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Max&Co, Ghizzoni “Chiusure che penalizzano le lavoratrici donne”

L’on Ghizzoni ha presentato una interrogazione con l’on Baruffi della Commissione Lavoro. Prendendo spunto dal caso carpigiano, la parlamentare Pd Manuela Ghizzoni ha deciso di portare sul tavolo del ministro del Lavoro Poletti il progressivo ridimensionamento dei negozi Max&Co, del gruppo Max Mara, che, negli ultimi due anni, ha portato al licenziamento di una sessantina di addette alle vendite. “Questi licenziamenti sono avvenuti nella disattenzione generale – spiega l’on. Ghizzoni – Da un gruppo così affermato nel mondo ci si sarebbe aspettati almeno un tentativo di più efficace difesa del marchio e, di conseguenza, del personale occupato”.

L’ultimo a chiudere, in ordine di tempo, in maniera improvvisa è stato il punto vendita in centro a Carpi, ma il ridimensionamento del numero dei negozi di abbigliamento del monomarca Max&Co è un fenomeno molto più esteso che sta, però, passando nella disattenzione generale: a lanciare l’allarme è proprio la deputata carpigiana del Pd Manuela Ghizzoni che, con una interrogazione firmata anche dal collega Davide Baruffi, componente della Commissione Lavoro, ha posto il tema all’attenzione del ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Nel 2011 i negozi Max&Co, che fanno capo al Max Mara Fashion Group, distribuiti sul territorio nazionale, erano 55. Dal 2012 sono iniziate le chiusure: ad oggi risultano essere state almeno 16, a cui potrebbero aggiungersene a breve altre 3. La conseguenza è stata il licenziamento, tra l’altro spesso effettuato in deroga alle norme sul preavviso, di circa una sessantina di addette alle vendite. “Questi licenziamenti – spiega Manuela Ghizzoni – sono avvenuti per lo più nel silenzio e nella disattenzione generali, nonostante la crudezza delle cifre: da una parte perché i punti vendita sono distribuiti su tutto il territorio nazionale e quindi non vengono percepiti come appartenenti allo stesso gruppo industriale e, dall’altra, forse perché in un periodo di crisi e di contrazione dei consumi come quello attuale, si tende ad accettare come ineludibile la chiusura di un esercizio commerciale, laddove desterebbe sconcerto e preoccupazione la cessazione dell’attività di un’azienda con lo stesso numero di addetti”. Ad aggravare ulteriormente la situazione pesa il fatto che tutti i licenziamenti riguardano personale femminile che, come ribadiscono tutte le ultime ricerche, è tra le categorie più penalizzate sul mercato del lavoro italiano. “Da un gruppo così affermato nel mondo – considera Manuela Ghizzoni – ci si sarebbe aspettati almeno un tentativo di più efficace difesa del marchio e, di conseguenza, del personale occupato. E’ vero che nella fascia dell’abbigliamento giovane la concorrenza è molto agguerrita, ma qui siamo di fronte a un nome conosciuto nel mondo. La strada da percorrere era forse quella della innovazione del prodotto e dell’offerta per intercettare una domanda che è al contempo massiccia nei numeri, ma debole sul fronte della capacità di spesa. Le chiusure e i licenziamenti non possono che rappresentare l’ultimissima opzione”. E’ per questo insieme di ragioni che la parlamentare modenese del Pd chiede al ministro Poletti “se sia a conoscenza della situazione dei punti vendita del monomarca Max&Co e come intenda attivarsi per tutelare le lavoratrici coinvolte”

"Bellaria, la destra rimuove la Resistenza", di Onide Donati

Bello? Brutto? La disputa sulla «Gabbia dei sassi», grande e da sempre discusso monumento alla Resistenza, è stata superata. Ci hanno pensato una pala, una sega da ferro, un flessibile e qualche altro attrezzo a risolvere la disputa trentacinquennale sull’opera che il maestro Luigi Poiaghi aveva realizzato davanti al municipio di Bellaria-Igea Marina. La destra al potere è andata alla radice del caso distruggendo il problema, ammesso che di problema si trattasse. L’ha fatto nottetempo, a dieci giorni dal 25 Aprile, con la rimozione della installazione.
«Gabbia dei sassi» è il nome attribuito a furor di popolo ad un monumento molto particolare, per dimensioni e stile, che nel 1978 vinse un concorso nazionale. L’identità vera è «Passatopresente» e, nella catalogazione che ne ha dato l’Istituto per i Beni Culturali dell’Emilia-Romagna è costituita da «una figura simbolica» in pietra, cemento e ferro per esaltare i valori «della lotta e dei sacrifici sostenuti per l’Indipendenza e la Liberazione del nostro Paese». In pratica, sopra un basamento bianco di 50 metri quadrati vi era posta una imponente gabbia contenente grossi massi di fiume. Il basamento aveva impresso orme di piedi e la scritta «Parliamo di uomini e in questo senso parliamo di eroi». Lo stesso IBC descrive il monumento come «opera dura, forte, tutta maturata nelle esperienze concettuali milanesi; da considerare, in questo artista più predisposto ad una ricerca poetica, un gesto di radicale adesione ad una militanza dell’arte, che i tempi invocavano. Opera che trovò presso il pubblico romagnolo non poche difficoltà di lettura».
Di quello strano monumento ora è rimasta solo la base: nel progetto di «rivisitazione» dell’area che sta davanti al Comune su di essa poggeranno tante bandiere a corredo di una scenografia di più facile impatto, in linea con le luci colorate stile Las Vegas messe un po’ ovunque in centro. Già, perché come ha scritto con una mail il sindaco Ceccarelli allo stesso Poiaghi 48 ore prima che la ruspa si mettesse in moto, quell’opera proprio non veniva capita dai cittadini. E poi era arrugginita, sporca, e dava un senso di tristezza. Poiaghi, che dopo la realizzazione del monumento si era affermato come artista importante, aveva rilanciato: «Capisco i problemi e mi rendo disponibile a ragionare per un recupero della struttura ed anche per una sua più facile interpretazione». Che poi l’interpretazione non era per nulla misteriosa, come ricorda l’Anpi locale: «La gabbia metallica che premeva, al suo interno, le pietre evocava l’opposizione tra due forze, ossia la costrizione subita e la tensione sempre inappagata verso la libertà, così come le impronte dei passi rimandano al cammino incessante che deve compiere l’uomo verso la liberazione da ogni forma di oppressione».
Tutto inutile: alla destra bellariese interessava portare a casa il risultato e lanciare la sua provocazione prima del 25 aprile e a poco più di un mese dalle elezioni. E se un anno fa il sindaco di Cesenatico (l’altro primo cittadino del- la destra balneare «dura») aveva dovuto arrendersi alle proteste e rinunciare all’esposizione del busto di Mussolini in Comune, quello di Bellaria-Igea Marina ha tirato dritto tra il tripudio dei suoi e la sponda offertagli dal Resto del Carlino che ha indicato una sprezzante destinazione per i massi: usiamoli per ricaricare le scogliere davanti alla spiaggia.
Ora che i «nuovi barbari» – come li ha definiti il candidato sindaco della lista Bene Comune, Alessandro Zavatta – hanno completato il lavoro sporco, quella parte di società civile che ha vissuto come una ferita la distruzione di un simbolo della Resistenza si interroga su cosa fare. A chi gli ha espresso solidarietà, l’artista ha risposto con po- che e semplici parole: «Ho cercato inutilmente di contrapporre la ragione al- le ruspe. Forse quella scultura non a caso è “Passatopresente”. Resistiamo. Portiamo lì nostri fiori il 25 Aprile». Ed è quel che l’Anpi e i partiti di sinistra sono intenzionati a fare.

L’Unità 18.04.14

"Perché la lotta alla burocrazia", di Michele Ciliberto

Con le sue recenti dichiarazioni il presidente del Consiglio ha riaperto con toni molto forti il problema della burocrazia, preannunciando, in questo campo, una lotta «violenta». Ha fatto bene a farlo, anche se è possibile non condividere i suoi toni, perché si tratta di un problema centrale per la nostra democrazia da molti punti di vista. Anzitutto esso riguarda i rapporti tra politica e amministrazione: se la burocrazia prevale, vuol dire che la democrazia è in una situazione di crisi. E che la politica non è più in grado di svolgere il suo compito specifico, che è quello di dirigere la Nazione, non di svolgere una funzione subalterna. Un problema che ha sollecitato a più riprese l’attenzione dei teorici della politica e della democrazia. Max Weber, un pensatore che si è interrogato con acutezza e profondità sui destini della democrazia nel mondo contemporaneo, ha individuato nel prevalere della burocrazia uno degli elementi di fondo della crisi della Germania bismarckiana. Già prima di lui, un grande storico come Theodor Mommsen, nel suo Testamento, si era espresso in termini durissimi contro la germania bismarckiana e guglielmina che non gli aveva consentito di essere, come avrebbe voluto, un animal politicum. Il problema è dunque grave, se è diventato da tempo materia di riflessione da parte dei classici, perché, al fondo, concerne la funzione – l’autonomia – della politica come «potenza» in grado di assumersi la responsabilità di dirigere una Nazione, e di riuscire effettivamente a farlo. Da questo punto di vista non sorprende che il presidente del Consiglio attuale abbia posto con tale durezza il problema perché il tratto più specifico della sua «presa del potere» è rappresentato dalla riaffermazione – del resto esplicitamente dichiarata – del primato della politica, con una liquidazione definitiva della stagione dei «tecnici», cioè la delega del potere alla burocrazia, alla amministrazione. Programma, e obiettivo, che non si può non condividere.
Ma se questo accade, vuol dire che c’è stato, oppure è ancora in atto, una crisi della politica e, quindi, della democrazia. L’amministrazione, la burocrazia riempiono il vuoto che si apre quando la politica non è più in grado di svolgere il suo compito, ed è ridotta a una funzione caudataria, subalterna. Condurre una lotta «violenta» contro la burocrazia si intreccia, anzi si identifica quindi con un lavoro di ricostruzione della politica e di conseguenza, della democrazia. E questo in Italia significa fare i conti fino in fondo con il ventennio berlusconiano che, sul piano storico, coincide, morfologicamente, con un progressivo svuotamento della politica, sia a destra che a sinistra, e con l’affermazione di poteri «burocratici» che, senza alcun controllo politico o parlamentare, hanno feudalizzato lo Stato generando un ceto di nuovi mandarini refrattari ad ogni regola e pronti addirittura a diventare minacciosi, se i loro privilegi vengono messi in discussione.
La questione aperta dal presidente del Consiglio è dunque di prima grandezza coincidendo, senza mezzi termini, con la questione democratica. Ma non può essere risolta limitandosi a liquidare il ceto dei boiardi berlusconiani o affidando ad alcune donne la presidenza di enti prestigiosi.
Certo, sono segnali importanti anzitutto sul piano simbolico, specie in una fase elettorale come questa, alla quale il premier affida un rilievo essenziale anche per la sorte del suo governo, fino al punto di entrare in tensione con l’Europa sulla questione del pareggio del bilancio. E sono scelte rilevanti anche per la dislocazione dei poteri negli enti pubblici – e nella Nazione – che esse comportano.
Ma sono segnali e scelte che rimangano alla superficie, se non affrontano, alle radici, il problema nel nostro Paese della funzione della politica e della crisi della democrazia rappresentativa. Se questo non viene fatto, o si fanno scelte strategiche sbagliate, il potere della burocrazia resta intatto e si ripropone in forme diverse dal passato, ma altrettanto forte e tenaci.
Cerco di spiegarmi. Il presidente del Consiglio si sta impegnando al massimo nella campagna elettorale europea per un motivo assai chiaro. Vuole essere leader della Nazione, non solo segretario del Pd, e vuole per questo avere una investitura popolare: quella che, presumibilmente avrebbe avuto se si fosse andati alle elezioni politiche anticipate. Per molti motivi, non ha potuto farlo e ha dovuto bruciare le tappe liquidando il governo di Enrico Letta in stato, peraltro, comatoso. Si capisce questa esigenza. Sbaglierebbe però a mio giudizio, se «traducesse » questa esigenza nei termini della democrazia diretta e interpretasse – come è avvenuto con le primarie – un voto a lui favorevole come una investitura del popolo alla sua persona e alla sua politica, con una conseguente subordinazione al potere esecutivo degli altri poterti repubblicani. Insomma, sbaglierebbe se pensasse di risolvere la crisi, e a fondare il suo potere, in termini (per capirsi) di carismaticitá. Non è questa, a mio giudizio, la strada per uscire dalla crisi della sovranità moderna e della democrazia rappresentativa e per contrastare il dominio della burocrazia.
Come ci è stato spiegato molto tempo fa, il potere carismatico, imperniato sul rapporto diretto tra leader e popolo, finisce appena «perde quella base puramente personale e quel carattere di fede nettamente emozionale che lo distingue dal vincolo alla tradizione della vita quotidiana ». È forte e, al tempo stesso, precario; a differenza della burocrazia che è invece solida, imperniata sul principio della carriera e dell’avanzamento, compreso quello dello stipendio; ed è sempre pronta a riaffermare il suo inesauribile potere quando il leader cade e si spezza il suo rapporto con il popolo.
Il premier fa dunque bene, ne sono persuaso, a inaugurare una lotta «violenta» contro la burocrazia: è una questione vitale per la nostra democrazia. A patto di inserirla in un programma organico di riaffermazione del primato della politica e di radicale riforma della nostra democrazia rappresentativa. Un programma impegnativo, mene rendo conto. Ma come dicevano i latini, hic Rodhus, hic salta.

L’Unità 18.04.14

"Euroscettici dichiarati e latenti provano a dare l'impronta alla campagna", di Stefano Folli

Dai «no euro» a Grillo fino alle diffidenze di Forza Italia. Liste nel complesso deboli. Se si deve giudicare dalle liste elettorali, non c’è da farsi molte illusioni sul voto europeo. Candidature deboli, nessun nome o quasi di vero richiamo, pochi esponenti della fatidica «società civile». E questo riguarda le liste di tutti i maggiori partiti. A cominciare da Forza Italia, in primo luogo, che deve affidarsi ancora una volta alla presenza scenica di un Berlusconi che ha riconquistato nonostante tutto il diritto di fare quello che sa fare meglio: le campagne elettorali (anche da non-candidato).
Il Partito Democratico non sta molto meglio, al di là della trovata pirotecnica delle cinque donne capilista. Il destino è affidato totalmente alle notevoli capacità di “marketing” politico messe in mostra da Renzi: nei fatti sarà lui, il presidente del Consiglio, il vincitore o lo sconfitto di queste elezioni a cui ha dato la sua impronta, misurando su se stesso l’intera posta in gioco. Gli altri, chi più chi meno, presentano ingigantiti gli stessi difetti dei due partiti maggiori. Il Nuovo centro-destra di Alfano, ad esempio, insegue il sogno di strappare una fetta di elettorato a Berlusconi, ma invece di combattere una battaglia d’opinione a viso aperto preferisce affidarsi specie nel Sud ai «signori del voto», come il calabrese Scopelliti condannato in primo grado a sei anni per abuso d’ufficio e falso.
Si dirà che anche le liste antagoniste, dai Cinque Stelle alla Lega, non brillano per il fascino e le competenze dei candidati. Tuttavia c’è una differenza di rilievo: loro non ne hanno bisogno, a differenza del circuito centrodestra-centrosinistra. Sia il partito di Grillo sia il Carroccio spostato a destra da Salvini cavalcano l’argomento più solido e più pericoloso di queste elezioni, l’euroscetticismo. O magari il rifiuto netto e demagogico della moneta unica.
Sul piano elettorale sono temi d’impatto, ci sono pochi dubbi. Non a caso l’ultimo sondaggio di Demopolis segnala che la fiducia nell’Europa non è mai stata così bassa nell’elettorato italiano. E ben il 34 per cento, una minoranza assai consistente, sarebbe per l’abbandono dell’euro e il ritorno alla lira. Chi ha impostato la campagna elettorale con l’idea di dar voce a tale tipo di malessere verso l’Europa, corre in discesa: quale che sia l’esito finale di questa scelta politica, il raccolto elettorale immediato si annuncia tutt’altro che scarso.
Questa in effetti è la stagione dell’euroscetticismo. E può darsi che le ricette di Renzi non abbiano il tempo di attecchire, convincendo gli elettori. Le riforme prima bisogna farle, senza cercare scorciatoie. E poi è necessario attendere che esse cambino la vita degli italiani. Solo a quel punto si trasformano in solido consenso elettorale. Per ora siamo ancora nella fase dell’annuncio. Idem per il taglio dell’Irpef. Al netto del vaglio europeo, comunque indispensabile, resta il fatto che gli 80 euro sono, sì, un’idea per ricompattare l’elettorato e magari favorire un po’ di domanda interna, cioè di consumi. Il guaio è che anche qui ci vogliono tempi medio-lunghi. In altri termini, è chiaro che il voto europeo suscita parecchie incognite nei partiti, chiamiamoli così, dell'”establishment”. Ed è un terreno di scorribanda per le opposizioni, tutte a caccia di quel 34 per cento anti-euro. Con Berlusconi che sta già remando per allontanarsi dalla sponda europea e andare a ingrossare le file degli scettici. La partita è cominciata e si annuncia assai intricata.

Il Sole 24 Ore 18.04.14

Caserta, la Reggia era di Cosentino “Le chiavi in tasca per fare jogging”, di Dario Del Porto

Alla Reggia di Caserta Nicola Cosentino si muoveva come a casa sua. Poteva andare a correre nel parco senza preoccuparsi di guardare l’orologio perché, del monumento Vanvitelliano famoso in tutto il mondo, aveva addirittura le chiavi, gentile omaggio del prefetto. Le hanno trovate i carabinieri durante la perquisizione del 3 aprile, giorno dell’arresto dell’ex coordinatore del Pdl indagato per estorsione nell’inchiesta sulle presunte pressioni denunciate da un imprenditore dei carburanti concorrente delle aziende di famiglia.
La busta era sulla scrivania dell’ufficio, all’interno di un portaoggetti. Mittente, “il prefetto di Caserta”. Destinatario, “Illustrissimo onorevole dottor Nicola Cosentino, sottosegretario di Stato Economia e Finanze”. All’interno, tre chiavi, ciascuna con un’etichetta: “Cancello lato Reggia”, “Lucchetto cancello alloggio” e “chiave cancello garage”. Nella busta c’era anche un biglietto intestato al prefetto Ezio Monaco (estraneo all’indagine), che è stato a Caserta dal 2008 al
2012. In calce, la scritta “Affettuosamente, Ezio”. I carabinieri avevano ipotizzato che le chiavi servissero per accedere ai locali della prefettura. All’udienza di Riesame celebrata mercoledì, la difesa ha replicato spiegando che le chiavi erano state date a Cosentino per evitare che l’allora sottosegretario restasse chiuso all’interno dell’edificio quando si attardava a correre nel parco.
Ieri il Riesame ha confermato l’ordinanza chiesta dai pm Antonello Ardituro, Francesco Curcio e Fabrizio Vanorio. Cosentino dunque resta in cella, mentre le indagini vanno avanti. Secondo gli inquirenti Cosentino è ancora potente e continua «a tessere le trame della politica regionale». La Procura ha depositato altra documentazione raccolta dai carabinieri di Caserta diretti dal colonnello Giancarlo Scafuri. Durante la perquisizione è stata rinvenuta, oltre ad appunti di persone verosimilmente in cerca di raccomandazioni, una lettera manoscritta attribuita al sindaco di Caserta, Pio Del Gaudio (non indagato) che si riferisce a vicende politiche e si chiude così: «Sono tuo amico, mi hai fatto diventare sindaco, sono legato a te. Sarò sempre un tuo riferimento». Depositate anche nuove intercettazioni. Il 30 gennaio Cosentino parla con Denis Verdini, il colloquio però è interamente omissato. A febbraio contatta l’assessore
regionale forzista alle Attività Produttive Fulvio Martusciello. Secondo gli inquirenti, Cosentino si muove per sbloccare la pratica, che stava a cuore al fratello Giovanni, sul collaudo di un distributore di metano e gpl. L’as-
sessore (che, come Verdini, non è indagato) nega però questa ricostruzione.
Intanto gli avvocati di Cosentino, Stefano Montone e Agostino De Caro, preparano ricorso in Cassazione. E affermano: «Rimaniamo
convinti della estrema fumosità del quadro indiziario. La nostra perplessità aumenta sul fronte della valutazione cautelare: si manda in carcere nel 2014 per fatti del 2000. Non solo: i giudici — grazie proprio ai tabulati
acquisiti dalla procura — avevano la prova provata che gli arresti domiciliari fossero adeguati visto che Cosentino non ha avuto alcun contatto con alcuno durante gli arresti domiciliari. Appronteremo ogni misura difensiva per
consentire ai magistrati incaricati delle indagini, nei quali abbiamo fiducia, di verificare e correggere essi stessi rapidamente l’errore nel quale — con la complicità del pregiudizio — sono incorsi».

"Lo scambio che chiediamo all’Europa", di Stefano Lepri

A una legge che era stata definita indispensabile per salvare l’Italia ora si fa una deroga. Il cliché della sciatteria nazionale incombe; in Germania qualcuno già strilla. Ma il rinvio del pareggio di bilancio approvato ieri in Senato è una faccenda complessa, da considerare a mente fredda. Innanzitutto, è di misura modesta; per il 2014, equivale a circa 5 miliardi di euro.
Il governo Renzi ha chiesto alle Camere di autorizzare una trasgressione lieve alle regole europee (il calendario di risanamento strutturale del bilancio), dopo aver scartato la trasgressione grave (il limite del 3% al deficit). Ci sono buone speranze che la Commissione europea non lo sanzioni; l’altra scelta, oltre a una punizione severa, rischiava rapidi effetti di sfiducia nell’Italia.

Ugualmente il nuovo governo francese, dopo essersi baloccato con l’idea dei «pugni sul tavolo», accantona la trasgressione grave. Perfino il ministro Arnaud Montebourg, capo dell’ala massimalista, ora dichiara che la Francia rispetterà senz’altro i suoi impegni. C’è una scelta simile tra Parigi e Roma, cercare qualche spazio in più evitando lo scontro con Berlino.

Occorre tornare in breve all’inizio, per chiarire. Nel panico della crisi dell’euro, due anni fa, il nostro precedente Parlamento approvò (anche con i voti di chi ora si defila, Forza Italia da una parte, la minoranza Pd dall’altra) una modifica della Costituzione indicata per brevità come «pareggio di bilancio».

In realtà il nuovo testo della Carta dice «equilibrio», concetto più vago di «pareggio». Che significa? La legge applicativa, approvata sempre dalla maggioranza Monti nel dicembre 2012, chiarisce che l’«equilibrio» consiste nel rispettare le regole fissate in sede europea. Queste, già allentate dal 2012 ad oggi, imponevano tappe per arrivare a un «pareggio strutturale» nel 2015.

Il «pareggio strutturale» non è un dato ufficiale della contabilità: risulta da calcoli alla portata di pochi tecnici. Per spostare il traguardo al 2016 ora, con la nuova normativa costituzionale, non bastano i soliti negoziati tra Commissione europea e governi. Occorre prima un voto del Parlamento. Già era in traiettoria per chiederlo, se fosse durato, il governo Letta.

Matteo Renzi e Piercarlo Padoan hanno chiesto la deroga in nome di una manovra più ampia: gli sgravi fiscali subito, maggiori tagli di spesa, in seguito riforme strutturali importanti. Al di là dei loro programmi, le regole europee stabilite nella fase acuta della crisi presentano problemi obiettivi di applicazione, per molti Paesi.

Non si tratta della bufala dei 50 miliardi di euro di nuovi tagli che il «Fiscal Compact» imporrebbe all’Italia ogni anno. L’ha ripetuta ieri Silvio Berlusconi, ci crede anche qualcuno nella maggioranza. Ma non ha fondamento; il Tesoro calcola che la regola sarà rispettata se si riusciranno a fare 11 miliardi di privatizzazioni all’anno in 3 anni (obiettivo ambizioso, non irraggiungibile).

Tuttavia quella regola – la regola del debito – era stata concepita con l’aritmetica di un tasso di inflazione al 2%, obiettivo della Bce. Poiché l’inflazione si prospetta più bassa almeno per un paio d’anni a venire, risulta più gravosa di quanto progettato; anche negli uffici della Commissione se ne stanno accorgendo. Un aggiustamento prima o poi si imporrà.

La diversa regola a cui Renzi intende derogare è protetta da procedure sanzionatorie meno rigide. In sé, il discorso fila: «Risanare i conti subito sarebbe troppo pesante per una economia che non cresce: dateci più tempo per fare riforme che la dinamizzino». Ma le riforme occorre farle davvero. E forse è sensato quel che si dice nella City di Londra: se non cominciano entro giugno vuol dire che non si fanno più.

La Stampa 18.04.14

"Evaso 1 euro ogni 4 pagati sottratti 120 miliardi all’anno peggio di noi solo la Grecia", di Federico Fubini e Roberto Mania

In tre decenni la sua forza di fuoco in termini finanziari è quasi triplicata. Oggi l’evasione vale circa l’8 per cento del Pil, rispetto a un livello inferiore al 4 per cento dei Paesi europei più efficienti e capaci di conciliare crescita, conti in ordine e equità.
Secondo la maggior parte delle stime, peggio dell’Italia fa solo la Grecia. Ma non c’è alcun dato certo perché nessun governo ha mai osato una stima pubblica e ufficiale della massa di risorse sottratte al fisco, o meglio delle tasse scaricate sui contribuenti onesti o incapaci di sottrarsi da quelli che invece sono capacissimi di farlo. Per quanto incredibile possa sembrare, questo Paese colpito e affondato dall’evasione non ha mai fatto lo sforzo di misurarla e poi informarne i cittadini. «Non esistono stime ufficiali», ha spiegato di recente ai membri della Commissione Finanze del Senato il generale della Guardia di Finanza Saverio Capolupo, augurandosi che presto si arrivi a formularla. Non dev’essere impossibile, dato che per esempio ogni anno in Gran Bretagna il governo calcola con precisione (e pubblica) la sua stima. Qui, niente. In realtà la cosiddetta delega per la riforma fiscale appena approvata in parlamento prevederebbe che si cominci a farlo, ma per attuarla servirà almeno un anno. Per ora si
sa solo che l’Agenzia delle entrate ha stimato un «tax gap» (mancato gettito da evasione) intorno agli 80 miliardi, tenendo conto di Irpef, Ires, Irap e Iva. Ma non dell’evasione contributiva e di quella relativa alle imposte locali.
Un’elaborazione sui dati forniti da Banca d’Italia e dall’Istat permette comunque di fissare fra i 100 e i 120 miliardi di euro il volume delle risorse sottratte grazie alle più svariate forme di evasione e elusione illegale. Per intendersi, è una somma superiore al costo degli interessi sul debito pubblico, al monte retribuzioni lorde dell’intero personale dello Stato centrale, e pari a tre volte il bilancio dell’istruzione in Italia.
Alla commissione Finanze del Senato, di recente Salvatore Chiri e Paolo Sestito della Banca d’Italia hanno ricordato che il gettito evaso dell’Irap, l’imposta regionale sulle imprese, è quasi un quinto di tutto ciò che dovrebbe essere pagato. Per l’Iva, il prelievo sui consumi, l’Agenzia delle Entrate stima l’evasione al 28%. E dell’Irpef, l’imposta sui redditi personali che nel 2013 da sola ha portato 157 miliardi all’erario, sparisce circa il 14%. Visto il gettito di queste voci, significa che ogni anno mancano all’appello (almeno) 5 miliardi di Irap, circa 40 miliardi di Iva e altri venti o 25 di Irpef. Fino a settanta miliardi di tasse evase su tre sole voci che pesano circa due terzi del totale delle entrate tributarie dello Stato. Nel complesso, è dunque molto probabile che l’evasione sottragga almeno cento miliardi l’anno.
Poiché le entrate fiscali nel 2013 sono state di 426 miliardi, di fatto ogni quattro euro regolarmente pagati in tasse dagli italiani uno è illegalmente sottratto.
La situazione è tale che anche la Guardia di Finanza chiede ormai al governo interventi precisi. Quello più delicato è la revoca delle scelte compiute da Silvio Berlusconi più di dieci anni fa: è ora di fare (di nuovo) del falso in bilancio un reato penale, qualcosa per cui si può andare in prigione, in modo da dissuadere un’infinità di piccole frodi sull’Iva. Ha ricordato il generale Capolupo nella sua audizione in Senato: «Se le misure cautelari amministrative si sono rivelate finora poco efficaci, gli strumenti offerti dalla legislazione penale invece ci hanno permesso di arrivare a risultati importanti ». Le Fiamme Gialle chiedono poi al governo anche di scoraggiare ulteriormente l’uso del denaro contante, ben oltre il tetto a mille euro.
Resta da vedere se questa maggioranza sarà pronta a recepire il messaggio di chi combatte l’evasione in prima linea o prenderà una strada diversa. Nell’ultimo Documento di economia e finanza la lotta all’evasione fiscale compare, ma legata all’attuazione delle delega fiscale in tempi non immediati. Non c’è alcuna enfasi e l’intero tema dell’evasione fiscale appare scolorito nell’agenda della politica. L’approccio rispetto ai precedenti governi a maggioranza di centro sinistra è diverso, come spiega il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti: «Questo governo non intende usare la lotta all’evasione fiscale come scusa per evitare la spending review», dice il sottosegretario di Scelta Civica. «Pensiamo anche che i blitz anti-evasori, tipo quello di Cortina, possano essere utili purché scompaia quella deleteria spettacolarizzazione. È come se l’Agenzia delle Entrate pensasse ad operazioni di marketing anziché al risultato, come dovrebbe fare un’istituzione», è la sua accusa.
Non che l’Agenzia delle Entrate non abbia avuto dei successi negli ultimi anni. Gli incassi derivati da quella che definisce l’»attività di controllo» sono progressivamente saliti da 2,1 miliardi di euro del 2004 fino a 13,1 miliardi del 2013. Ma non tutti sono convinti che si stia facendo tutto il possibile. «La verità è che dopo l’ultimo governo Prodi non si è più seguita una linea di controllo dell’evasione », sostiene l’ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, oggi tornato all’insegnamento universitario. Con il suo centro di ricerca Nens, Visco sta preparando un rapporto analitico sull’evasione con alcune proposte per combatterla. Peraltro anche l’ex ministro è critico sui metodi seguiti di recente. «C’è stato un blocco della lotta contro l’evasione, compensato con i blitz modello Cortina, che non danno risultati — dice — . Invece, andrebbe ripresa con una strategia di medio-lungo periodo agendo su più leve: modifiche alle leggi, incrocio delle informazioni e delle banche dati, rapporto preventivo con i contribuenti».
Nel frattempo l’evasione fiscale continua ad agire sulla società come una sostanza tossica che ne erode i connotati. Basta dare un’occhiata al confronto europeo per capire fino a che punto l’evasione stia producendo disoccupa-
ti in questo Paese. L’Italia è ai vertici, seconda nell’Unione europea a 28 Paesi dopo il Belgio, per il peso del fisco sul costo del lavoro: oltre il 30. Dunque le imprese fanno meno assunzioni e quando si possono si liberano del personale. Per un motivo, fra gli altri, si cui sono responsabili esse stesse: evadono l’Iva, dunque lo Stato tiene alte altre imposte, soprattutto sul lavoro. L’Italia è infatti fra le ultime (dopo Spagna e Irlanda) per gettito Iva nella Ue. E il perno dell’evasione è qui: circa 36 dei 100-120 miliardi di evasione. Questa è la tassa più evasa, anche per la diffusione del lavoro autonomo con oltre 5 milioni di partite Iva. «Sottrarsi a questa imposta consente di occultare base imponibile per il pagamento di altri tributi», sostiene la Banca d’Italia. Chi evade su determinate operazioni non si può che farlo, a cascata, sul reddito frutto di quelle operazioni. Nel 2013 la Guardia di Finanza ha accertato 4,9 miliardi di euro di Iva non pagata, di cui 2 miliardi riconducibili alle cosiddette “frodi carosello” basate su fittizie transazioni commerciali con l’estero. Un caso scoperto a Taranto all’inizio di quest’anno dalle Fiamme Gialle: tre società servivano formalmente ad acquistare automobili e ad emettere fatture fittizie ai reali venditori. Questi hanno dedotto l’Iva sulle fatture emesse dalle società fittizie ottenendo un vantaggio che ha permesso di rivendere le vetture ad un prezzo impraticabile per i concessionari corretti. Era un giro di 16,5 milioni di fatture false per oltre tre milioni di Iva evasa. Un caso tipico di un popolo di santi, poeti e inventori delle più innovative tecniche di evasione con cui l’Italia finirà per affondarsi da sola.

La Repubblica 18.04.14