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"García Márquez, siamo tutti a Macondo", di Gianni Riotta

Si è spento nella sua casa di Città del Messico, con la moglie Mercedes e i due figli Rodrigo e Gonzalo accanto. Il romanziere colombiano Gabriel García Márquez, Nobel nel 1982, era malato da tempo. Dodici anni dopo la dura battaglia con un tumore linfatico, il cancro aveva invaso il suo corpo e lo scorso 3 aprile era stato ricoverato per una polmonite e un’infezione, ma lunedì gli era stato permesso di ritornare alla sua abitazione. L’autore di Cent’anni di solitudine aveva 87 anni. Il presidente della Colombia Juan Manuel Santos ha subito espresso in un tweet «mille anni di solitudine e tristezza per la morte del più grande dei colombiani di tutti i tempi. Solidarietà e condoglianze a Gabo e alla famiglia». «Per sempre Gabriel», ha invece titolato a tutta pagina il quotidiano di Bogotá El Espectador.

La centralinista all’ingresso del quotidiano il manifesto si rivolse perplessa al giovane reporter di passaggio in una mattinata chiara: «Ascolta, questo signore dice di essere Gabriel García Márquez». Il ragazzo, stupito, riconobbe l’autore del romanzo Cent’anni di solitudine, classico volume di una generazione nel mondo, le gesta del colonnello Aureliano Buendía, che promuove rivoluzioni perdendole tutte e finisce a creare pesciolini d’oro, tranquillo ed eroico come Garibaldi a Caprera. Un libro che dal 1967 ha venduto 50 milioni di copie in 25 lingue, fruttando all’autore colombiano il Nobel per la letteratura nel 1982, e creando il boom della letteratura latino-americana Anni 60 e 70, così onnipresente che José Donoso scrisse l’ironico Storia personale del boom.

García Márquez disse piano: «Sono qui per vedere la Rossana Rossanda», allora direttrice del giornale di sinistra. Il ragazzo schizzò nella stanza della Rossanda, trafelato ed emozionato, «Rossana, Rossana c’è Márquez!», e la fondatrice del quotidiano, celebre per la concentrazione sugli articoli, rispose pacata: «Digli se per favore mi aspetta cinque minuti». L’autore più celebre al mondo, amico personale di Fidel Castro, per anni bandito dagli Stati Uniti per le critiche alla politica della Casa Bianca nel suo Paese natale, la Colombia, sospettato dal regime di traffico di armi ai guerriglieri e costretto a vivere in esilio volontario in Messico, doveva aspettare 5 minuti! Il ragazzo aveva le orecchie basse, ma «Gabo», come gli amici chiamavano García Márquez, non reagì da prima donna, ma da quel cronista nel cuore che era sempre stato: «Il mestiere che ho più amato, il mio mestiere prediletto, prima ancora della letteratura, è il giornalismo. Ascoltare le storie della gente, raccontarle una per una sulla pagina. Se mi chiedessero cosa vuoi fare nella vita mille volte risponderei, il giornalista!». In un’intervista alla Paris Review, sofisticata rivista di letteratura, Márquez ribadirà commosso: «Amo il giornalismo più di tutto», ricordando il suo reportage straordinario del 1955 Racconto di un naufrago (Mondadori), cronaca del naufragio del marinaio colombiano Luis Velasco, sbalzato da una nave commerciale e sopravvissuto alla deriva. Márquez ne fa un esempio di letteratura fantastica, quel «realismo magico» di cui i critici gli daranno la paternità, «ma io non li ascolto, non leggo mai le recensioni, né buone né cattive, i critici hanno la loro idea di quello che la buona letteratura deve essere e ti stirano per misurarti, se ci entri o no. Rispetto invece i traduttori, ma non devono mai usare note a piè di pagina, mi raccomando».

Ridendo, Gabriel García Márquez prese il ragazzo sottobraccio: «Andiamo a berci un caffè, da quando volevo studiare cinema a Roma, al Centro Sperimentale di Cinematografia, il caffè romano è un momento unico. Sai, Rossana è la donna più intelligente che io abbia conosciuto e che ti capiterà di conoscere al mondo, lasciamola lavorare». Qualche anno dopo ripeterà il giudizio in un articolo per La Repubblica.

Era nato nel 1927 nel villaggio colombiano di Aracataca, dove il vento soffia l’aria dai Caraibi, modello per il Macondo di Cent’anni di solitudine. Suo nonno, che lo educava quando il padre Gabriel Elijio Garcia, 11 figli dalla moglie Luisa Santiaga Márquez e quattro fuori del matrimonio, telegrafista, omeopata e farmacista fallito, vagava per il Paese. «Mia nonna raccontava storie, le più fantastiche, e mi ha insegnato che se dici “Un elefante vola!”, nessuno ti crede, ma se dici “Ehi, 425 elefanti volano”, tutti ti credono, ed è tecnica del giornalismo che funziona nei romanzi». Il nonno aveva combattuto nella Guerra dei Mille Giorni, quando la Colombia dovette cedere l’istmo di Panama, uomo duro e severo, modello per il «“Colonnello» del più bel romanzo di Márquez, Nessuno scrive al colonnello: l’eroe di guerre perdute, angariato da un regime corrotto, con il figlio ucciso dai killer, che scommette sul riscatto morale ed economico, grazie al combattimento di un gallo poderoso, si rifiuta di vendere la bestia formidabile ai ricattatori, e quando la moglie lo affronta alla fine, isterica, «E se il gallo non vince? Che mangiamo?», risponde stoico: «Mangiamo merda».

Le avventure di Macondo sono cronache letterarie dove il genio di Márquez porta la tecnica giornalistica ai vertici del Novecento, come Hemigway – suo idolo con Conrad e Faulkner – non seppe fare. Se la compagnia Usa United Fruit era simbolo dell’oppressione per i contadini, ecco romanzeschi massacri, pestilenze, povertà in Cent’anni di solitudine, mali combattuti con la sensualità, la passione, il rigore. La politica di Márquez non esce dallo schema della rivolta latino-americana, neppure quando il presidente Bill Clinton diventa suo amico personale: «Leggevo Cent’anni di solitudine all’università, a Giurisprudenza, non riuscivo neppure a posarlo durante le lezioni». Elogi per Castro e Cuba, più tardi per il populista venezuelano Chávez. Quando la democrazia fa infine capolino in America Latina e il rivale romanziere Mario Vargas Llosa lo invita a denunciare le dittature, Márquez non cambia registro: il garbo personale, l’indole umile anche dopo il Nobel, fanno riconoscere al combattivo Vargas Llosa: «In politica no, ma come scrittore è un gigante».

Senza Márquez avremmo mai letto capolavori come Pedro Paramo di Juan Rulfo con l’agghiacciante discesa nella prateria della Morte? E Onetti, Dorfman, Cabrera Infante, Cortazar? No. Dopo rivolte, guerre, pestilenze, sconfitte, il Nobel, i libri, gli amori, García Márquez non si mai dava arie e sorrideva bonario: «Ho un solo rimpianto nella vita, non ho avuto una figlia». Lo piangono la moglie, i due figli maschi, leader in tutto il mondo, i critici che non leggeva e milioni di lettori.

www.lastampa.it

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Gabriel Garcia Marquez, una vita tra letteratura e passione civile

I romanzi dello scrittore colombiano, maestro del “realismo magico” e premio Nobel nel 1982, hanno venduto centinaia di milioni di copie in tutto il mondo. Gli esordi da giornalista, l’amicizia con Fidel Castro, l’ideale di una via sudamericana al socialismo
Gabriel Garcia Marquez nasce a Aracataca, in Colombia, il 6 marzo 1927. E’ il primo di 16 fratelli. Lascia gli studi di Giurisprudenza a Bogotà e si trasferisce a Cartagena, dove nel 1948 diventa reporter de El Universal. Nel 1955 scrive i suoi primi romanzi, Foglie morte e Racconto di un naufrago.

Nel 1958, si trasferisce nella Cuba di Fidel Castro, di cui diventa molto amico. Lavora per l’agenzia cubana Prensa Latina, prima a Bogotà e poi, dal 1961, a New York. La Cia comincia a sorvegliarlo, e così si trasferisce in Messico con la moglie Mercedes e il figlio Rodrigo.

Nel 1967 “Gabo” pubblica Cent’anni di solitudine, capolavoro del “realismo magico”. Il romanzo ha un successo planetario, tradotto in 37 lingue, vende 60 milioni di copie. In spagnolo solo la Bibbia ha venduto più delle opere di Gabriel Garcia Marquez.

Nel 1973, dopo il colpo di Stato in Cile, torna reporter sul campo e lascia per due anni la letteratura. Critica apertamente il dittatore cileno Pinochet. Nel 1975 riprende il suo cammino di scrittore con L’autunno del patriarca. Nel 1981, poi, pubblica Cronaca di una morte annunciata.

Nel 1982 vince il premio Nobel per la letteratura. Affascinato dal socialismo e dalla sua applicazione in Sudamerica, negli anni ’90 simpatizza per il leader venezuelano Hugo Chávez. Nel 1985 scrive L’amore ai tempi del colera.

Nel 1999 viene colpito da un cancro linfatico, ma riesce a sconfiggere la malattia. Nel 2002 pubblica la prima parte della sua autobiografia Vivere per raccontarla. Nel 2005 torna alla narrativa con quello che è il suo ultimo romanzo, Memoria delle mie puttane tristi.

Dal 2012 si susseguono voci secondo cui il premio Nobel soffre del morbo di Alzheimer, voci sulle quali la stessa famiglia ha fornito versioni molto discordanti. L’ultima apparizione in pubblico dello scrittore colombiano, da circa trenta anni residente in Messico, risale al 6 marzo scorso, quando si affacciò alla porta della sua casa per salutare i giornalisti accorsi per il suo 87esimo compleanno. Poche settimane prima era stato fotografato durante una festa in cui faceva il gesto del dito medio.

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"Un labirinto inestricabile", di Michele Ainis

I dipendenti pubblici? Una mandria di sfaticati. I loro dirigenti? Mandarini del Celeste Impero. Le burocrazie locali? Centri di spreco e corruzione. Nella furia iconoclasta che s’abbatte sugli uomini (e le donne) dello Stato, non si salva più nessuno. E il presidente del Consiglio offre un megafono a questo sentimento popolare, trasformando il rancore in urlo di battaglia: promette una lotta «violenta» alla burocrazia, annuncia che a maggio il suo governo entrerà «con la ruspa» nelle casematte della pubblica amministrazione. Giusto, se l’offensiva riuscirà a sgominare le inefficienze e prepotenze burocratiche. Sbagliato, se vi fiammeggia un odio verso tutto ciò che è pubblico, di tutti.
Perché siamo noi, lo Stato. È la maestra che insegna matematica ai nostri bambini, guadagnando meno d’una colf. È il poliziotto che fa il turno di notte nelle strade, a bordo di volanti scalcinate e sempre a corto di benzina. È il medico del Pronto soccorso, che s’arrangia risparmiando sulle garze. Ed è anche il burocrate con la sua penna d’oca in mano, come no. Ma per difenderci dalle vessazioni burocratiche, per ritrovare la nostra libertà perduta, dobbiamo restituire all’amministrazione pubblica la sua propria dignità perduta. Sfatando innanzitutto dicerie e leggende sul corpaccione dello Stato.
Non è vero che l’Italia sia la patria dei dipendenti pubblici: ne abbiamo 3,4 milioni, contro i 5,5 milioni del Regno Unito o della Francia. E sono 58 per ogni mille abitanti, come in Germania. Peraltro in calo del 4,7% nell’ultimo decennio, a differenza di tutti gli altri Stati europei. Non è vero che costano troppo: pesano l’11,1% del Pil, circa la metà di quanto si spende in Danimarca. Mentre il loro contratto di lavoro è bloccato dal 2010. È vero però che sono troppo vecchi (solo il 10% ha meno di 25 anni), con troppi marescialli e pochi soldati semplici (la Francia ha un terzo dei nostri dirigenti), ed è vero infine che sono mal ripartiti (in Calabria gli statali rappresentano il 13% degli occupati, in Lombardia il 6%).
Da qui il farmaco più urgente: razionalizzare. Con l’intelligenza, non con la violenza. Significa distribuire meglio i ruoli, ma significa altresì semplificare i procedimenti e gli accidenti del diritto amministrativo. Dove la legge annuale di semplificazione non interviene mai ogni anno, e si traduce per lo più nell’ennesimo fattore di complicazione. Dove regna (dal 1889) l’astrusa distinzione fra diritti soggettivi e interessi legittimi, ciascuno col suo giudice, ciascun giudizio un rebus per i cittadini. E dove s’accalca una folla di custodi, che ovviamente passano i giorni a litigare sulle rispettive competenze. Ma in un Paese che ospita 6 forze di polizia nazionali e 2 locali questa è la regola, non certo l’eccezione .
Ecco, è lì il virus che infetta l’organismo dello Stato. S’annida nell’eccesso dei controlli, delle giurisdizioni, dei procedimenti, delle norme (che peraltro fanno da scudo ai poco volenterosi). Quante ne abbiamo in circolo? Nel 2007 la commissione Pajno ha fatto un po’ di conti: 21.691 leggi statali, cui però dovremmo aggiungere 30 mila leggi regionali e 70 mila regolamenti. Ma in un sistema tortuoso come un labirinto nessuno risponde più di nulla: c’è sempre un comma che ti lava la coscienza. La fuga dalle responsabilità ha origine perciò da un pieno, non da un vuoto. Giacché troppi controllori vanificano il controllo, giacché troppe leggi equivalgono a nessuna legge. E allora tagliamo le norme, non le teste.

Il Corriere della Sera 17.04.14

"Emma Castelnuovo, la matematica che vedeva con la mente", di Michele Emmer

«Nel 1932 mi iscrivo all’Università, matematica e fisica: Ero sempre andata male in matematica: ho avuto per gli otto anni di scuola secondaria un insegnamento formale e ripetitivo. Mi iscrivo a matematica e fisica con l’idea di passare a fisica: dopo un anno, sono passata a matematica. Nel 1934-35 al 3° anno seguo il corso di Federico Enriques. Ho ancora i quaderni di appunti, anche se era impossibile prendere appunti. Il nostro era un continuo esercizio a vedere con la mente». Chi scrive queste parole ha avuto Enriques come zio, Guido Castelnuovo come padre, due dei più importanti matematici italiani del novecento, ben noti nel mondo. Emma Castelnuovo, che di lei si tratta, ha avuto una vita piena di interessi e di idée. Una vita attivissima che si è interrotta a 100 anni domenica 14 aprile.
Raccontava Emma: «Nel 1938 fu proibito in Italia, ai bambini, ai ragazzi, ai giovani ebrei di frequentare le scuole pubbliche e l’università. E fu proibito, naturalmente, ai professori ebrei di insegnare. Nelle grandi città come Roma, Milano fu organizzata una scuola ebraica elementare e secondaria. Gli insegnanti erano di ruolo, allontanati dalle scuole pubbliche; io ero fra questi: avevo vinto il concorso nell’agosto del ’38, e avevo perso il posto pochi giorni dopo ». Negli anni 1941-43 a Roma funzionò una università clandestina in cui insegnarono diversi matematici.
Una delle grandi idée di Emma Castelnuovo è stata quella di far «vedere con la mente» il maggior numero di persone. «L’obiettivo del libro è quello di far capire qualcosa di matematica e anche qualcosa del modo di ragionare del matematico a chi ha frequentato, e anche male, la scuola dell’obbligo». Ha scritto nella presentazione del suo libro Pentole, ombre, formiche: in viaggio con la matematica (La Nuova Italia, 1993). Un viaggio «per soddisfare le curiosità partendo da qualche teoria suggerita da problemi di pentole, da osservazioni sulle ombre, e da riflessioni fatte da una formica pensierosa». Con lo scopo, che è stata da sempre la missione di Emma, di «abituare i ragazzi alla ricerca autonoma, proponendosi di svilupparne le possibilità di osservazione, l’intuizione, il senso critico, e, in generale, alcune fondamentali attitudini di pensiero. Ciò è particolarmente utile nella vita di oggi che, diventando sempre più complicata, rischia di non essere compresa da una larga massa di persone, in tal modo relegate a un atteggiamento puramente passivo». Parole scritte nel 1975 nella presentazione di quel libro straordinario Matematica nella realtà (Con Mario Barra, Bollati Boringhieri) che raccoglieva i materiali delle prime mostre di matematica realizzate da Emma Castlenuovo nell’aprile del 1974 alla scuola media Tasso di Roma.
Ecco che cosa rispondeva anni fa alla domanda su a che cosa serve la matematica nella società: «Mi sembra una domanda assurda, lo sappiamo benissimo che serve moltissimo, però l’insegnamento della Matematica è rimasto molto arretrato. Direi che l’Italia, per quello che riguarda l’insegnamento della Matematica nella scuola media è fuori di dubbio sia stata all’avanguardia per i programmi del ’79. Quei programmi sono ben noti perché sono dei programmi non specifici, non dettagliati, ma dalle idee larghe. A qualche insegnante possono rimanere difficili proprio perché non ci sono i dettagli, ad altri, agli insegnanti aperti, riescono belli e interessanti proprio perché sono aperti e uno può insegnare come vuole. L’Italia, dobbiamo tutti riconoscerlo, ha sempre avuto una grande libertà nella scuola secondaria e uno può fare, e infatti l’ho fatto, le pazzie che vuole. Comunque, oggi come oggi, quello su cui si deve insistere a mio avviso è la fantasia che occorre per fare il matematico, perché, con i mezzi formidabili che abbiamo, ci sono tante, a volte troppe, informazioni e bisogna saperle scegliere, e ci vuole anche il posto per l’intuizione e la fantasia del matematico». Senza grandi proclami, senza alte grida e facili entusiasmi Emma Castelnuvo si è da sempre proposta di far comprendere come si può «vedere con la mente». L’utopia di credere nelle capacità dell’umanità tutta. E sappiamo quanto bisogno abbiamo di utopie. Addio Emma.

L’Unità 17.04.14

"In picchiata verso la catastrofe? Il governo dell’università italiana in un grafico", di Andrea Mariuzzo

Il 21 febbraio scorso, al secondo convegno organizzato da ROARS su Politiche per la ricerca e formazione terziaria in Europa. Le sfide per l’Italia, Paolo Rossi, docente all’Università di Pisa, ha presentato un documentato intervento su Il reclutamento accademico nel contesto della crisi, in cui ha commentato l’andamento delle curve di assorbimento di personale nei ruoli universitari.

Rinviando al video del suo intervento integrale per ulteriori specificazioni, mi limiterò a prendere in considerazione uno dei grafici da lui presentati, efficacemente riassuntivo della situazione:

Cattura1

Cattura2

Le curve mostrano rispettivamente il numero di ricercatori universitari a tempo indeterminato, professori associati e professori ordinari selezionati dal sistema di reclutamento universitario dal 2006 al 2013.

Un primo elemento salta chiaramente agli occhi: la comune tendenza alla decrescita fino ad avvicinarsi quasi allo zero. Si tratta di un andamento significativo se si tiene conto di due fattori destinati a pesare nel medio-lungo periodo. In primo luogo, che questi numeri (al contrario di quanto ingenuamente assumono i non addetti ai lavori) sono al lordo delturnover con i pensionati: in pratica, in un momento in cui stanno lasciando l’università le coorti di età nata intorno al 1945, che per ragioni legate alle politiche di assunzione precedenti hanno offerto nel nostro paese più docenti e ricercatori di ogni altra generazione, il rubinetto delle sostituzioni è chiuso, con una evidente riduzione della quantità di occupati nel settore, un peggioramento del rapporto numerico tra docenti e studenti proprio quando si dichiara necessario rendere l’esperienza culturale dell’università più intensa e “vissuta”, e la necessità dei dipartimenti di ricorrere in misura crescente, per garantire un’offerta di corsi adeguata alla sopravvivenza, a contratti di insegnamento precari di durata annuale o semestrale mal (o, con qualche escamotage, non) pagati e inadeguati a garantire progetti didattici di ampio respiro. In secondo luogo, questa chiusura delle posizioni rispetto agli anni precedenti ritarda, e in parte dei casi probabilmente annullerà, l’entrata nel sistema di quel personale che tra 20-25 anni dovrebbe essere al vertice della “piramide” dei ruoli accademici, dotato di sufficiente esperienza e competenza per guidare la propria categoria professionale e la gestione economica e culturale delle istituzioni universitarie. Ci apprestiamo, insomma, a costruire un sistema destinato a ritrovarsi in tempi relativamente brevi acefalo, e quindi a criticare l’inefficienza di una comunità scientifica che abbiamo pervicacemente voluto costruire e ottenere in questi termini.

Le date che segnano questo ritmo, con un primo drastico calo nel 2008 ripetuto, in forma finora irreversibile, 3 anni dopo, sembrano legare le difficoltà a sostituire il personale in pensionamento allo stretto controllo del turnover nei ruoli della pubblica amministrazione messo a punto dall’ultimo governo Berlusconi e poi mantenuto senza possibilità di ridiscussione a causa del precipitare della situazione dei nostri conti pubblici. Questo è vero solo in parte. Si considerino infatti i dati esposti da uno studio proposto all’inizio dell’anno dalla Fondazione Giovanni Agnellisull’evoluzione numerica del personale scolastico:

L’andamento di ogni singola curva potrebbe essere oggetto di considerazioni molto interessanti, e chiarire quali ambiti del servizio e del controllo sociale pubblico hanno rappresentato, di volta in volta, una priorità per la politica. Quello che interessa mettere in evidenza qui è che tra i vari settori della pubblica amministrazione, insomma, quelli a gestione MIUR hanno registrato nell’ultimo quinquennio una riduzione quasi doppia, in termini percentuali, rispetto alla media ricavata dal confronto con altri rami del pubblico impiego.

Istruzione e università, insomma, hanno rappresentato finora il più evidente ambito di riduzione di spese e investimenti pubblici, e forse l’unico ad aver dato risultati strutturali con una effettiva riduzione dei soldi richiesti “a regime”. Questo risultato era peraltro inscritto nelle riforme portate avanti negli anni Duemila da Moratti e Gelmini, profondamente diverse in alcuni elementi d’impianto generale (si è infatti passati dalla moltiplicazione dei corsi di laurea e dal supporto al consolidamento di nuove sedi, in continuità con l’interpretazione berlingueriana del Bologna process, a una stretta anche sulle unità amministrative e sull’espansione dell’offerta di insegnamenti) ma coerenti nella scelta di porre termine al ruolo di ricercatore universitario sostituendolo con posizioni temporanee. Come si vede bene dal grafico di Rossi da cui sono partito, infatti, sebbene negli ordinamenti italiani non esistesse e tuttora non esista una distinzione tra reclutamento e promozione quello di ricercatore universitario ha rappresentato il ruolo principe per le immissioni di nuovo personale stabilizzato, e la gran parte di associati (e, in prospettiva, di ordinari) è stata pescata nel novero di chi aveva già quella posizione. All’aumento nelle assunzioni di ricercatori è spesso corrisposto un incremento simile di “passaggi di grado” nella carriera. Di conseguenza, riducendo a zero il numero di ricercatori senza dare inizio a specifici incentivi in senso contrario, si rischia seriamente (e i dati confermano il timore) di troncare alla radice il ricambio, azzerando la “pressione” dal basso verso l’alto e trasformando quello che dovrebbe essere “reclutamento” di forze fresche in una più lenta promozione di chi è già assunto, capace di intasare i canali d’ingresso.

L’unica inversione di tendenza possibile sarebbe determinata da una maggiore decisione nella promozione dei contratti a tempo determinato con stabilizzazione finale in caso di conseguimento dell’abilitazione scientifica, impropriamente spacciati per tenure track, ma per ora tutto sembra congiurare in senso contrario. Sicuramente non aiuta il loro costo elevato, e la recente messa in discussione proprio dell’unico passaggio che può assicurare ad ora l’assunzione fissa sembra rendere un reale funzionamento del meccanismo un miraggio. A ciò si deve però aggiungere il fatto che il percorso di supposta stabilizzazione dei precari è stato progettato secondo passaggi “a scadenza” di durata limitata e non replicabili, che sono stati presentati dal legislatore come il percorso “ideale” a responsabilità e impegno didattico e amministrativo crescente che un giovane studioso “eccellente” può compiere senza difficoltà, ma che in realtà, senza la certezza di assicurare fondi per ogni posizione, si trasformerà facilmente nella secca in cui le carriere andranno a un certo punto ad arenarsi per assenza di opportunità, e con l’aggravante di una“retorica dell’eccellenza” in base alla quale, se il percorso progettato e imposto rigidamente per decreto è il normale processo di stabilizzazione per personale di grande qualità, chi non riesce a completarlo non ha successo per suoi limiti nelle capacità professionali e quindi non deve lamentarsi per colpe sue. Le conseguenze di tutto questo hanno iniziato a farsi sentire con rapidità sorprendente, stando ai dati che nel 2012 parlavano dell’allontanamento da dipartimenti e istituti di ricerca di circa ventimila esperti studiosi che avevano il solo difetto di essere precari, e di una loro riduzione di circa il 50% rispetto al momento dell’approvazione della riforma due anni prima.

Al di là di questo, però i dati raccolti da Paolo Rossi fanno anche riflettere su un’altra cosa. Già per questi ultimi anni, ma il fenomeno sarebbe ancora più evidente se si allungasse il periodo dei rilievi, il grafico delle assunzioni mostra che il trend discendente ha conosciuto diverse inversioni di tendenza anche molto marcate. Proprio questo andamento a scatti, però, appare fuori luogo in un sistema che per diversi decenni ha assorbito, anno per anno, una quota di personale simile, eventualmente normalizzata al rapporto con il numero di studenti. Da almeno 35 anni, in effetti, le dinamiche di reclutamento appaiono guidate non tanto dalla soddisfazione delle necessità del sistema, quanto dalle disponibilità dell’amministrazione centrale, che su via libera del ministero ha consentito di procedere alla selezione di nuovo personale mettendo a disposizione le coperture per gli stipendi. Il risultato di questo “tira-e-molla” è stato un andamento a scatti sempre meno pronunciati, solo in parte assimilabile ai meccanismi di “vuoto” e “pieno” tipici dei sistemi di assunzione fortemente controllati, i cui tempi di “smaltimento” sono di solito decisamente più lunghi di quelli che si presentano ai nostri occhi nei grafici di Rossi. Per chi conosce la storia di questi ultimi tempi, infatti, la riapertura temporanea del reclutamento è assai più chiaramente coincisa o con necessità di consolidare il consenso politico ed elettorale da parte delle maggioranze governative, o con spinte in larga misura corporative e di lobbying, generate dalla necessità delle sedi locali e dei loro referenti nella comunità scientifica di procedere a sanatorie con l’immissione in ruolo dei precari che, nei periodi di pausa delle assunzioni, si erano sobbarcati compiti non loro contribuendo a tenere in piedi la baracca e maturando dei crediti rispetto ai propri vertici di riferimento.

Non è difficile capire quanto poco sano sia gestire l’immissione in ruolo del personale docente in questo modo. Tanto più se, da almeno un decennio, il MIUR ha a disposizione una messe di dati ampia e completa sulla situazione di docenti e studiosi impegnati a tutti i livelli nella didattica accademica e nella ricerca. Ogni bando, ogni richiesta di accreditamento, ogni programma di finanziamento ha avuto una partecipazione tale da renderlo un autentico censimento della situazione generale di ogni articolazione del personale attivo negli atenei. Eppure, il ministero non sembra non solo riuscire, ma neppure curarsi di gestire e raffinare i dati in modo da individuare davvero le esigenze funzionali del sistema e delle sue parti, di richiedere gli strumenti giuridici ed economici necessari per farvi fronte e per concentrare la propria azione in quei termini. Ci troviamo di fronte, insomma, a una burocrazia cieca, a cui tutte le riforme degli ultimi anni si sono ben guardate dal togliere un ruolo decisivo nella concreta determinazione delle politiche universitarie, e che quindi si ritrova a gestire un universo da cui ormai è sempre più distante e che rifiuta di conoscere attraverso canali moderni ed efficaci. Si tratta di un risvolto preoccupante, in prospettiva futura, almeno quanto i puri dati numerici.

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"Stampa, 1.600 occupati in meno. Lotti: i fondi ci sono Gli editori fanno il punto: bene il web, ma è un momento difficile" di Rachele Gonnelli

Gli editori presentano i dati di quella che definiscono «la crisi nella crisi»: la drammatica situazione della carta stampata, soprattutto dei quotidiani, comparto che sta vivendo il suo anno più buio e sprofonda in una recessione ben peggiore del resto dell’economia italiana. Più che un grido di dolore suona però come una tromba di carica. Finito di illustrare le slide, la vice presidente Fieg Azzurra Caltagirone chiarisce qual è la ricetta degli editori per risolvere la divaricazione del 2013 della forbice tra costi e ricavi: nel 2013 che si sta chiudendo per le aziende nel rapporto tra costi e ricavi si è passato dal non aver margine al margine negativo, mentre il fatturato pubblicitario dei quotidiani è crollato del 19,4 per cento, le copie sono cadute del 6,5 complessivamente. «Siamo aziende in cui la prima voce di costo è quello del lavoro – ha detto Azzurra Caltagirone -, pur andando a una riduzione degli addetti la dinamica contrattuale non è più sostenibile. Così come il numero di addetti non è più sostenibile».
A suo dire andrebbe inoltre fatta una operazione svecchiamento del personale. Considerando il numero di giornalisti contrattualizzati, cioè assunti, come 15mila unità nei giornali e nelle agenzie di stampa, 5mila hanno almeno 50 anni e solo 735 meno di 30 anni. «Se vogliamo una modernizzazione ci servono invece 20 e 30enni, il futuro di questo Paese», dice l’editrice del Messaggero moglie di Pierferdinando Casini, anche senza chiarire come si può invertire questo rapporto, né come in questo passaggio possa essere salvaguardata «la qualità dei prodotti giornalistici e la loro autorevolezza», che pure gli editori riconoscono come obiettivo per invertire la rotta. Anche il presidente Fieg Giulio Anselmi ha indicato «la necessità di una maggiore flessibilità», aggiungendo che comunque «senza un sostegno di politica industriale non usciremo dalla spirale.» La domanda sottesa, cioè non formulata con punto interrogativo finale ma rivolta al nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria Luca Lotti, era: con il nuovo governo che fine farà il cosiddetto fondo Legnini ( 120 milioni di euro in tre anni) per incentivare innovazioni tecnologiche e digitali, piani di ristrutturazione e ammortizzatori sociali, leggi prepensionamenti e quote per l’occupazione di giovani professionisti. Lotti, presente al convegno, ha spiegato a margine dell’iniziativa che per la gestione dei 50 milioni di euro previsti quest’anno dal cosiddetto fondo Legnini per l’editoria le linee guida saranno queste: «Assunzione dei giovani e ristrutturazioni delle crisi aziendali, che dovranno dare delle garanzie sull’occupazione».
Gli editori puntano, dunque, flessibilità totale e spazzare via dinamiche di miglioramento contrattuale, insieme a una buona iniezione di finanziamenti pubblici per nuovi esodi e tagli al personale, incluso quello poligrafico: nelle redazioni di quotidiani e agenzie ci sono ancora 4.500 poligrafici di supporto a 6.500 giornalisti. Un rapporto indicato come «eccessivo». Mentre oltre alla prospettiva dei tagli, il negoziato per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro, alle sue mosse iniziali dopo oltre un anno di vacanza, non sembra per ora decollare. Quanto all’analisi dei motivi della crisi, tanto «dei modelli di business » quanto del crollo delle copie vendute in edicola (tra il 2009 e il 2013, il numerodei giornalisti fuoriuscito è stato di 1.662 unità, di cui 887 nell’area dei quotidiani e 638 in quella dei periodici) e non compensate, se non in minima parte, da un aumento degli abbonamenti su tablet, non c’è molto nel rapporto Fieg 2011-2013. Nessuna analisi di dettaglio ad esempio sul mercato dell’informazione locale e la concorrenza dei siti di citizen journalism. Roberto Sommella, che ha presentato un suo studio, fa notare che nel 2011 c’è stata una piccola inversione di tendenza, un leggero aumento di lettura e vendita dei giornali (+ 1,8). Anselmi attribuisce la disaffezione dei lettori alla congiuntura economica e all’avanzare di un’offerta di informazione gratuita in rete. Avverte che le aziende non devono mollare il loro core business cartaceo, considera «un errore da non ripetere» le tv nate dai siti dei giornali, insiste su puntare su una pluralità di piattaforme con pubblici e modalità di scrittura diversi. L’esperimento di successo è il NewYork Times con i suoi ricavi da pay wall, notizie in esclusiva a pagamento sul web. Ma non nasconde che gli editori sono ancora allo slogan «digital first mentre ancora non è arrivato il digital on», ammettendo che l’innovazione è ancora una variabile poco conosciuta in Italia. Niente autocritica però. E nessuna slide sui profitti, inclusi quelli delle quotazioni in Borsa delle aziende editoriali.

L’Unità 17.04.13

"Anti-euro divisi dai nazionalismi", di Paolo Soldini

Boom è una piccola città del Belgio a metà strada tra Bruxelles e Anversa ed è considerata una roccaforte del Vlaams Belang, il partito indipendentista fiammingo erede del Vlaams Blok. Partito, quest’ultimo, che nel 2004 si sciolse dopo che un tribunale aveva incriminato i suoi leader per razzismo. Marion Maréchal-Le Pen è una giovane parlamentare del Front National francese e, come si intuisce dal nome, ha parentele impegnative: nipote del fondatore del movimento Jean-Marie (suo nonno) e di Marine Le Pen (sua zia).

Il 29 settembre scorso Marion era a Boom, invitata da Philip «Filip» de Winter, capo del Vlaams Belang per portare «agli amici fiamminghi» i saluti del Front e un’offerta di alleanza politica in vista delle elezioni europee. La ragazza, però, non parla il neerlandese e così si rivolse alla platea in francese. Errore clamoroso: quando si sentì apostrofata nell’odiato idioma degli odiati connazionali francofoni, la platea fiamminga esplose in una violenta protesta. «Questa non è dei nostri, è vallona e magari è pure di sinistra, forse proprio comunista»: così i commenti raccolti dagli increduli reporter della Vrt, la televisione belga neerlandofona.

Poi indipendentisti fiamminghi e frontisti francesi hanno fatto la pace. Il Vlaams Belang ha aderito al “gruppone” che Marine Le Pen e il suo sodale olandese Geert Wilders a capo del Pvv (partito per la libertà) stanno mettendo su per unire tutti i nemici dell’euro e i critici-critici dell’Unione europea al parlamento che si eleggerà il 25 maggio, insieme con i partiti populisti antitasse scandinavi, i partitelli ultra-conservatori cechi e polacchi, gli eredi di Jörg Haider in Austria, la Lega nord in Italia e, sempre in Italia, i seguaci della rediviva An dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni nel caso (improbabile) che riescano a superare il 4%. Un fronte ampio, ma minato alla base proprio dal problema che la «visita surreale» (copyright de La Libre Belgique) di Marion Maréchal Le Pen a Boom ha messo clamorosamente in evidenza: i partiti populisti antieuropei sono uniti dal loro Gran Ri- fiuto, ma sono costituzionalmente inadatti a convivere, perché le loro attitudini fondamentali pendono o verso il nazionalismo (che per definizione esclude condivisioni transnazionali) o verso il separatismo o, in qualche caso, verso l’uno e l’altro insieme. Si veda il caso del conclamato flirt tra il Front National e la Lega nord. Dietro l’idillio tra Marine Le Pen e Matteo Salvini si nascondono divergenze di percezione degli interessi che la prima, peraltro, non si sforza neppure di dissimulare. Ambedue sono protezionisti, come se i protezionismi non fossero inevitabilmente conflittuali; ambedue pretendono che l’Europa blocchi l’immigrazione, ma sulla distribuzione degli immigrati già arrivati sono pronti a sbranarsi, come sa bene Roberto Maroni che, da ministro dell’Interno, provò a “scaricare” sulla Francia l’ondata di profughi dalla Tunisia. E si potrebbe continuare. Fino ad immaginare quali giganteschi conflitti si aprirebbero se davvero scomparisse l’euro e si dovessero negoziare i tassi di cambio tra le ritrovate monete nazionali. Un incubo.

Il gruppone euroscettico al Parlamento europeo non potrà essere perciò nulla più che una piattaforma di no. Ciò non significa, ovviamente, che non possa condizionare la politica dei grandi gruppi e funzionare in qualche modo da spalla alle istanze più conservatrici, ma è difficile che possa esprimere una politica propria. Tanto più che non comprenderà tutto l’orizzonte del populismo antieuropeo. Almeno tre forze ne resteranno fuori e al momento non è affatto chiaro come si organizzeranno: gli anti-euro tedeschi di Alternative für Deutsch- land, gli indipendentisti britannici dell’Ukip di Nigel Farage e i Cinquestelle italiani. Con tutte e tre le formazioni Le Pen e Wilders hanno cercato un contatto e hanno ottenuto un rifiuto. La polemica di Beppe Grillo con la leader del Front National è stata esplicita e motivata proprio dal riconoscimento di quella incompatibilità politica sulla quale Madame Le Pen scivola disinvoltamente quando si tratta di altri possibili alleati. Ma davanti ai grillini si apre un problema per niente semplice su come e dove andranno a collocarsi nel parlamento futuro. Incertezza che è null’altro che la riproduzione sul piano istituzionale europeo della non-politica in cui Grillo ha soffocato le istanze di rinnovamento che il suo movimento ha, a suo tempo, espresso. Nel gruppo misto, insieme con partitini di varia natura e prevalentemente di estrema destra eversiva, rischiano di scomparire. L’altra possibilità sarebbe il gruppo euroscettico Edl nel quale hanno militato finora tories britannici, conservatori centroeuropei, leghisti italiani e l’Ukip di Farage. Va detto che da qualche tempo c’è un certo avvicinamento tra il capo dei Cinquestelle e Farage, il quale ha pure scoperto che «questo Grillo in Italia sta sviluppando qualcosa di molto importante». L’«importante», si scopre poi, sarebbe l’intenzione di promuovere un referendum sull’euro che al capo dell’Ukip pare un bel modo di «riprendersi la sovranità nazionale» scippata da «quegli idioti di Bruxelles». L’ex comico contraccambia le cortesie e non esclude convivenze parlamentari. Non pare accorger- si, per ora, che con l’inglese, liberista assatanato e così poco ambientalista da considerare una truffa il riscaldamento globale, c’è, o dovrebbe esserci, la stessa incompatibilità che c’è con la francese.

L’Unità 17.04.14

I segreti di Ostia Antica “Era più grande di Pompei”, di Sara Grattoggi

Così grande da doppiare Pompei. Nessuno fino a ieri lo aveva immaginato, ma Ostia Antica era ben più estesa di quanto si credesse. E proseguiva oltre il Tevere con un quartiere circondato da possenti mura fortificate, a proteggere i grandi magazzini per le merci e un edificio con un doppio colonnato, ancora misterioso. A scoprire l’altra metà “segreta” di Ostia Antica nel sottosuolo dell’Isola Sacra, a pochi chilometri dall’aeroporto di Fiumicino, sono stati gli archeologi guidati da Paola Germoni e Angelo Pellegrino per la Soprintendenza archeologica di Roma, Simon Keay per l’Università di Southampton e la British School at Rome e Martin Millett dell’Università di Cambridge. Grazie alle indagini condotte con un magnetometro, in grado di rivelare senza scavare la presenza di strutture sepolte, hanno scoperto un quartiere commerciale, finora sconosciuto, con 70mila metri quadri di strutture, fra grandi magazzini e un imponente edificio porticato ancora da interpretare.
Nel 2007 gli archeologi della Soprintendenza e delle università inglesi, che collaborano da 10 anni, avevano iniziato le indagini geofisiche su quella lingua di terra, dove oggi si alternano campi, capannoni, qualche casa e numerosi abusi edilizi. Cercavano l’hinterland di Portus, l’antico insediamento marittimo cresciuto intorno ai porti di Claudio e Traiano, a nord di Ostia. La scoperta delle mura, forse il prolungamento di quelle costruite da Cicerone e Clodio fra il 63 e il 58 a.C. per proteggere la città, ha portato però al risultato inaspettato.
«Eccezionale — lo definisce la soprintendente, Mariarosaria Barbera — perché fino a oggi si credeva che il Tevere chiudesse Ostia Antica a nord».
Invece, oltre il fiume, la città continuava: «Abbiamo individuato almeno quattro grandi complessi sottoterra. Non possiamo datarli con certezza, ma pensiamo possano essere di età imperiale» racconta Keay. «Tre di questi erano magazzini usati per lo stoccaggio delle merci, come rivelano le loro piante, con molte celle, simili a quelle dei Grandi Horrea di Ostia. Il quarto, invece, è ancora “misterioso”». Si tratta di un grande edificio porticato «con una pianta atipica, che non permette di definirne la funzione ». «Potrebbe trattarsi di un altro tipo di magazzino, di un deposito per le navi o, forse, di una residenza monumentale» ipotizza Keay. Mentre Germoni non esclude che potesse trattarsi di «un edificio con funzioni pubbliche ». A rivelarlo, saranno le prossime indagini: «Abbiamo già un piano per il 2015 — spiega Germoni — Non faremo scavi estensivi perché non ce li possiamo più
permettere, ma li faremo mirati, con una sorta di “microchirurgia archeologica”». Ma soprattutto, sottolinea l’archeologa, «faremo in modo che l’area venga tutelata con un vincolo archeologico più stringente di quello in vigore dal ‘62, in un’area che fino alla fine degli anni ‘90 è stata la prima in Italia per abusivismo edilizio».

La Repubblica 17.04.14