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“L’università ora parta dalla ricerca”, di Tullio Gregory

Dopo venti mesi di lavori, con l’esame di 184.920 contributi scientifici e l’impiego di circa 15.000 esperti, l’Anvur ha recentemente pubblicato il suo Rapporto sulla «valutazione della qualità della ricerca 2004-2010», relativa alle università italiane e altri enti di ricerca. Lavoro poderoso di oltre tremila pagine, irte di complessi algoritmi (sui quali attendiamo il giudizio degli esperti) presentato ora nelle sue tabelle essenziali e con brevi saggi introduttivi di autorevoli studiosi in un più agile volumetto del Corriere della sera.
Il rapporto, pur presentato con molta apparente sicurezza («valutazione imparziale e oggettiva della ricerca») si viene arricchendo cautamente di osservazioni critiche sui limiti di una valutazione che applica parametri identici a realtà spesso assai diverse, non «infallibile», con notevole «incertezza statistica» come si legge nella presentazione del Rapporto finale che conferma la serietà dell’impegno dell’Anvur.
Il quadro della ricerca che ne esce è assai variegato, con ovvie conferme di alcuni poli di eccellenza e di alcune note situazioni fortemente critiche, con una notevole divaricazione fra Nord e Sud; anche con sorprendenti scoperte di aree, università, dipartimenti classificati molto positivamente, eppure noti nel mondo scientifico per la loro scarsa affi- dabilità.
Tutto questo ha già sollevato polemiche, richieste di approfondimenti e revisioni di cui certo l’Anvur dovrà tenere conto.
Forse più che discutere sui risultati finali dei complessi algoritmi valutativi, varrà la pena riaprire una discussione sui parametri — o indicatori di qualità — sui quali si è fondata la valutazione. È noto che i criteri bibliometrici — applicati a tutte le scienze dure — sono stati oggetto di forti riserve da parte di istituzioni scientifiche internazionali di notevole rilievo (come l’Accademia nazionale dei Lincei, l’Académie des sciences, la European Sciences Foundation) perché fondati soprattutto sull’importanza determinante del numero delle citazioni ricevute in un determinato arco di anni (anche se stroncature non importa, vale il loro numero), citazioni attinte a banche dati costituite non da società scientifiche ma da imprese commerciali (Thompson e Elsevier) che vivono degli utili realizzati con i contatti ricevuti.
Lo stesso calcolo del numero dei lavori scientifici è criterio assai discutibile e porta a quella che è stata detta «politica del salame», cioè allo smembramento in più parti di un medesimo lavoro. Così, se uno studioso pubblicasse un’edizione della Divina commedia in un solo volume, presenterebbe un solo «prodotto»; se presentasse l’opera in tre volumi, uno per cantica, tre «prodotti»; se pubblicasse separatamente ogni canto (come per le Lecturae Dantis) presenterebbe cento «prodotti».
Altro criterio che deve essere discusso e approfondito è la cosiddetta «attrattività di risorse»: non solo si chiede che il ricercatore si faccia piazzista commerciale dei risultati delle proprie ricerche (non a caso detti sempre «prodotti» con un linguaggio di marketing aziendale) ma si dimentica che la ricerca fondamentale, di base, è difficilmente attrattiva di mezzi che invece possono affluire alla ricerca applicata, quasi sempre eterodiretta. Così come eterodiretta è spesso la ricerca che si inserisce in progetti nazionali o internazionali per trovare dei fondi, allontanando il ricercatore dal proprio programma. Rimane invece del tutto marginale nella valutazione il trasferimento tecnologico che è una missione propria del Cnr, non a caso per più aspetti penalizzato nel Rapporto Anvur.
Manca poi — e lo sottolinea anche il presidente dell’Anvur, Stefano Fantoni — una qualsiasi analisi della didattica che per le università (ma anche in molti enti di ricerca) è essenziale complemento della ricerca. Come manca una valutazione del contesto di lavoro dei ricercatori: consistenza di laboratori e biblioteche, alloggi per gli studiosi, ambienti di lavoro; è anche questo uno dei motivi per i quali i ricercatori italiani preferiscono in grande maggioranza usufruire di borse internazionali all’estero, come ha sottolineato Gian Antonio Stella sul Corriere del 23 luglio scorso. In tutto il Rapporto la ricerca sembra vivere in un rarefatto mondo delle idee, senza mai incarnarsi in ambienti e strumentazioni.
Infine, perché la valutazione della ricerca in Italia non si riduca a una «valutazione fra poveri», ricorda Giuseppe Remuzzi, andrebbe meglio analizzata la difficile situazione dei ricercatori (cui più volte si fa cenno) mettendo in rapporto investimenti pubblici e ricerca: la modestia dei primi (male cronico in Italia) è evidente premessa della debolezza della seconda.

Il Corriere della Sera 20.08.13

“Nel ’93 fu la Lega a salvare Craxi. E se Grillo salvasse il Cav?”, di Sara Ventroni

Ogni giorno gli aruspici interrogano il volo dei falchi e delle colombe per decifrare la volontà di Silvio. Le previsioni hanno la durata e l’affidabilità dell’oroscopo giornaliero. Anche se le vie d’uscita sono poche, forse meno di due, le ipotesi in campo si squadernano come una teoria del caos dove tutto sembrerebbe possibile. Perfino un’imminente rielezione.
In omaggio al nonsense di questo scorcio di cronaca patria, e per rispetto a Silvio Berlusconi, si tiene conto di tutte le variabili, anche le ipotetiche di terzo grado, con tediosissimi approfondimenti intorno alla bontà della legge Severino, per profilare scenari futuribili: dalle successioni dinastiche take-away, alla candidatura del Cavaliere per elezioni di novembre, come se
Napolitano non aspettasse altro che sciogliere le Camere per l’estate di San Martino.
In questa fuffa di previsioni, dove a ogni dichiarazione di un falco corrisponde un timore inespresso di una colomba di governo, forse tocca spostare lo sguardo sulla calotta di Montecitorio, oltre il dito e perfino oltre la luna: verso l’Empireo di quelle supernove, monadi luminescenti di una luce che mentre arriva è già testimonianza di una materia inerte e collassata, anche se pentastellare.
E dunque. L’ipotesi scientifica, la cosmicomica di questa metà agosto – o meglio: il sospetto di una notte di mezza estate – è una congettura probabile, e non del tutto impossibile.
Mettiamo che, al voto in aula sulla decadenza del senatore Silvio Berlusconi, complice il segreto dell’urna elettronica, i Cinque Stelle votassero contro. Mettiamo, per esempio. È un’ipotesi da non escludere.
Nessuno si scandalizzi. Tutto può succedere, perché di fatto è già successo. La Lega antagonista degli anni Novanta, la Lega che nelle mani di Luca Leoni Orsenigo il 16 marzo ’93 agitava il cappio dagli scranni della Camera contro i politici corrotti, quella Lega, meno di un mese dopo, al voto sull’autorizzazione a procedere, il 29 aprile, nel segreto dell’urna offriva il suo piccolo, ma essenziale, contributo per salvare Bettino Craxi.
Che dire? Era la Lega rivoluzionaria dell’età dell’oro. La Lega pura e dura, prima degli scandali di Belsito, prima dei diamanti e delle ramazze. La Lega metafora del nuovo, ruspante e autentica, che sgomitava per dare il colpo di grazia alla Prima Repubblica.
Era la Lega contro i partiti. La Lega superiore, per razza e territorio. La Lega rozza ma purificatrice. La Lega del bagno iniziatico nel Po. La Lega che sdoganava l’insulto primitivista, il dito medio come fattore empatico, ed egemonico, sugli arrabbiati di tutto il Nord.
Nel pensiero antagonistico dei sedicenti rivoluzionari – solitamente molto più gattopardeschi di quanto si possa confessare agli elettori – mantenere in vita il nemico, senza parlarci, è sempre garanzia di sopravvivenza. Un darwinismo pataccaro, da mignatta: finché vivi tu, vivo pure io.
E dunque: dopo gli hors-d’oeuvre dei vaffanculo in piazza, dopo l’impresa dannunziana nello stretto di Messina, dopo gli insulti in libertà offerti come linguaggio biliare, e tanto liberatorio, che esclude dal cerchio della fiducia chiunque non sia della tribù; dopo il fango sulle istituzioni, e dopo la marcia indietro davanti a possibili responsabilità. Dopo tutto, insomma, salvare Silvio conviene.
Solo così è possibile, per il movimento di Gianro&Beppe, conquistare la frontiera della piena entropia istituzionale; ipotesi di ripiego, sì, ma concretamente percorribile, rispetto alla conquista del 51 per cento, per ora solo materia di escatologia elettorale.
Imbalsamare Silvio è, per Grillo, l’unica possibilità di evitare il buco nero di una responsabilità di governo, nel caso in cui il Pdl facesse cadere i suoi ministri, e ai Cinque Stelle venisse chiesta una prova di impegno, su punti precisi, per salvare l’Italia.
L’ipotesi, inoltre, consentirebbe di sigillare in ceralacca le ingiurie quotidiane contro un Parlamento democraticamente eletto ma, per il capogruppo Nicola Morra, già illegittimo, e cucire la lettera scarlatta sul petto del Pd. Insomma, ci sarebbe tutto da guadagnare. Si potrebbe perfino scalzare Sel – disponibile a garantire una legge elettorale e il rifinanziamento della cassa integrazione – e attestarsi in opposizione perpetua.
Una prospettiva di crescita legata al tasso di indignazione, e dunque di indotto elettorale. Potrebbe succedere. È già successo. Hasta la victoria, qualunquemente.

L’Unità 21.08.13

“Teoria e prassi dell’evasione”, di Ruggero Palladini

Diciassette miliardi e mezzo di redditi evasi da quasi cinquemila soggetti sono una bella cifra; rappresentano più di un punto di Pil. Mediamente si tratta di tre milioni e mezzo: cifra che fa capire come i cinquemila non siano solo idraulici o carrozzieri. Si tratta piuttosto di operatori che si servono di società (Srl o anche Spa) come paravento. Le società operano in nero (in parte se non del tutto) e vengono fatte risultare in perdita. I soggetti non fanno la dichiarazione dell’Irpef mentre, per quanto riguarda il loro patrimonio, si avvalgono, come dice il comunicato della Guardia di Finanza, di prestanomi.
La teoria economica ha studiato il caso di un contribuente razionale ma completamente privo di scrupoli di carattere etico, mostrando che, se il contribuente ha un certo grado (anche non alto) di avversione al rischio, non si comporterà da evasore totale. I cinquemila contraddicono la teoria? Si tratta di soggetti irrazionali? Si direbbe di no, visto che ricorrono a stratagemmi di una qualche complessità per evadere. Più probabilmente si tratta di persone sicuramente con un grado di avversione al rischio non molto alto, che ritengono di non avere niente da perdere nel caso in cui fossero scoperti; e che possono sempre sperare in Silvio e in qualche bel condono tombale.
È ben noto che il fenomeno dell’evasione (e del sommerso a essa legato) sia particolarmente alto; in Europa solo la Grecia farebbe «meglio» di noi. È altresì noto che ciò è strettamente connesso con il numero molto elevato di piccoli e piccolissimi operatori economici, i cinque milioni e oltre di partite Iva. Il Mezzogiorno evade di più in percentuale, anche se il Nord ha un volume complessivo più alto. Il Sole 24 Ore (lunedì scorso) riporta dei dati sulle differenze tra redditi e consumi nelle 103 province italiane, da cui si trae un indice di fedeltà fiscale. Le prime cinque province più virtuose si trovano al Nord (Milano, Bologna, Trieste, Forlì-Cesena, Parma), le ultime meno virtuose, a parte Viterbo, si trovano in Sicilia (Trapani, Catania, Agrigento, Ragusa). Il Sole 24 Ore, tuttavia, suggerisce che la crisi avrebbe ridotto il divario Nord-Sud, comprimendo i consumi, finanziati dai guadagni in nero. Probabilmente il discorso
è più complesso, ma val la pena di notare che oltre trecento (dei cinquemila evasori scoperti) si trovano a Roma, città che nella graduatoria del Sole si colloca ad un onorevole dodicesimo posto.
Di evasori totali se ne sono sempre trovati nel nostro Paese. Rappresentano una percentuale ridotta di un alto numero di contribuenti. Se l’evasore tipico è quello che non dichiara il volume d’affari, perché vendendo ai consumatori può non fatturare, esistono operatori specializzati nel favorire l’evasione producendo costi inesistenti (le cosiddette cartiere). È una forma di delinquenza raramente presente in Europa, ma purtroppo presente da noi.
Al ritorno dalle vacanze i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate inizieranno ad applicare il nuovo redditometro al rapporto tra redditi e consumi del 2009 su circa 30-35mila contribuenti. L’idea è sempre quella del vecchio accertamento sintetico: se hai un certo livello di consumi, devi avere almeno un pari ammontare di reddito disponibile (quindi al netto delle imposte pagate). Ovviamente poiché solo una parte dei consumi è già a conoscenza del fisco, l’altra parte deve essere stimata, e su questo punto si sono sviluppate disquisizioni complicate, a volte degne del miglior azzeccagarbugli.
È da sperare che queste notizie possano dare una spinta all’adempimento spontaneo, cioè ad una riduzione del grado di evasione. Tuttavia il numero di soggetti coinvolti dovrebbe crescere di almeno dieci volte; e però applicare a trecentomila persone il redditometro va molto al di là delle capacità dell’Agenzia. La possibilità del controllo dei conti correnti, viceversa, permetterebbe l’esame di un numero molto maggiore di contribuenti, in quanto le voci da controllare sarebbero ridotte: l’ammontare di inizio anno, il numero di versamenti e di ritiri, il valore medio dell’anno. Uno screening del genere può essere utile per identificare i soggetti a rischio, e la consapevolezza di ciò può costituire uno stimolo per una maggiore fedeltà fiscale.

L’Unità 21.08.13

“Resistere, l’ultima guerra del Cavaliere”, di Federico Geremicca

Il verbo scelto da Silvio Berlusconi per rassicurare il popolo del centrodestra intorno al suo futuro e alle sue intenzioni («Io resisto») ha un grande potere evocativo ed è foriero di una evidente suggestione: infatti, rimandando al drammatico «resistere, resistere, resistere» pronunciato da Borrelli nell’inverno di 11 anni fa, l’annuncio del Cavaliere fotografa un evidente capovolgimento delle posizioni (e dei rapporti di forza).

E quasi si propone come la chiusura di un cerchio diabolico.

I due orgogliosi annunci di resistenza rappresentano forse i momenti più cupi e aspri di uno scontro – quello tra il centrodestra e parte della magistratura – che condiziona da ormai due decenni la vita politica italiana: una sorta di Guerra dei Vent’anni dentro la quale, però, c’è un pezzo di storia di questo Paese e la parabola di un leader che ora si scopre solitario e senza successori. Non solo. Gli effetti di questa Guerra – ed i vizi seminati – si riverberano oggi sull’«affaire Berlusconi», trasformandolo in qualcosa di diverso da quel che semplicemente è: da caso giudiziario a caso politico, con il conseguente corollario di polemiche, richieste e proposte inevitabilmente confuse e spesso non praticabili.

La trasformazione dei problemi giudiziari di Silvio Berlusconi in problemi «politici» – meglio ancora: in problemi della politica – è stata in questi vent’anni una costante dell’agire del centrodestra italiano. Non a caso, il «resistere, resistere, resistere» pronunciato nel gennaio del 2002 dall’allora Procuratore generale della Corte d’Appello di Milano, era appunto riferito alle annunciate nuove leggi del governo Berlusconi in materia di giustizia: leggi capaci di determinare, secondo Borrelli, il «naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo baluardo della questione morale». Scudi, legittimi impedimenti, prescrizioni e depenalizzazioni sono stati, per anni, la «via politica» (e legislativa) attraverso la quale il Cavaliere ha cercato – spesso con successo – di arginare i propri problemi giudiziari. Oggi, però, la situazione è molto diversa: e lo si capisce bene dallo smarrimento che pare caratterizzare l’azione del Pdl e del suo leader colpito.

La novità, come è evidente, sta nel dover fare i conti con una sentenza passata definitivamente in giudicato: e la difficoltà, giunti a questo punto, nasce dal dover prender atto di esser di fronte a una situazione che ha dell’irreversibile. Abituato a «ridurre il danno» di inchieste e processi attraverso le leggi e la politica (il complotto dei magistrati, le norme ad personam…) è di nuovo per questa via che il Cavaliere sta cercando una soluzione che gli permetta di rimanere in campo: ma la politica – e le leggi – stavolta possono aiutarlo in poco o in nulla, e il Pdl si avvita in un rosario di richieste mutevoli e confuse.

La grazia, la commutazione della pena, la richiesta che il Senato non voti la decadenza di Berlusconi, l’attacco alla legge-Severino (con possibile ricorso alla Corte Costituzionale), la richiesta di un nuovo intervento del Quirinale, l’arma finale della crisi di governo con la minaccia di puntare alle elezioni… Nessuno, in verità, ha ancora capito quale sia davvero la carta sulla quale il Cavaliere e il Pdl intendono scommettere: una incertezza, un disorientamento che rende ancor più confusa – e dunque meno governabile – la situazione.

«Resistere, resistere, resistere», incitò undici anni fa Francesco Saverio Borrelli, da sempre considerato da Berlusconi il «nemico numero uno», il capo indiscusso del «partito dei giudici», il leader carismatico delle «toghe rosse». «Io resisto! Non mollo», contrattacca oggi il Cavaliere. In mezzo, undici anni di guerra senza quartiere, undici anni che hanno prodotto cumuli di macerie politiche e giuridiche. Potrebbe anche bastare, per un Paese esausto e incattivito. Ma la parola fine, invece, pare non dover arrivare mai…

La Stampa 21.08.13

“I costi dell’instabilità”, di Paolo Guerrieri

Se Berlusconi e il Pdl decideranno di incrociare le sorti dell’esecutivo con le vicende giudiziarie del loro leader non solo apriranno una crisi politica dagli sbocchi imprevedibili ma si accolleranno la responsabilità di soffocare sul nascere ogni possibile speranza di ripresa economica. Con riflessi pesantemente negativi per tutti i cittadini italiani e per l’intera area euro. La posta in gioco, dunque, è davvero alta. E non si tratta solo di timori ma pressoché di una certezza.
La conferma viene da una rapida fotografia, innanzi tutto, della fase che stiamo attraversando. I dati sulla produzione industriale e sul Pil dell’eurozona nel secondo trimestre 2013 hanno mostrato un deciso miglioramento, dopo sei trimestri di contrazione, la più lunga fase recessiva del dopoguerra. Nulla di epocale s’intende, ma una significativa inversione di tendenza. Certo la strada di una possibile e vera uscita dalla crisi è ancora lunga e dipenderà anche dalle politiche che verranno abbinate alla timida ripresa che si va profilando.
Una constatazione che vale ancor più per la nostra economia che ha registrato per ora solo un rallentamento della contrazione dell’attività produttiva e intravvede prospettive di ulteriore miglioramento nella parte finale dell’anno. In queste condizioni saranno le scelte di politica economica che verranno compiute nei prossimi mesi a determinare un possibile ritorno alla crescita dell’economia italiana.
A sostegno del mercato e della domanda interna, innanzi tutto, ove è necessario intervenire sia sulle imprese per rafforzarne la fiducia e incentivarle a investire sia sulle banche perché siano spinte a erogare più credito a aziende e consumatori. Vi sono poi le decisioni importanti sui capitoli già aperti (Imu, Iva, Cassa integrazione in deroga, esodati); ma l’appuntamento decisivo sarà tra qualche settimana quando si dovrà vara- re la Legge di Stabilità per il 2014, da sottoporre al vaglio preventivo delle au- torità europee. È in quest’ambito che si dovrà contemperare la tenuta dei conti pubblici con le necessarie misure di rilancio dell’economia, tutto ciò nel rispetto di inderogabili principi di equità nella ripartizione dei costi d’aggiustamento. E solo un governo e una maggioranza con un pieno mandato potranno assolvere tali compiti.
Una crisi di governo, viceversa, e il
caos politico che ne seguirebbe renderebbero vana ogni speranza di ripresa. La nostra economia verrebbe risucchiata nuovamente in una situazione di ristagno e recessione. E non solo. Perché il rischio è di vanificare anche i progressi realizzati negli ultimi due anni in tema di struttura e andamento dei nostri conti pubblici, costati pesantissimi sacrifici a tutto il paese, e ai più deboli in particolare. Anche perché costituisce tuttora una minaccia il legame perverso esistente tra crisi del nostro debito sovrano e condizioni del sistema bancario.
Ma le chiavi della ripresa – come si è detto – sono anche nelle decisioni che verranno o meno prese in Europa e nell’area dell’Euro. Il miglioramento delle condizioni congiunturali in Eurpa è anche dovuto all’allentamento delle politiche di austerità, verificatosi negli ultimi mesi. È un dato positivo, ma non basterà certo a trasformare la ripresa in una crescita solida e stabile per i Paesi europei. Per questo servono decisi passi avanti nelle politiche di integrazione, a livello fiscale e finanziario innanzi tutto. E serve un deciso rilancio del ciclo di investimenti da portare avanti a livello europeo. Ma in vista delle elezioni tedesche si è fermato tutto. Tra ottobre e dicembre si svolgeranno due Consigli europei che potrebbero varare decisioni e iniziative assai rilevanti, se non decisive, su questi temi. E l’apporto del nostro Paese potrebbe risultare determinante, sempre che il governo e la coalizione che lo sorregge restino in carica.
Esistono dunque – per limitarsi agli aspetti economici – tante buone e fonda- mentali ragioni per non aprire oggi una crisi di governo. Finirebbe per spegnere ogni possibilità di ripresa economica e genererebbe un insieme di costi assai gravi e pesanti per tutti. Se è vero che anche per Silvio Berlusconi – come ha ripetuto spesso in passato – prima di tutto viene il Paese, ebbene è arrivato il momento di dimostrarlo.

L’Unità 21.08.13

“Dal Pd nessuna concessione a Silvio “Non siamo noi a doverlo salvare”, di Concetto Vecchio

«Se le richieste berlusconiane sono quelle di cui parlano, noi teniamo duro». Guglielmo Epifani usa queste parole, dopo il pranzo a palazzo Chigi con Enrico Letta. «La sintonia con il segretario è totale», confida il premier ai suoi. La profezia di Ugo Sposetti, secondo cui il Pd si sarebbe spaccato sulla condanna di Berlusconi, al momento non si è avverata. Il partito appare unito come mai era accaduto nel suo recente passato. Nessuna concessione è tollerata: né l’avallo al ricorso alla Consulta, né un lasciapassare sulla decadenza da senatore. Zero aperture sul voto al Senato, insomma. La sentenza Mediaset per una volta ha messo d’accordo il complicato arcipelago delle correnti, appianando faide e veleni. Per tutti valgono le parole di Paola De Micheli, la fedelissima di Letta: «Non possiamo risolvere noi i problemi del Cavaliere ». Il sì nella giunta per le elezioni è quindi la linea Maginot. L’unica disponibilità che viene ventilata è quella di concedere un po’ di tempo in più per la presentazione della memoria difensiva, se mai i berlusconiani lo chiederanno. «Ma niente di più». Non è escluso che il D-day possa slittare a fine settembre.
E tuttavia l’offensiva di Silvio Berlusconi nelle ultime 48 ore si
è fatta così serrata, che tra la dirigenza si fa largo l’idea che il Cavaliere faccia sul serio nei suoi propositi di far saltare le larghe intese. «È come una mosca in un bicchiere, fa di tutto per uscire, ma la via d’uscita non c’è — spiega un ministro — e va a sbattere continuamente contro il vetro». Bella istantanea. Non sembra più un bluff, come era apparso finora. La strategia di un leader che punta ad alzare il prezzo. «Una crisi ora — mette in chiaro Epifani — provocherebbe un danno serio al Paese e specialmente per le fasce sociali, che hanno pagato i prezzi più alti in questi anni». È il segno che il Pd deve scegliere se davanti a richieste irricevibili sia Letta a staccare la spina o se sia meglio «riversare su Berlusconi tutta la responsabilità delle elezioni anticipate ». Qualcuno fa maliziosamente notare che le parole pronunciate al Meeting di Rimini dal premier sembravano quelle di uno che si prepara a tornare alle urne.
Il premier naturalmente spera ancora di poter convincere le colombe a far ragionare il Cavaliere sull’opportunità di rovesciare il tavolo. Si scruta tuttavia con preoccupazione i gabinetti di guerra che si susseguono in questi giorni ad Arcore. «La situazione — spiega ai suoi prima di raggiungere Vienna — è ancora in evoluzione». Tutto è precipitato nel giro di una settimana. Dopo la nota del Colle le elezioni sembravano rinviate al 2015. Ora, a fronte della disperazione che trapela dal bunker di Arcore, ci si prepara al peggio. «Noi — dicono al Nazareno — non accetteremo soluzioni vergognose per la nostra storia e per il nostro popolo». Un messaggio eloquente, a pochi giorni dall’avvio delle feste democratiche, dove i big si confronteranno con una base che ha sempre mal digerito l’alleanza con il Pdl. Una posizione che la iper-governista De Micheli riassume così: «Noi non siamo moralisti, siamo semplicemente realisti». E aggiunge: «Nessuno scambio è possibile. Non si transige. Siamo tutti d’accordo».
Dice una vecchia volpe come Beppe Fioroni: «Davvero non capisco cosa ci guadagni Berlusconi a far cadere il governo. Ha tutto da perdere. La verità è che nel centrodestra è in corso una seduta di psicoterapia di gruppo nella quale esorcizzano la paura del dopo-Silvio. Ma prima o poi bisogna tornare a fare i conti con la realtà». La dura realtà che a volte può assumere forme imprevedibili. L’altro giorno Felice Casson, membro della giunta al Senato, ha evocato lo spettro dei franchi tiratori: il Cavaliere salvato
nel segreto dell’urna in aula, dove – a differenza della giunta – il voto sarà segreto? «Beh, se e per questo i franchi tiratori potrebbero spuntare da entrambi i lati», ragiona un dirigente democratico, dando corpo alle ipotesi di una fronda di berlusconiani ostili al voto.
Ragiona il bersaniano Davide Zoggia: «Sapevamo quali erano i guai giudiziari del Cavaliere, quando nacque questo governo, ma non è mai stato in discussione che l’avremmo salvato noi. In uno Stato di diritto le sentenze si rispettano nella convinzione che la legge sia uguale per tutti». E quindi prova a rassicurasi così: «Aveva promesso la fine dell’Imu, lo sblocco dei crediti alle imprese: se cade tutto questo naufragherà. Gli italiani non glielo perdonerebbero».
L’altro capitolo del pranzo tra il segretario e il premier ha riguardato la gestione della prossima fase congressuale. La mozione anti-vecchi di Francesco Boccia ha avuto l’effetto di rimescolare le correnti, come dimostra il vespaio di polemiche innescato dal documento. Epifani ha garantito che tenterà di tenere separate la partita congressuale dalla vita del governo. Letta ha assicurato la sua neutralità, per schermare la già fragile esistenza dell’esecutivo dalle tensioni interne. Il Pd tiene duro.

La Repubblica 21.08.13

“Il mondo rovesciato”, di Ezio Mauro

Come nelle epoche maledette, quando la politica diventa impostura, stiamo assistendo a un rovesciamento clamoroso del senso, a
un sovvertimento della realtà.
Il reato commesso da Berlusconi e sanzionato da tre gradi di giudizio è scomparso, nessuno chiede conto all’ex Premier del tesoro illegale di 270 milioni di euro costruito a danno della sua azienda e dei piccoli azionisti per giocare sporco nel campo della giustizia, della politica, dell’economia, alterando regole, concorrenza e mercato.
Nel mondo alla rovescia in cui viviamo si chiede invece ad un soggetto politico – il Pd – e a due soggetti istituzionali (il Presidente del Consiglio e il Capo dello Stato) di compromettersi con la tragedia della destra, costretta a condividere in pubblico i crimini privati del suo leader. Compromettersi trovando un’uscita di sicurezza dalla condanna definitiva del Cavaliere, piegando il diritto, la separazione dei poteri e la Costituzione, cioè l’uguaglianza dei cittadini. E tutto questo con una minaccia quotidiana che dice così: la politica e le istituzioni sono talmente deboli che la disperazione conclusiva di Berlusconi può tenerle prigioniere, piegandole per poi farle sopravvivere deformi per sempre. Napolitano ha già risposto che le sentenze si eseguono.
Ma le pressioni non si fermano, puntano alla creazione di un nuovo senso comune, urlano al sacrilegio politico, invocano l’eccezione definitiva che faccia di Berlusconi il “fuorilegge istituzionale”, il primo cittadino di uno Stato nuovo, fondato sulla trasgressione elevata a norma, sulla forza che prevale infine sul diritto. Bisogna essere consapevoli che questa è la vera posta in gioco oggi. Si può rispondere se si è capaci di mantenere autonomia politica e culturale. E soprattutto se si sa conservare la coscienza di vivere in uno Stato di diritto e in una democrazia occidentale, che non vuole diventare una satrapia dove la nomenklatura è al di sopra della legge e un uomo solo tiene in pugno il Paese.

La Repubblica 21.08.13