle regioni per risparmiare posti di dirigente scolastico e di direttore dei servizi amministrativi (l’ex segretario) – ha fatto sparire parecchie poltrone di capo d’istituto e nonostante fossero stati banditi più posti, al momento ne sono stati autorizzati di meno: appena sei in Toscana, al posto dei 112 banditi due anni fa.

da repubblica.it

“Solo tre mesi di tempo per l’esame europeo”, di Federico Fubini

Agosto non è mai stato un mese facile per i mercati in Italia, ma dopo due anni di recessione questa promette di essere l’estate più schizofrenica da tempo. Prima ancora che le tensioni nel governo deflagrassero, il Paese era già tirato in direzioni opposte. Gli ordini, la produzione industriale, la fiducia delle famiglie dall’inizio dell’estate hanno preso a salire, benché sempre a livelli
bassi.Invece il credito delle banche al settore produttivo è sceso anche più in fretta del solito.
La contrazione dei prestiti bancari alle imprese a giugno rispetto al mese prima è stata di otto miliardi, dopo un calo di quattro miliardi a maggio e tre in aprile. Anziché attenuarsi, la strozzatura si fa più forte proprio quando le aziende sembrano più disposte a investire per cambiare i macchinari o riempire i magazzini vuoti da anni.
L’economia sembra muovere in una direzione, i flussi del credito vanno invece in quella opposta. E mentre l’Occidente ormai è spesso votato a quelle che gli addetti chiamano riprese “jobless”, senza posti di lavoro, una ripresa senza credito sarebbe probabilmente difficile da sostenere nel tempo.
Questo mette l’Italia davanti a un dilemma nel momento in cui una crisi di governo appare sempre di più plausibile. Poiché il credito è paralizzato, i germogli che annunciano un’uscita possibile dalla recessione devono avere origine altrove. E, con ogni probabilità, ciò che è accaduto in Europa dalla primavera deve aver contribuito. La sequenza non ha avuto niente di casuale. Tra aprile e maggio, l’Eurogruppo ha permesso a Spagna, Francia e Olanda di rinviare la stretta di bilancio per ridurre il deficit. Subito dopo, la Germania e la Commissione europea hanno silenziosamente permesso che l’Italia rinviasse l’aumento dell’Iva e cancellasse la prima rata dell’Imu.
Nel frattempo sono partiti i pagamenti degli arretrati della pubblica amministrazione alle imprese in Italia.
Tra qualche mese le conseguenze di queste scelte sui bilanci dei vari paesi saranno evidenti. I deficit di Francia e Spagna continueranno a restare sopra il 4% e il 7% del Pil, molto alti o quasi fuori controllo. E anche l’Italia dovrà fare i conti con un aumento del debito pubblico oltre il 130% preventivato fino ad ora e con un deficit che può di nuovo superare il 3% del Pil. Per ora queste scorie sono finite sotto al tappeto. Intanto però l’allentamento sui bilanci diventa un’iniezione di zuccheri con cui tutta l’Europa del Sud cerca di aiutarsi a emergere dalla recessione.
Niente di tutto questo può durare, se l’Italia non trova in fretta un chiaro senso di marcia. La caduta di Piazza Affari ieri all’idea che il Paese possa restare di nuovo in un limbo privo di direzione rivela in fondo proprio questi timori. Del resto, il calendario dei prossimi mesi si presenta già fitto di appuntamenti impossibili da gestire se non ci sarà un governo in grado di reagire in modo coerente.
Il primo delicato giro di boa arriverà fra metà ottobre e inizio novembre, quando l’esecutivo dovrebbe mandare a Bruxelles la bozza della legge di stabilità
(la vecchia Finanziaria) per il 2014. La Commissione e l’Eurogruppo aspettano già quel documento con una certa ansia, perché il sospetto che il deficit italiano stia già risalendo è tutt’altro che dissipato. Passata la campagna elettorale tedesca, e con essa la calma che
ha steso sul confronto politico nella zona euro, Bruxelles potrebbe chiedere all’Italia una correzione dei conti più severa. Forse per l’immediato, o per l’anno prossimo. Ed è improbabile che un sistema politico romano in campagna elettorale permanente riesca a rassicurare gli altri governi, gli investitori, sul fatto che il debito non salirà ancora.
Ma l’altro appuntamento, se possibile, è ancora più delicato: per la prima volta nei prossimi mesi delle squadre di esperti europei faranno un esame in profondità sulla “qualità”
dei bilanci delle grandi banche italiane. È il rito di passaggio in vista della vigilanza da parte della Banca centrale europea. Se quel test porterà alla richiesta di nuovi aumenti di capitale per gli istituti, di vendite di attività o accantonamenti, il sistema italiano dovrà farlo con risorse proprie. Ad oggi non esistono reti comuni in Europa per gestire eventuali interventi. Non una navigazione da affrontare senza timone. O un con timone bloccato da troppi timonieri che si parlano, ma non si capiscono.

La Repubblica 20.08.13

“Immissioni in ruolo, il Miur convoca i sindacati”, di Alessandro Giuliani

Il 20 agosto l’amministrazione centrale farà finalmente sapere se è stata accolta dal Mef la proposta delle 15mila assunzioni (11.500 docenti e 3.500 Ata). Nella convocazione, però, si parla solo di docenti: il timore è che anche quest’anno i posti di amministrativi, tecnici ed ausiliari possano essere “congelati”, sempre in attesa di capire il destino dei prof inidonei.
Ci siamo. Con almeno una decina di giorni di ritardo rispetto al passato, il Miur ha convocato i sindacati per il 20 agosto alle 15,30: l’incontro servirà a comunicare gli esiti della richiesta formulata al ministero dell’Economia e delle Finanze di 15mila immissioni in ruolo (11.500 docenti e 3.500 Ata).
La notizia è stata confermata dal ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrrozza, che rispondendo ai microfoni di RaiNews24 a proposito dell’allarme lanciato in questi giorni da sindacati e studenti per il ritardo nelle nomine degli insegnanti nelle scuole ha detto: “siamo al lavoro e domani (20 agosto n.d.r.) daremo l’informativa per l’immissione in ruolo dei docenti”.
Va sottolineato che nella convocazione si parla solo di docenti. Speriamo di sbagliarci, ma questo potrebbe voler dire che si ripeterà quanto accaduto l’anno scorsi di questi tempi: per amministrativi, tecnici ed ausiliari si attende la definizione della vicenda dei docenti inidonei e degli Itp assorbiti dagli ex enti locali.
E anche per i docenti i problemi non mancano: ammesso che il Miur sia già in grado di comunicare la suddivisione provinciale del contingente, in diverse regioni non sono state ancora pubblicate le graduatorie definitive dei concorsi a cattedra. Si tratta di una mancanza importante, perché i nominativi dei vincitori del concorso sono indispensabili agli Usr per assegnare la metà delle cattedre da assegnare su ogni tipologia di insegnamento o classe di concorso. Laddove mancano, intanto, si potrebbe procedere alle assunzioni tramite GaE.
Tra poche ore ne sapremo di più.

La Tecnica della Scuola 20.08.13

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Scuola, caos nomine. Carrozza: «Chiariremo»

Oggi il ministero dell’Istruzione darà «un’informativa sull’immissione in ruolo dei docenti». Lo ha annunciato, in una intervista a Rainews24, il ministro dell’Istruzione Maria Grazia Carrozza rispondendo così alle polemiche sollevate dai sindacati circa l’immissione in ruolo dei docenti per il prossimo anno scolastico. Carrozza ha aggiunto: «I sindacati e i docenti fanno il loro lavoro e li capisco. In un certo senso sono dalla loro parte. La scuola non deve essere un portafoglio da cui attingere per coprire altre voci della spesa pubblica». A sollevare dubbi e polemiche sul regolare avvio dell’anno scolastico erano stati, nei giorni scorsi, i sindacati che denunciavano i ritardi nelle nomine in quelle regioni in cui la scuola riprenderà tra il 10 e il 12 settembre. «La norma impone ai provveditorati di effettuare tutte le nomine del personale entro il 31 agosto aveva spiegato Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc Cgil ma non abbiamo ancora avuto notizia di immissioni in ruolo. E la situazione rischia di essere ancora più grave per i supplenti, che mancheranno a migliaia». Una situazione caotica che si era verificata già lo scorso anno quando l’11 settembre rimanevano ancora scoperte 24mila cattedre: il 32% per cento delle supplenze assegnate. «Quest’anno ci saranno più classi scoperte dello scorso anno, più precari senza contratto e più caos negli uffici scolastici periferici costretti a fare le operazioni in tempi strettissimi», concludeva Pantaleo.

L’Unità 20.08.13

«Una crisi oggi significherebbe il caos», di Oreste Pivetta

Chiediamo al professor Giulio Sapelli, storico dell’economia e docente universitario, dell’Italia, del governo Letta, di Berlusconi e ci risponde a proposito dell’Europa e della crisi europea, anzi della «tristissima condizione europea», che vive nella sua dimensione quella «disgregazione molecolare del potere» che paralizza il nostro Paese, quel potere che una volta si chiudeva nell’arcipelago democristiano e nella compattezza di «forma classica socialdemocratica» del Pci, potere che non ha resistito a tangentopoli, alla globalizzazione, alla crisi, che fatica a ridisegnarsi dentro l’orizzonte basso dei guai giudiziari di Berlusconi e delle possibilità vie d’uscita.
L’Europa, professor Sapelli: ne ha lungamente discusso il presidente della Repubblica nella videointervista per il meeting di Cl, il capo del governo ne ha fatto il centro del suo intervento a Rimini. Condivide le preoccupazioni e insieme le speranze di Napolitano e Letta? «Si deve capire, e mi pare che Napolitano e Letta non solo lo abbiano capito ma l’abbiano anche espresso con grande chiarezza, che in Europa sta la chiave per superare una crisi che è politica, non solo economica. Questa necessità ha indicato anche il meeting di Cl, sottolineando ambiziosa- mente la dimensione in cui dovrebbe crescere quest’Europa: dall’Atlantico agli Urali. Invece s’assiste al progressivo allontanamento della Gran Bretagna, alla freddezza della Francia, alle rigidità tedesche, che è difficile immaginare come verranno superate, visto che la Merkel è destinata a rivincere e la Merkel non ha mai imparato la lezione di Bismarck, che sapeva bene come la forza e il futuro della Germania fossero legate alla qualità delle frontiere, cioè alla qualità dei rapporti tanto con l’Est quanto con l’Ovest. In questa situazione i progressi dell’Unione europea sono nulli: ad esempio non si riesce a costruire un esercito comune, che si dovrebbe fondare ovviamente sulle due grandi potenze militari di questa Europa, e cioè Germania e Francia. Non è questione di guerra e pace. È questione che se si vuol fare opera di dissuasione rispetto ai conflitti che infiammano il nord Africa, altra frontiera del continente, un esercito serve, non bastano i documenti. Senza questa unità, senza quell’aspirazione a unificarsi dall’Atlantico agli Urali, la nostra Europa rischia l’insignificanza». Tagliati fuori dalle responsabilità politiche, ma anche dalla rotte economiche? «Certo. È inevitabile che gli Stati Uniti, dopo averci proposto di aderire a un patto transatlantico, adesso si rivolgano verso l’Asia e soprattutto verso l’Africa…».
L’Africa che potrebbe rappresentare la grande sorpresa economica del secolo… «…ma anche politica, perché l’Africa per la prima volta sta disegnando i propri confini statuali. Non ho dubbi per il resto che presto l’Africa prenderà il posto di Brasile, India e Cina». Torniamo a Roma. Verrebbe da dire torniamo alla misura provinciale della nostra politica…
«La questione di un governo è questa, se non ci si vuole immiserire dentro la chiacchiera su Berlusconi, la con- danna, l’agibilità politica di Berlusconi, falchi e colombe. L’Europa unita “dall’Atlantico agli Urali” è fondamentale e dentro questa Europa è fondamentale l’Italia, il fronte sud: se cede, se questo governo cade, magari a un passo dal semestre europeo, se si va alle elezioni anticipate, non sarà la guerra civile che qualcuno ha evocato, ma sarà il caos, che trascinerà nella crisi più cupa dell’Europa, senza speranze di soluzioni rapide, perché siamo il fronte sud, come si diceva una volta, il punto nevralgico del rapporto tra Europa e Africa. In questo senso Letta a Rimini è riuscito in un discorso serio, responsabile, direi alto. Ha tralasciato le beghe di bottega. Ha fatto capire che cosa c’è davvero
in gioco, il senso di una ricerca d’equilibrio in un Paese disgregato, ricerca che è pesata sinora sulle spalle di un Atlante che si chiama Giorgio Napolitano e che non è più un giovanotto…». Che non è – mi permetto – Berlusconi, che non è il destino politico dell’ex premier…
«Dovremmo trovare il modo di azzerare la questione Berlusconi. Questo vale per il Pdl, ma pure per la parte più aggressiva e giustizialista del Pd…».
Berlusconi ha la carta in mano: basterebbe che si dimettesse, sdrammatizzando la situazione, garantendo la sopravvivenza di questo governo. Politica potrebbe continuare a farla…
«E potrebbe vincere qualsiasi battaglia elettorale. Non è detto che non ci stia pensando. Il suo partito potrebbe affrontare agevolmente anche la riforma della giustizia».
Tra tante brutte notizie, si è anche letto di un qualche miglioramento della nostra economia.
«Quando si arriva tanto in basso, appena ci si ferma già si pensa che le cose vanno meglio. In realtà sono quei classici rimbalzi che caratterizzano qualsiasi andamento economi- co. Aggiungo che la crisi ha colpito alcuni settori, meno altri, quelli più tecnologicamente avanzati, quelli a manodopera specializzata, quelli tipici del lusso. Perché ci sia un’autentica ripresa, sarebbe necessario l’intervento dello Stato: spesa selettiva che ridia lavoro e dinamismo anche al mercato interno. Per ora si perde soltanto, anche nel campo delle esporta- zioni. Anche per questo una crisi di governo e la relativa assenza di governo sarebbero esiziali: non dobbiamo mai dimenticare la sofferenza della gente e pure il rischio di forti tensioni sociali, finora in parte almeno ridimensionati dalla cassa integrazione. Ma l’avvenire? Esaurita la funzione degli ammortizzatori, consumati i risparmi?».

L’Unità 20.08.13

“L’integrazione non va al liceo”, di Emanuela Micucci

Canalizzati nelle scuole tecniche e professionali e privi di una vera politica di integrazione scolastica, gli studenti stranieri vedono scendere in due anni il loro l’inserimento sociale. Lo rivela il IX Rapporto Cnel sugli «Indici di integrazione degli immigrati in Italia», che misura sia il grado di attrattività dei territori sulla popolazione straniera sia il loro potenziale di integrazione (www.cnel.it).

Tra i 18 indicatori considerati uno misura l’istruzione liceale degli studenti stranieri, «non prendendone in considerazione gli esiti scolastici – spiega il curatore del rapporto, Luca Di Sciullo, ma la quota di iscritti a un liceo nell’anno scolastico 2011/12. L’ipotesi è che si sia una correlazione diretta di questa percentuale con l’indice di inserimento sociale». Aumenta rispetto al 2009 la canalizzazione, già molto forte, degli studenti stranieri verso gli istituti tecnici e professionali, anche per chi consegue risultati eccellenti alle medie. Dei 164.524 alunni immigrati iscritti alle superiori solo il 19,3% frequenta un liceo: 31.731 ragazzi che, nel Mezzogiorno, rappresentano il 29,2% degli stranieri delle superiori nelle Isole e il 26,3% di quelli al Sud, area che supera di poco la percentuale del Centro (23,6%). Quest’ultima è quella che ne accoglie di più: 9.951. Seguita dal Nord Ovest con 9.134 liceali stranieri e il Nord Est con 7.045, valori però pari rispettivamente al 16,1% e al 15,6% degli immigrati qui iscritti alle superiori.

Tutti gli altri ragazzi stranieri, 132.793, in Italia si iscrivono a percorsi tecnico-professionali. «Più è alta la percentuale di liceali stranieri – prosegue Lo Sciullo -, più sono gli studenti immigrati che proseguono un percorso formativo superiore orientato all’università e, quindi, affrancato dall’esigenza di trovare immediatamente lavoro per sostenere economicamente la famiglia. E più si può presupporre un inserimento sociale avanzato. Più la loro formazione culturale è elevata e più potrebbero concorrere per posti di lavoro qualificati, contribuendo alla mobilità sociale degli immigrati». Nelle prime 9 posizioni della graduatoria sull’istruzione liceale è rappresentato quasi tutto il Meridione con 7 delle totali 8 regioni. Unica eccezione la Basilicata al 16° posto. In testa alla graduatoria il 32,3% della Sardegna. Un blocco compatto in cui si inseriscono Trentino, 2° (30,4%), e Lazio, 3° (30,1%). L’equivalente, tra le province, è rappresentato da Isernia con il record del 46,1%, Sassari (36,3%), Palermo e Vibo Valentia.

All’altro capo delle rispettive graduatorie, con valori molto più ridotti anche rispetto alla media nazionale, Verbania, 103° con solo il 7,5%; Modena, 102° con l’8,4%; Reggio Emilia, 101° con l’8,6%. E l’Emilia Romagna al 20° posto con appena il 13,0% di liceali, la Lombardia 19° con 13,9% e il Veneto al 18° con 14,6%. Tre regioni, come il Nord, che tradizionalmente offrono occupazione e con una radicata una cultura del lavoro che incoraggia a inserirsi presto nel mondo produttivo. Due fattori che, quindi, in ogni territorio condizionano la scelta o meno del liceo. «Non stupisce che in queste aree – conclude Lo Sciullo – anche i figli degli immigrati si orientino verso scuole che preparano al lavoro». La scuola non realizza nessuna politica di integrazione, è l’accusa di Giorgio Alessandrini, presidente Onc-Cnel, «ci sono buone circolari ministeriali, ma non c’è un euro per la mediazione culturale, la formazione dei docenti». E il ministro per l’integrazione Cecile Kyenge annuncia: «Ho già avviato un confronto con il ministero dell’istruzione».

ItaliaOggi 20.08.13

“E’ boom di sfratti, oltre 300mila in cinque anni”, di Andrea Bonzi

È boom degli sfratti. La crisi economica mette in ginocchio le famiglie, e tra esse quelle che non hanno una casa di proprietà. In cinque anni (da 2008 a 2012) dati ufficiali del ministero diffusi da Sunia e Cgil gli sfratti emessi in Italia sono 311.075, di cui 264.835 per morosità. Di questi, poco più della metà (138.917) sono stati eseguiti. Solo l’anno scorso è stato raggiunto il picco di 67.790 ingiunzioni (l’8,3% in più rispetto all’anno scorso), quasi tutte (l’89%) perché la famiglia ospitata non è riuscita a far fronte al canone. Ma anche nei primi sei mesi dell’anno, dando uno sguardo ai numeri derivati da un recente studio di Confabitare, nelle principali città italiane l’incremento è costante, e arriva fino al 42% di Bologna, che ha già toccato quota 2.387 rispetto ai 1.681 dell’anno precedente. Aumenti superiori al 30% anche per Milano (da 4.924 del 2012 a 6.844), Torino (da 3.492 a 4.793), Roma (da 7.743 a 10.453), Firenze (da 1.505 a 2.001) e Venezia (da 161 a 213). Più contenuti gli incrementi del sud Italia, con Napoli, Catania, Palermo e Bari che si attestano attorno a un +10-15% rispetto all’anno passato. Il sindacato inquilini della Cgil ha calcolato che, nei prossimi 7-8 anni, la cifra totale dei provvedimenti emessi potrebbe raggiungere il mezzo milione, cioè un nucleo familiare su sei tra quelli che vivono in affitto.

LO STIPENDIO NON BASTA
Il punto fondamentale è quello dei costi per mantenere una abitazione: per più di tre milioni di famiglie incide oltre il 40% del reddito. I dati Cgil parlano di 1.515 euro per un’abitazione di circa 80 metri quadrati in zona semicentrale, di cui oltre 1.000 per il canone mensile e 415 di bollette (riscaldamento, luce, acqua, gas, telefono) e tasse (Tares, perché sull’Imu c’è un’incognita) e 1.150 euro per coloro che pagano un mutuo di 700 euro. Una bella botta: basta che uno dei due coniugi abbia perso il lavoro o sia precario o in cassa integrazione, che già far quadrare i conti diventa durissima. «A differenza di altri, i costi della casa sono in costante ascesa osserva Laura Mariani, che si occupa di Politiche della Casa per la Cgil nazionale l’offerta per chi affitta è molto rigida. È vero che alcuni canoni sono diminuiti, ma il punto di partenza era talmente alto che l’impatto sociale resta devastante». Ancora una volta, basta guardare i numeri: più di un inquilino su tre sotto sfratto (il 35%) ha perso il lavoro. E tra chi rischia di vedersi portare via il tetto perché non riesce a saldare aumentano le coppie giovani (il 21% del totale degli sfratti emessi per morosità), i migranti (26%) e i nuclei composti da anziani (38%), quasi sempre composti da una persona che vive sola. Serve una reazione, dunque. Nel decreto del Fare, il governo ha introdotto il divieto di pignoramento della prima casa da parte di Equitalia, e viene concesso più tempo a chi ha difficoltà a saldare il mutuo, ma secondo la Cgil questo non basta. Anche perché con la nuova service tax che potrebbe pesare di più sugli inquilini, rispetto ai proprietari si rischia di azzerare i benefici degli altri provvedimenti. «Innanzitutto va rimpinguato il Fondo di sostegno per l’affitto, praticamente azzerato dal 2012 insiste Mariani fondamentale per sostenere le famiglie più in difficoltà. Poi bisogna trovare metodi attraverso i quali calmierare i canoni, ad esempio con l’incentivazione del contratto concordato, ancora sottoutilizzato. E ancora: si ampli la domanda completando quel piano per l’edilizia che è rimasto non attuato».

L’Unità 20.08.13

“Salvare il territorio è l’opera più urgente”, di Salvatore Settis

Mentre lo spread cala, la crisi avanza, crescono disoccupazione e allarme sociale, ma a certe cose non si rinuncia: tatuaggi, cibi esotici, yacht, porti turistici e altri generi di prima necessità. E se qualcosa non funziona nel Bel Paese, non può che essere una fatalità. Che cosa di più “fatale” dell’erosione delle coste? E che colpa ne abbiamo, noi? Nel settembre 2012, dopo il rovinoso crollo di una delle più famose passeggiate d’Italia, la “via dell’amore” alle Cinque Terre, l’allora ministro dell’Ambiente Clini dichiarò senza batter ciglio: «Servirebbe un piano contro il dissesto idrogeologico». Dissesto che per pura fatalità stava avvenendo a sua insaputa, anche nei dieci anni precedenti in cui era direttore generale dello stesso ministero. Fatalità, sfortuna, divinità avverse: sarà colpa loro se, davanti a un territorio allo sfascio dal Cervino a Pantelleria, non sappiamo analizzarne le fragilità strutturali come un insieme, e ci industriamo invece a segmentare territori e problemi intervenendo in modo parziale, desultorio, settoriale, qualche volta con rimedi peggiori del male.
Guardiamo le coste, distogliamo lo sguardo dal retroterra il cui degrado è concausa dei loro problemi. Già nel 2009 allarmanti dati Ispra hanno evidenziato che «in Italia due terzi (oltre il 65%) del territorio compreso nella fascia di 10 Km dal mare (…) è modellato con interventi sull’ambiente invasivi e irreversibili ». Questo «uso del territorio non rispettoso delle sue vocazioni naturali» ha provocato il collasso delle difese contro l’azione del mare, accelerato l’estinzione delle specie marine acclimatate, distrutto dune e pinete costiere, scacciato gli aironi dalle foci dei fiumi, provocato danni per almeno cinque miliardi. Erosione e rischio allagamento sono la norma in tutta la Penisola, e il moltiplicarsi dei porti turistici, spacciato per agente del benessere, non fa che aggravare il problema, con la concomitante invasione di cemento che non è solo quello dei moli, ma delle infrastrutture, strade, parcheggi, centri commerciali, alberghi, zone residenziali. Nella sola Liguria, 50 porti turistici con oltre 20.000 posti barca (ma è previsto un incremento del 50%). In Calabria, secondo uno studio della Regione, 5.210 abusi edilizi in 700 chilometri di costa, mediamente uno ogni 135 metri, di cui «54 all’interno di Aree Marine Protette, 421 in Siti d’interesse comunitario e 130 nelle Zone a protezione speciale», incluse le aree archeologiche.
Ma la vulnerabilità delle coste non può esser isolata dalle altre fragilità del nostro territorio. Mezzo milione le frane censite, che interessano il 10 % del Paese (anche in prossimità delle coste): un degrado velocizzato dall’abbandono degli spazi rurali, da incendi boschivi spesso dolosi, dalla cementificazione che sigillando i suoli accresce la probabilità di alluvioni e ne rende più gravi gli effetti, dall’incuria per il regime delle acque, che riduce le risorse idriche e contribuisce a generare esondazioni. Alla cementificazione delle coste corrisponde la desertificazione di colline e montagne, l’abbandono di suolo agricolo e di risorse idriche, l’abbattimento di boschi e pinete che fragilizza il territorio alterando gli equilibri tettonici. La famosa definizione della Calabria come «uno sfasciume pendulo sul mare» (Giustino Fortunato, 1904) non solo è ancora attuale, ma a ogni anno che passa si applica a porzioni crescenti dei nostri litorali: e questo in un territorio come quello italiano, esposto per morfologia anche ad altre calamità, come i terremoti e le eruzioni vulcaniche. Eppure chi ci governa si acceca per non vedere. Massimo esempio, Giampilieri presso Messina: dopo un’alluvione con 38 morti, Bertolaso (sottosegretario con Berlusconi) dichiarò prontamente che era impossibile trovare due miliardi per mettere in sicurezza le franose sponde dello Stretto, per giunta soggette a sismi di massima violenza (l’ultimo, nel 1908, seguito da tsunami: 120.000 morti); due giorni dopo il ministro dell’Ambiente Prestigiacomo dichiarò che il Ponte sullo Stretto andava fatto ad ogni costo. In nome dello “sviluppo”, inteso come cementificazione a oltranza, la cura del territorio viene archiviata come un optional di lusso.
Un caso recente può simboleggiare quanto sta accadendo, e stavolta in una regione che passa per essere (e forse è) la più “virtuosa”, la Toscana: il fiume Cecina, la sua valle (che è, o era, fra le più belle d’Italia) e la sua foce. Il 4 luglio la Procura di Livorno ha riconosciuto che almeno fino al 2011 la Solvay (che usa a scopi industriali quasi il 50% dell’acqua del Cecina) ha riversato in mare fanghi tossici in misura doppia a quanto consentito: le cosiddette “spiagge bianche” devono il loro colore, a quanto pare, a componenti chimiche dannose. Intanto la foce del fiume viene spostata, annientando spiagge e pinete per costruire l’invaso di un ennesimo porto turistico con 800 posti barca, 2000 posti auto, un eliporto, alberghi, appartamenti, centri commerciali, ristoranti, mercati («Arriva il porto e sparisce mezza spiaggia» titolava il Tirreno l’11 agosto). Secondo uno studio di Italia Nostra, questa violenta trasformazione dell’area «favorità il deposito di detriti, l’insabbiamento della foce, l’alluvionamento degli abitati di Marina di Cecina in occasione delle piene ordinarie, l’impedimento del deflusso a mare delle acque superficiali e sotterranee, il rigurgito delle acque e l’impaludamento delle zone interne, la totale alterazione dell’ecosistema di foce». Davanti a questi ed altri delitti, si sveglierà il governo Letta? O dovremo continuare a subire, come nella successione indolore da Clini-direttore generale a Clini-ministro, la retorica provinciale che ribattezza il litorale con l’etichetta di waterfront per potervi meglio infierire al riparo di una parola d’accatto? Quando capiremo che il principale nemico della sicurezza del nostro territorio è il cemento che giorno e notte (feste incluse) divora 8 metri quadrati di suolo al secondo? Quando verrà in mente a chi ci governa che è urgentissimo un piano nazionale di prevenzione e di messa in sicurezza del territorio? Che questa, e non i porti turistici né il Tav, è l’unica, la vera “grande opera” di cui l’Italia ha bisogno? Con le parole di Giovanni Urbani, grande direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, «ci vorrebbe assai poco, una volta saputo che metà della nazione è esposta a gravi rischi, per proiettare su questa scala le perdite subite a ogni evento, e calcolare il corrispettivo danno economico che incombe sulla penisola ove persistesse, come purtroppo certamente persisterà, l’assenza di ogni politica di difesa del suolo e di consolidamento preventivo dell’edilizia storica».

La Repubblica 20.08.13