Latest Posts

Modena – Festa Pd – Un anno dal terremoto, tra ricostruzione e futuro

Intervengono

MASSIMO BRAY
Ministro per i Beni e le attività culturali
MARIA CHIARA CARROZZA
Ministro del’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
VASCO ERRANI
Presidente Regione Emilia-Romagna
Manuela Ghizzoni
Parlamentare PD
Alberto Silvestri
Presidente Unione Comuni Area Nord

L’ indirizzo della festa è stradello Anesino Nord 50 località Ponte Alto Modena (uscita n° 13 tangenziale Modena direzione Milano).

«Pensioni d’oro, un contributo per i giovani», di Enrico Marro

«Quello che stiamo studiando sulle pensioni d’oro è un intervento redistributivo e non per abbattere il deficit». La conferma è venuta ieri dal ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, al meeting di Comunione e liberazione, a Rimini. Insomma, non un prelievo per far cassa, né un contributo simbolico sulle pensioni più ricche (oltre 90mila euro) tipo quello che è stato bocciato di recente dalla Corte costituzionale perché imposto ai soli pensionati (con effetti discriminatori rispetto ai contribuenti con pari reddito ma di natura diversa). Quello allo studio è invece un intervento per dirottare risorse dalle pensioni medio-alte, in particolare quelle che contengono un forte “regalo” rispetto ai contributi versati, agli assegni più poveri, considerando che i giovani, ai quali la pensione verrà calcolata interamente col metodo contributivo (assegno commisurato ai versamenti effettuati durante tutta la vita lavorativa), rischiano di avere trattamenti insufficienti se non hanno una carriera di lavoro continua.
Certo, ha precisato Giovannini, «il tema è complicato» perché per un intervento redistributivo serio «bisognerebbe scendere dalle pensioni d’oro a quelle d’argento e forse oltre». Non a caso l’ipotesi che i tecnici stanno valutando è di prendere in considerazione tutte le pensioni superiori a dieci volte il minimo, circa 5mila euro al mese, e prevedere un contributo crescente con l’importo della pensione, perché «se si chiedono sacrifici a tutti il criterio della progressività è importante», dice il ministro. Un contributo che, in sostanza, avrebbe l’obiettivo di recuperare in parte il di più di pensione liquidato col metodo retributivo, applicato a tutti coloro che hanno cominciato a lavorare prima del 1996, che finiva per restituire molto di più di quanto versato all’Inps. Le risorse così recuperate dovrebbero andare ad assicurare un trattamento minimo di pensione a chi ha cominciato a lavorare dopo il 1995 e avrà tutta la pensione calcolata col contributivo senza poter neppure contare sull’«integrazione al minimo», di cui beneficiano le pensioni calcolate col retributivo (se l’assegno non raggiunge il minimo fissato dalla legge, attualmente quasi 500 euro, la differenza ce la mette lo Stato) .
Il sottosegretario al Lavoro, Carlo Dell’Aringa, ha spiegato che le strade percorribili sono due. Una appunto è quella dell’intervento redistributivo, secondo la proposta dell’ex premier Giuliano Amato. L’altra «è di rendere strutturale la riduzione della perequazione delle pensioni alte» al costo della vita. Con un’inflazione del 2,5% l’anno gli assegni si ridurrebbero di un quarto in dieci anni, osserva Dell’Aringa. Anche questa soluzione presenta però problemi, perché potrebbe incorrere nella bocciatura della Corte costituzionale. Per ora, insomma, siamo alla fase preliminare. Giovannini vorrebbe intervenire, anche sulla scorta delle numerose proposte presentate o annunciate in Parlamento. Ma spetta al premier Enrico Letta decidere che fare. Nel frattempo il ministro promette un nuovo provvedimento per salvaguardare altri 20-30 mila esodati e il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga.

Il Corriere della Sera 22.08.13

“Il forte rischio di una ripresa senza lavoro”, di Nicola Cacace

Aumenta il numero di ministri che prevedono una ripresa. Aveva cominciato Saccomanni, hanno continuato Letta e il ministro Zanonato tra gli altri, accennando ad una ripresa del Pil a fine d’anno o inizio 2014. Pochi parlano del rischio, reale, di una ripresajobless, senza occupazione, che, purtroppo, già si vede dai primi dati. Dall’inizio dell’estate gli ordini, la produzione industriale, la fiducia delle imprese hanno cominciato a salire, sia pure di poco, mentre l’occupazione e gli investimenti continuano a scendere. Il credito bancario alle imprese che era sceso di 3 miliardi ad aprile rispetto al mese precedente, è sceso di 4 a maggio e del doppio, -8 a giugno. Non sono buoni segnali per investimenti che languono da più di dieci anni. Lo stesso dicasi per l’occupazione che, secondo l’ultima trimestrale Istat 2013, cala sia rispetto al trimestre precedente (-422mila unità), che su base annua (-410mila). Mentre il tasso di occupazione (occupati su popolazione 15-64 anni) continua scendere, 55,5% nel 2013 contro il 64% europeo. C’è l’urgenza di alcuni provvedimenti a costo zero o a costo minore di cui, purtroppo, nessuno del governo parla, per eliminare i danni dell’uso indiscriminato della Cassa integrazione, dell’orario straordinario e dei bassi salari dei mestieri più umili. Oggi, se un’azienda italiana deve ridurre la produzione del 25% chiede la Cig per il 25% dei suoi dipendenti, accollando allo Stato una spesa di quasi 1500 euro/mese, tra indennità e contributi figurativi per ciascun di pendente. In Germania un’azienda nelle medesime condizioni, riduce l’orario del 25% a tutti i dipendenti, accollando allo Stato la metà del salario perduto per meno orario, con una spesa complessiva che è un terzo rispetto a quella della Cig italiana, con uno strumento simile al nostro contratto di solidarietà. L’esempio più recente ed eclatante è quello dello stabilimento Fiat di Pomigliano, dove, di fronte ad un aumento degli ordini della Panda, Marchionne ha rifiutato la richiesta sindacale di applicare il contratto di solidarietà (versione in positivo), preferendo chiedere ai dipendenti che già lavorano cinque giornate di fornire un sabato di orario straordinario. Questi comportamenti fanno almeno tre danni, un costo per lo Stato tre volte superiore tra Cig e contratti di solidarietà, a parità di riduzione del monte ore, l’aumento del mercato di lavoro nero, la condizione di perdita di dignità in cui si precipitano migliaia di lavoratori costretti a rimanere a casa. Tra i casi più noti di aumento di lavoro nero è quello del distretto di Puglia e Basilicata del divano, dove migliaia di operai in Cig di Natuzzi ed altre imprese, lavorano in nero per alcune delle imprese che hanno messi i loro lavoratori in Cassa integrazione. Un altro fattore negativo della ripresa jobless è lo straordinario. All’aumento degli ordini l’imprenditore, invece di procedere ad assunzioni anche temporanee, preferisce aumentare lo straordinario, spinto dal fatto che in Italia, grazie alla fiscalizzazione, l’ora di straordinario costa meno dell’ora ordinaria. Così accade che siamo il Paese europeo (dopo la Grecia), con gli orari annui di lavoro più lunghi, 1778 nel 2010, anno di crisi, contro 1419 in Germania e 1570 in Europa (dati Ocse). Nei paesi europei più attenti alle politiche per l’occupazione, da anni lo straordinario è stato sostituito con una banca delle ore, cui imprenditori e lavoratori attingono per il loro bisogni di flessibilità e di qualità della vita, senza togliere lavoro ai giovani. Lo stesso calo dei crediti alle imprese segnalato a giugno è un cattivo segnale indicativo del fatto che molte imprese preferiscono aumentare la produzione con lo straordinario più che con gli investimenti Ogni tanto si sentono lamentele industriali contro una supposta mala voglia degli italiani di accettare i lavori disponibili. L’ultimo è stato un industriale della plastica veneto sul Corsera di giorni fa. La verità è un’altra, l’Italia è il Paese con le più basse paghe per molti lavori operai, e non solo. Non siamo solo il Paese con paghe più basse d’Europa, siamo anche quello con le diseguaglianze più alte. In nessun Paese europeo un’infermiere professionale guadagna meno di 3mila euro al mese, mentre in Italia non arriva a 1500. Per evitare una ripresa senza lavoro, il Governo, oltre a misure attive di politica industriale, deve promuovere interventi a costo zero su contratti di solidarietà, straordinario e diseguaglianze, necessari per ridurre i costi di assistenza ed aumentare gli effetti occupazionali, che altrimenti rischiamo di non avere anche quando e se avremo la benedetta ripresa del Pil.

L’Unità 22.08.13

“Confusione senza strategia”, di Michele Prospero

L’ultima trovata di Berlusconi, quella di fornire solo un appoggio esterno al governo, svela un confuso oscillare tra vacue minacce di sabotaggio e calde promesse di contrattazione. Il Cavaliere appare come un capo ferito. Con un’anima incendiaria annuncia saccheggi imminenti. E, con uno spirito più calmo, asseconda una volontà di venire a patti prenotando tempi di bonaccia. Un attore politico prevedibile nelle sue mosse tattiche non lo è stato mai. Ha sempre avuto un che di eccentrico rispetto alla ratio politica. Con la sua propensione all’improvvisazione e al gioco irriflessivo, Berlusconi ha maltrattato ogni logica politica orientata secondo una strategia coerente. Ma adesso, con le sue uscite alquanto stravaganti e mutevoli, sfugge ad ogni canone di un agire politico capace di tenere i tasselli di una prospettiva ben congegnata.
Riposte le velleità di operare come un oscuro fattore di destabilizzazione, con la cinica determinazione di chi è pronto ad accarezzare il caos pur di tenere caldo lo spirito di vendetta, il Cavaliere placa le intemperanze annunciate e prova a lanciare messaggi più distensivi. Quando rinuncia a far saltare il tavolo con l’avviso al governo di avere i giorni contati, Berlusconi torna a invocare
protezioni e soccorsi che nessun potere però può promettergli sul serio.
Margini realistici per stipulare un patto che gli assicuri l’agibilità politica non esistono. Tirare in ballo il capo dello Stato, per coinvolgerlo in operazioni tecnicamente impossibili di salvataggio ad personam, o anche richiedere all’aula di tramutare il Parlamento in un quarto grado di giudizio che annulli la sentenza della Cassazione, è segno di infantilismo politico. La salvezza del Cavaliere, che andrebbe nei suoi proclami scambiata con l’evanescente promessa di una stabilità politica dalla durata almeno biennale, equivarrebbe alla decadenza definitiva dello Stato. In gioco c’è la dissoluzione istantanea di quella trama dei poteri separati che da alcuni secoli connota l’età moderna. Se incalcolabili (in una fase di grave crisi e perdurante recessione) sarebbero i costi economici di una rottura della governabilità, altrettanto nefaste diverrebbero le conseguenze della sospensione repentina dei principi ispiratori della civiltà giuridica europea.
Il salvacondotto, che Berlusconi a gran voce invoca, non è concepibile con strumenti giuridici. Nessun potere può oggi dichiarare formalmente che un potente in quanto tale è da ritenersi legibus solutus. L’immunità, come contropartita per un atteggiamento più responsabile verso le sorti del Paese, comporta la caduta drastica di pezzi portanti della cornice statuale. Su questi assetti non negoziabili (legalità, separazione dei poteri, eguaglianza), il Pdl deve desistere. Non c’entra l’antiberlusconismo. È in questione la credibilità stessa dello Stato, il suo prestigio interno e la sua credibilità internazionale. In fondo, è proprio la superiore ragion di Stato che suggerisce di accantonare ogni proposito di elargire dei salvacondotti. La sospensione, per meri calcoli politici, dei pilastri della legalità coinciderebbe con la perdita di ogni autorevolezza delle istituzioni fondamentali dello Stato di diritto. Non esistono margini cospicui per la contrattazione. Troppo elevati
sarebbero i suoi costi istituzionali e culturali. Farebbe bene quindi Berlusconi a riconciliarsi con la realtà di uno Stato di diritto, per evitare mosse devastanti e inutili. Il suo potere di ricatto e interdizione, quello che gli fa evocare caos e perdizione generale, poggia unicamente sulla sponda che di fatto viene offerta dalle potenze congelate di Grillo. Senza le truppe del comico genovese, che in nome dell’intransigenza più assoluta assicurano un incredibile spazio di manovra al Cavaliere, la sua potenza di fuoco sarebbe davvero ridicola. Ma contare in eterno sulla benevolenza delle armate grilline, come condizione invidiabile per rivendicare un plusvalore politico che consente di decretare la vita e la morte dell’esecutivo, non sarebbe per Berlusconi una cosa saggia. In condizioni critiche, una pattuglia di senatori ragionevoli potrebbe pur sempre staccarsi dagli ordini assurdi e irricevibili di Grillo e Casaleggio.
E anche dentro il Pdl Berlusconi avverte già che qualcosa comincia a sfuggire alla sua volontà di controllo e comando. Una componente interna, che ragiona in termini politici, e intuisce quindi che il tempo di un Cavaliere che marcia come potenza espansiva è ormai archiviato, potrebbe dargli un gran filo da torcere. All’ordine folle di far saltare il governo di servizio, per precipitare mestamente verso il baratro, in tanti potrebbero rispondere con la diserzione esplicita. E poi anche quanto accade oggi nel mondo cattolico (a Rimini ad esempio) dovrebbe mettere in guardia Berlusconi. È vero che il suo partito privato conta su una potenza aziendale inossidabile. Ma è anche vero che per vincere il Cavaliere ha sempre potuto contare su molteplici casematte sparse nei territori, su ricche trame di sostegno intessute con influenti ambienti cattolici. In questi mondi un tempo fedeli, il valore della stabilità ha fatto breccia. E in fondo Berlusconi che apre confusamente ad un governo di minoranza del Pd è consapevole che non può barattare la sua salvezza personale con la stabilità richiesta per la salvezza del Paese.

L’Unità 22.08.13

“Il nuovo dizionario della destra”, di Francesco Merlo

L’uso astuto e disonesto della lingua è il primo atto di ogni guerra. Dunque Berlusconi, che ha commesso il delitto, chiama «pacificazione » l’abolizione del castigo che è la guerra del delitto al diritto, l’esatto contrario della pace. E il voto del Parlamento, che è la massima espressione civile della democrazia, per Cicchitto è un «tribunale speciale» che, secondo Quagliarello, si trasforma esso stesso in «plotone di esecuzione». Attenzione, però, questa non è una guerra di parole ma sono parole di guerra. NON è la dialettica dei retori, non è l’eloquenza della difesa di Coppi contro i rigori dell’accusa del sostituto procuratore generale Antonio Mura, non sono le parole di Ghedini contro le parole della Boccassini, non è nemmeno la sapienza linguistica degli esperti in cavilli e in sfumature, ma è un’apertura di ostilità che fa saltare l’intero codice, è quel-l’offesa allo Stato che, lanciata da un ex premier, in altri tempi si sarebbe chiamata alto tradimento.
E lo si capisce benissimo ricordando che «la soluzione politica» proprio ieri richiesta da Angelino Alfano a Enrico Letta, è la stessa pretesa dei terroristi condannati, da Senzani a Cesare Battisti, a tutti i brigatisti antistato che appunto non riconoscevano né il parlamento né i tribunali, e neppure il singolo carabiniere.
Quelli raccontavano come epica guerra civile la loro macelleria e i loro agguati e Berlusconi mistifica la sentenza che lo inchioda alla frode fiscale come se fosse la nobile sconfitta di mezza Italia. «La pacificazione » per lui è trascinare nel suo singolare, individuale destino di frodatore quella parte d’Italia che, per legittimi motivi, non è di centrosinistra: tutti dentro il suo carniere di bracconiere.
«Siamo tutti colpevoli, siamo tutti evasori » ha sostenuto infatti la Santanché con un altra raffica di senso comune capovolto. La formula della Santanché parodizza la solidarietà, rovescia quella locuzione retorica che tutti usiamo quando vogliamo identificarci con le vittime della barbarie e delle violenze, anche naturali: «Siamo tutti americani» dopo l’11settembre, «siamo tutti berlinesi» davanti al muro del comunismo, «siamo tutti aquilani
» dopo il terremoto, «siamo tutti clandestini » davanti alla legge razzista che ci fa vergognare di essere italiani.
Ebbene, ora l’imbonitore si è appropriato dello strumento toccante della fratellanza ed ecco che «siamo tutti ladri», «siamo tutti Berlusconi».
E il meccanismo è così ramificato ed efficace che i quotidiani della casa sempre più spesso pubblicano sfoghi di lettori che raccontano di essere stati aggrediti e insultati come «ladri» perché leggono appunto Libero e il
Giornale.
Trionfa così l’impostura. È la prova che la menzogna sta prendendo piede, e non solo provoca ma confonde e disinforma.
Il ladro è Berlusconi e non chi lo ha votato. È stato condannato lui e non gli elettori di centrodestra. L’imbonitore lavora per trasformare in delinquenti anche i suoi sostenitori, è come lo spacciatore che vuole la solidarietà delle sue vittime,
come il bracconiere che si appella alla complicità della selvaggina che impallina, come il mafioso che dice di essere Enzo Tortora. Quella di Berlusconi è la sindrome di Sansone: muore sì, ma con tutti gli italiani.
Attenti dunque alle nuove parole dell’eversione che una volta era verbosa, fatta di fumosissimi comunicati illeggibili e di risoluzioni declamatorie. Oggi l’eversione è l’evasione fiscale e l’inversione dei significati più semplici.
E nel gergo del truffatore pop il massimo della complessità consentita è «il problema di sistema» di Quagliariello oppure la «la questione di democrazia» di Brunetta. Non trucchi linguistici ma slogan di quella «guerra civile» annunziata da Bondi.
«L’agibilità», «le più mature determinazioni », «l’omicidio politico», il dramma della democrazia», «l’atteggiamento pregiudiziale »: sono tutti allarmi, avvisi, dettati, ricatti all’Italia che deve piegarsi alla «anomalia Berlusconi» (scrive il Foglio) che una volta era la vittoria dell’outsider e ora è l’impunità del reo.
Non parole, ma parole d’ordine dunque, truffe di significato come l’appello della Gelmini per «un approfondimento della legge Severino» che in questo neoitaliano eversivo è l’appello a disattendere una legge, l’appello a mettersi fuori legge.
Certo, si può anche ridere delle frode linguistica e dell’abuso di analogie storiche. Al profondo Capezzone si potrebbe dire per esempio che se davvero volesse andare sino in fondo nel (bislacco) richiamo all’amnistia che fu accordata ai fascisti dovrebbe ricordare che il fascismo fu messo fuori legge e che Mussolini fu giustiziato. Il più imbarazzante è stato Luigi Amicone che ieri sera durante la trasmissione di Luca Telese su La7 ha paragonato Berlusconi a Che Guevara, e la magistratura e il governo Letta al governo militare boliviano che lo volle morto. Se continua così tra poco diranno che, durante il processo, a Berlusconi hanno rubato il portafoglio che è, per volontà popolare, il portafoglio d’Italia. E che sono stati i giudici, ladri ovviamente di democrazia.

La Repubblica 22.08.13

“Sulla scuola serve un cambio di passo”, di Pippo Frisone

Un cambio di passo. L’ha detto il premier Letta alla giornata d’apertura del Meeting di Rimini. Non è la prima volta che un politico pensi alla necessità d’un cambio di passo sulla scuola. Ma in che cosa consista questo cambiamento e, soprattutto, con quali risorse e con quali strumenti Letta non lo dice.
Si, ha rivendicato d’aver finalmente sbloccato i fondi destinati all’edilizia scolastica.
L’istruzione rimane per il premier uno dei temi più bistrattati e ancor più bistrattati sono quanti vi studiano e lavorano.
E’ giusto non lasciare soli i nostri giovani . E’ doveroso lavorare perché abbiano le stesse opportunità dei loro coetanei in Europa. Parola di Letta.
Forse sta qui la chiave di lettura di quel cambio di passo sulla scuola.
Dare le stesse opportunità che gli altri giovani europei già hanno forse è più difficile che ridurre lo spread o il nostro debito pubblico .
Ma quel cambio di passo può farlo oggi il governo delle larghe intese ?
O meglio, esistono oggi le condizioni politiche e soprattutto economiche per un cambiamento che non sia piccola manutenzione, politica del cacciavite o ordinaria amministrazione dell’emergenza?
Il nostro sistema scolastico è in grado di dare le stesse opportunità che hanno i giovani in Europa?
Le pseudo riforme volute dal centro-destra, dalla scuola all’università, vanno mantenute o azzerate? Da dove partire e per arrivare dove?
Di sicuro quel cambio di passo non ce lo sta dando il governo Letta coi provvedimenti presi e non presi sulla scuola in questi primi cento giorni.
Blocco dei contratti e delle anzianità, pensionamenti e quota 96, inidonei , istituti senza dirigenti e dsga, tagli all’integrazione di stranieri e diversamente abili, precariato, risorse finanziare carenti e organici funzionali inadeguati .
Questa lista di problemi aperti di sicuro sarà oggetto di un decreto legge ad hoc che il governo si appresterà a giorni a varare per garantire perlomeno il regolare avvio del prossimo anno scolastico.
Per l’appunto siamo alla solite con l’ordinaria gestione straordinaria dell’emergenza.
Ma questo non è il cambiamento !
Per quel cambio di passo ci vuole ben altro . Occorre innanzi tutto una convinta volontà politica di fare sul serio con l’istruzione, non considerandola più un costo ma un investimento per il futuro dei giovani e per la ripresa economica del nostro Paese.
Le opportunità per i nostri giovani non ci saranno se si continuerà a tagliare la spesa per l’istruzione. La politica della spending- review non può essere applicata alla scuola.
L’autofinanziamento sperimentato coi passati governi ha prodotto solo un impoverimento generale, disaffezione e decadimento qualitativo.
Dalle assunzioni in ruolo ai recenti scatti di anzianità, copertura e finanziamenti li hanno pagati ancora una volta i lavoratori sulla loro pelle. Il mancato rinnovo contrattuale è costato in media una perdita del potere d’acquisto stimato in circa 3mila euro annui pro-capite.
Per avere quel cambio di passo occorre rilanciare il nostro sistema scolastico, adeguandolo ai tempi, a quanto di più virtuoso già avviene in Europa e lasciandoci alle spalle le macerie provocate dalle riforme Tremonti – Gelmini.
Cambiare passo vuol dire cominciare a costruire un sistema scolastico integrato europeo per i futuri cittadini europei del domani.
Ma questo obiettivo difficilmente si realizzerà con le larghe intese.
Quel cambio di passo pur se convintamente evocato da Letta temo non ci sarà.
Ci sarà, invece, un tirare a campare e di emergenza in emergenza , anno dopo anno, la scuola senza una vera svolta politica, rischierà di finire di male in peggio.

da ScuolaOggi 22.08.13

“I debiti della Germania l’austerità della Merkel”, di Luciano Gallino

L’intervista concessa giorni fa dalla Cancelliera Merkel alla Frankfurter Allgemeine, apparsa anche su Repubblica, si presenta con due facce. La prima è quella di un manifesto elettorale, in vista della tornata di settembre. Angela Merkel è nota per saper interpretare come pochi altri politici le idee e gli umori del cittadino medio del suo paese. Che si possono così compendiare: noi lavoriamo sodo, sappiamo fare il nostro mestiere e amministriamo con cura il denaro pubblico e privato; quasi tutti gli altri, nella Ue, lavorano poco, sono degli incapaci e vivono al di sopra dei loro mezzi. La seconda faccia dell’intervista è una calorosa difesa delle politiche di austerità e delle riforme che la Cancelliera ha imposto ai Paesi Ue affinché risanino i bilanci pubblici e riducano i debiti.
Ogni personaggio politico sceglie le strategie comunicative che crede ed è probabile che quelle di Angela Merkel le assicurino il terzo mandato consecutivo. Su di esse non c’è quindi nulla da dire. Ma la difesa strenua dell’austerità e il messaggio implicito nell’intervista “i Paesi Ue sono pieni di debiti e noi no, per cui ci tocca insegnargli come si fa ad uscirne” meritano qualche osservazione. La prima è che la Germania, se si guarda alla sua storia, non ha nessun titolo per impartire lezioni in tema di debiti. Un paio di anni fa un docente tedesco di storia economica, Albrecht Ritschl, ebbe a definire la Germania, in un’intervista a “Spiegel Online”, il debitore più inadempiente del XX secolo. La Germania di Weimar aveva contratto tra il 1924 e il 1929 grossi debiti con gli Stati Uniti per pagare le riparazioni della I Guerra mondiale. La crisi economica del 1931 consentì al paese debitore di azzerarli, con un danno enorme per gli Usa. La Germania di Hitler smise semplicemente di pagare le riparazioni, sebbene esse fossero state drasticamente ridotte a confronto dell’entità punitiva indicata dal trattato di Versailles del 1919. Per parte sua il nuovo stato federale ha pagato somme minime per i danni provocati dalla Germania nella II Guerra mondia-le, grazie anche al benvolere degli americani che gradivano si rafforzasse per fare da argine all’Urss. Ma soprattutto non ha pagato quasi nulla per restituire ai Paesi europei occupati tra il 1940 e il 1944 le ingenti risorse economiche che la Germania nazista aveva prelevato a forza da essi. Lo stesso professor Ritschl ha stimato, in un articolo presentato nel 2012 alla 40a Conferenza di Scienze Economiche, che in moneta attuale codesto debito verso l’estero ammonterebbe a 2,2-2,3 trilioni di euro, equivalente all’incirca a un anno intero di Pil della Germania attuale. Avesse dovuto restituire anche soltanto un trilione ai Paesi spogliati dai nazisti, la nuova Germania avrebbe dovuto sborsare decine di miliardi l’anno per parecchi decenni.
A parte l’oblio del pessimo record della Germania come debitore, la orgogliosa difesa delle virtù dell’austerità che Angela Merkel fa nella sua intervista male si accorda con le cifre. Secondo dati Eurostat nei Paesi Ue si contano oggi oltre 25 milioni di disoccupati e 120 milioni di persone a rischio povertà per varie cause: reddito basso anche quando lavorano, gravi deprivazioni materiali, appartenenza a famiglie i cui membri riescono a lavorare soltanto poche ore la settimana. La scarsità di impieghi, i tagli alla spesa sociale e all’occupazione nel settore
pubblico hanno ridotto male anche le classi medie dei Paesi Ue. Neanche i lavoratori tedeschi se la passano bene. I “minijobbers”, coloro che debbono accontentarsi dei contratti da 450 euro al mese sgravati da tasse e contributi sociali, sono in forte aumento e si aggirano oramai su 8 milioni, circa un quinto delle forze di lavoro. Tra le cause di tutto ciò va annoverata la crisi, certo. Ma la crisi è iniziata sei anni fa. La recessione che ha provocato avrebbe dovuto essere combattuta in modo rapido e deciso con un aumento mirato della spesa pubblica, e i governi europei avevano il sacrosanto dovere di farlo dopo che avevano salvato le banche private a colpi di trilioni di denaro pubblico. Tuttavia sotto la sferza del governo tedesco essi adottarono la più dissennata delle politiche concepibili dinanzi a una recessione: la contrazione della spesa. Perfino gli economisti del Fmi, per decenni fautori dei più duri aggiustamenti strutturali, sono arrivati a scrivere che l’austerità nella Ue ha prodotto risultati negativi. È rimasta la signora Merkel a vantarne i benefici.
La stessa Cancelliera e il governo tedesco dovrebbero inoltre ricordarsi più spesso che la prosperità della Germania deve molto alla sottovalutazione del “suo” euro, senza la quale i 200 miliardi di eccedenza delle esportazioni sulle importazioni – 80 dei quali sono generati entro la Ue – si ridurrebbero a poca cosa. A fine 2011 un team di economisti della Ubs aveva stimato che l’euro tedesco fosse sottovalutato del 40 per cento. Altre fonti recenti indicano che esso vale 2 dollari e non 1,40 come dice il cambio ufficiale – uno scarto appunto del 40 per cento. E pochi mesi fa Wofgang Münchau del “Financial Times”, senza fare cifre, parlava di “enormi squilibri” tra il valore dei diversi euro dell’eurozona. Tali squilibri, tra cui
primeggia quello tedesco, sono dovuti al fatto che essendo l’euro una moneta unica, il suo valore nominale non può variare in modo da compensare le differenti capacità di produrre ed esportare delle economie europee. Se così fosse, le esportazioni tedesche sarebbero diventate da tempo assai più care. Ora non ci permetteremo qui di definire i tedeschi “portoghesi d’Europa”, come ha fatto qualche commentatore, ma un miglior apprezzamento dei vantaggi differenziali che l’euro reca alla Germania da parte del suo governo sarebbe gradito.
Ad onta dei suoi difetti di nascita, di un trattato istitutivo che assomiglia più allo statuto di una camera di commercio che a un documento politico, dei suoi squilibri interni, l’Unione europea rimane la più grande invenzione politica, civile ed economica degli ultimi due secoli. Per continuare a rafforzare tale invenzione gli stati membri hanno bisogno della Germania, così come questa ha bisogno di loro. Gioverebbe a tale processo poter discutere con governanti tedeschi che tengano più presente la storia economica e sociale del loro Paese, siano meno altezzosi nei confronti dei Paesi che giudicano colpevoli per il solo fatto di essere indebitati (non a caso Schuld in tedesco significa sia colpa che debito), e studino magari un po’ di economia per capire che l’austerità in tempi di recessione è una ricetta suicida. Per chi è costretto ad applicarla, ma, alla lunga, anche per chi la predica. Inutile aggiungere che allo stesso sviluppo gioverebbe avere negli altri Paesi, compresa l’Italia, dei governanti che a Berlino o a Bruxelles non vadano soltanto per dire che il loro Parlamento approverà senza condizioni qualsiasi trattato o dettato che le due capitali (una, in realtà) si sognino di confezionare.

La Repubblica 22.08.13