Latest Posts
"Morta neonata: deputate Pd, possibile parto in anonimato, tutela per tutti" – comunicato stampa 24.11.14
Abbiamo letto con grandissimo dolore quanto accaduto oggi alla neonata abbandonata a Palermo, poche ore di vita con il pianto sempre più flebile, un destino tragico inaccettabile nel nostro paese. Vogliamo ribadire con forza che esiste in Italia la possibilità del parto in anonimato in ogni ospedale e che in molte parti del nostro territorio le amministrazioni locali hanno rafforzato questa tutela con servizi a garanzia della madre e del nascituro. Queste sono informazioni essenziali che devono essere note a tutti e a tutte anche con campagne informative che possano raggiungere chi vive in condizioni di particolare disagio, che richiedono anche un sostegno specifico da definire con un piano di contrasto alla povertà estrema. Ci sentiamo pienamente impegnate ad assicurare l’esercizio effettivo dei diritti e delle tutele che le nostre leggi riconoscono per evitare che accadano di nuovo fatti così tragici.
Stella Bianchi, Roberta Agostini, Barbara Pollastrini, Micaela Campana, Silvia Fregolent, Donata Lenzi, Maria Coscia, Anna Rossomando, Caterina Pes, Manuela Ghizzoni, Lorenza Bonaccorsi, Alessia Rotta, Valeria Valente, Sandra Zampa, Valentina Paris, Fabrizia Giuliani, Daniela Gasparini.
"Amami da vivere" , di Roberta Agostini – www.partitodemocratico.it 24.11.14
Il 2013 è stato un anno pesante, come scrive il Rapporto Eures sul femminicidio in Italia: 179 le donne uccise, il 70% in famiglia e il 92,4% per mano di un uomo. Una su sei uccisa dopo la decisione di lasciare il proprio partner. Una su dieci era una collega o una dipendente del suo assassino. Nella metà dei casi sono morte di botte, o strangolate. Maltrattate dal proprio uomo, che spesso avevano denunciato.
Da leggere insieme a questi, i dati della ricerca “Rosa Shocking – Violenza, stereotipi e altre questioni del genere”, presentato alla Camera e realizzato da WeWorld Intervita per ipsos. Per un italiano su tre la violenza domestica sulle donne è un fatto privato, che si risolve in famiglia. Per uno su cinque è accettabile denigrare una donna con uno sfottò a sfondo sessuale. Uno su 10 pensa che se le donne non indossassero abiti provocanti non subirebbero violenza. Uno su 4 è convinto che se una donna resta con il marito che la picchia, diventa lei stessa colpevole.
La violenza contro le donne non è un’emergenza, è prima di tutto un fenomeno che affonda le sue radici nella cultura diffusa e nelle disparità di potere tra uomini e donne. Affrontarla significa mettere in discussione stereotipi e luoghi comuni e promuovere una relazione diversa tra i generi, un modo diverso di concepire i rapporti tra uomini e donne, nella vita pubblica e in quella privata.
La ratifica della Convenzione di Istanbul è stato uno dei primi atti del Parlamento in questa legislatura, a cui è seguita l’approvazione della legge cosiddetta sul femminicidio.
Con la Convenzione di Istanbul, per la prima volta, la violenza sulle donne viene definita come una violazione dei diritti umani fondamentali, si indica la strategia per la prevenzione, l’accoglienza delle donne, la punizione del colpevole. Si fissa l’obiettivo di costruire una rete territoriale attraverso il coinvolgimento di tanti soggetti e la valorizzazione delle politiche migliori.
Ora dobbiamo lavorare con forza per dare attuazione a questi impegni e per monitorare costantemente i problemi aperti e i risultati raggiunti.
Senza questo sforzo politico e culturale la battaglia contro la violenza sulle donne rientrerebbe nei ranghi della categoria dell’emergenza e “dell’ordine pubblico” dalla quale faticosamente si sta tentando di uscire in questi anni grazie al lavoro e all’impegno di tante donne e di alcuni uomini. Se la violenza non è riconducibile semplicemente a devianza o patologia individuale, per contrastarla efficacemente dobbiamo rafforzare quei servizi (ci sono, anche se ancora troppo pochi) che sono anche un po’ dei laboratori sociali, perché provano ad immaginare relazioni diverse ed un modo nuovo di stare insieme per uomini e donne. Bisogna insegnare il valore positivo delle differenze ai bambini e alle bambine, formare insegnanti ed operatori, lavorare affinché anche i media si pongano il tema di una comunicazione rispettosa della dignità delle donne. Le leggi sono necessarie ma non bastano. Bisogna cambiare le teste, educare ai sentimenti. Lavorare dentro e fuori le istituzioni per promuovere una nuova cultura fondata sul rispetto, sulla libertà e sull’autonomia femminile, perché nell’affermazione della libertà e dell’autonomia femminile si aprono spazi di libertà per tutti.
Farlo ora, farlo insieme.
"L’età dell’odio che va fermata", di Aldo Cazzullo – Corriere della Sera 23.11.14
La risposta della politica è debole. L’allarme di Napolitano sugli estremismi interni e sul timore di «lupi solitari» islamici è passato quasi inosservato. Il durissimo scontro tra Renzi e la Cgil non aiuta. Il baratro apertosi a destra è stato riempito da Salvini, che ha schierato la Lega con i nazionalisti francesi.
Sia chiaro: il passato non torna. Ma può insegnarci qualcosa. Il pericolo non viene solo dalle centrali del terrore; anche la violenza diffusa, l’odio manifesto, la crisi morale che ha il suo riflesso quotidiano nel degrado dei rapporti umani possono fare molto male alle nostre vite. La lezione della storia recente è che la violenza non va tollerata; altrimenti si riprodurrà in modo esponenziale. Com’è ovvio, il diritto a manifestare pacificamente non può essere messo in discussione: le prove di forza, di solito esercitate sui deboli, non servono a nulla se non ad alimentare la spirale dell’odio. Si tratta invece di ripristinare la legalità: non è possibile che chi si ritrova la casa «sequestrata» dal racket delle occupazioni non abbia gli strumenti per riprendersela, non è possibile rassegnarsi all’idea che in Italia sia lecito fare qualsiasi cosa senza prendersene la responsabilità. Nello stesso tempo chi partecipa alla vita pubblica dovrebbe tenere i nervi saldi, ristabilire un minimo di rispetto reciproco, e impegnarsi perché il governo italiano e quello europeo mettano in campo una politica sociale, che attenui la sofferenza e crei opportunità per i giovani. Il rogo dell’odio va spento, prima che ci avveleni l’aria e bruci le nuove generazioni.
"I 3,9 miliardi che i migranti danno all’economia italiana", di Gian Antonio Stella – Corriere della Sera 23.11.14l
Eppure quei nostri nonni contribuirono ad arricchire le loro nuove patrie («la patria è là dove si prospera», dice Aristofane) proprio come ricorda Francesco: «I Paesi che accolgono traggono vantaggi dall’impiego di immigrati per le necessità della produzione e del benessere nazionale».
Creano anche un mucchio di problemi? Sì. Portano a volte malattie che da noi erano ormai sconfitte? Sì. Affollano le nostre carceri soprattutto per alcuni tipi di reati? Sì. Vanno ad arroccarsi in fortini etnici facendo esplodere vere e proprie guerre di quartiere? Sì. E questi problemi vanno presi di petto. Con fermezza. C’è dell’altro, però . E non possiamo ignorarlo.
Due rapporti della Fondazione Leone Moressa e Andrea Stuppini, collaboratore de «lavoce.info», spiegano che non solo le imprese create da immigrati sono 497 mila (l’8,2% del totale: a dispetto della crisi) per un valore aggiunto di 85 miliardi di euro, ma che nei calcoli dare-avere chi ci guadagna siamo anche noi. Nel 2012 i contribuenti nati all’estero sono stati poco più di 3,5 milioni e «hanno dichiarato redditi per 44,7 miliardi di euro (mediamente 12.930 euro a persona) su un totale di 800 miliardi di euro, incidendo per il 5,6% sull’intera ricchezza prodotta». L’imposta netta versata «ammonta in media a 2.099 euro, per un totale complessivo pari a 4,9 miliardi». Con disparità enorme: 4.918 euro pro capite di Irpef pagata nel 2013 in provincia di Milano, 1.499 in quella di Ragusa.
A questa voce, però, ne vanno aggiunte altre. Ad esempio l’Iva: «Una recente indagine della Banca d’Italia ha evidenziato come la propensione al consumo delle famiglie straniere (ovvero il rapporto tra consumo e reddito) sia pari al 105,8%: vale a dire che le famiglie straniere tendono a non risparmiare nulla, anzi ad indebitarsi o ad attingere a vecchi risparmi. Ipotizzando che il reddito delle famiglie straniere sia speso in consumi soggetti ad Iva per il 90% (escludendo rimesse, affitti, mutui e altre voci non soggette a Iva), il valore complessivo dell’imposta indiretta sui consumi arriva a 1,4 miliardi di euro». Più il gettito dalle imposte sui carburanti (840 milioni circa), i soldi per lotto e lotterie (210 milioni) e rinnovi dei permessi di soggiorno (1.741.501 nel 2012 per 340 milioni) e così via: «Sommando le diverse voci, si ottiene un gettito fiscale di 7,6 miliardi». Poi c’è il contributo previdenziale: «Considerando che secondo l’ultimo dato ufficiale Inps (2009) i contributi versati dagli stranieri rappresentano il 4,2% del totale, si può stimare un gettito contributivo di 8,9 miliardi». Cosicché «sommando gettito fiscale e contributivo, le entrate riconducibili alla presenza straniera raggiungono i 16,6 miliardi».
Ma se questo è quanto danno, quanto ricevono poi gli immigrati? «Considerando che dopo le pensioni la sanità è la voce di gran lunga più importante e che all’interno di questa circa l’80% della spesa è assorbita dalle persone ultrasessantacinquenni», risponde lo studio, l’impatto dei nati all’estero (nettamente più giovani e meno acciaccati degli italiani) è decisamente minore sul peso sia delle pensioni sia della sanità, dai ricoveri all’uso di farmaci. Certo, è maggiore nella scuola «dove l’incidenza degli alunni con cittadinanza non italiana ha raggiunto l’8,4%», ma qui «la parte preponderante della spesa è fissa».
E i costi per la giustizia? «Una stima dei costi si aggira su 1,75 miliardi di euro annui». E le altre spese? Contate tutte, rispondono Stuppini e la Fondazione. Anche quelle per i Centri di Identificazione ed Espulsione: «Per il 2012 il costo complessivo si può calcolare in 170 milioni».
In ogni caso, prosegue il dossier, «si è considerata la spesa pubblica utilizzando il metodo dei costi standard, stimando la spesa pubblica complessiva per l’immigrazione in 12,6 miliardi di euro, pari all’1,57% della spesa pubblica nazionale. Ripartendo il volume di spesa per la popolazione straniera nel 2012 (4,39 milioni), si ottiene un valore pro capite di 2.870 euro». Risultato: confrontando entrate e uscite, «emerge come il saldo finale sia in attivo di 3,9 miliardi». Per capirci: quasi quanto il peso dell’Imu sulla prima casa. Poi, per carità, restano tutti i problemi, i disagi e le emergenze che abbiamo detto. Che vanno affrontati, quando serve, anche con estrema durezza. Ma si può sostenere, davanti a questi dati, che mantenere l’estensione della social card ai cittadini nati all’estero ma col permesso di soggiorno è «un’istigazione al razzismo»?
Per non dire dell’apporto dei «nuovi italiani» su altri fronti. Dice uno studio dell’Istituto Ricerca Sociale che ci sono in Italia 830 mila badanti, quasi tutte straniere, che accudiscono circa un milione di non autosufficienti. Il quadruplo dei ricoverati nelle strutture pubbliche. Se dovesse occuparsene lo Stato, ciao: un posto letto, dall’acquisto del terreno alla costruzione della struttura, dai mobili alle lenzuola, costa 150 mila euro. Per un milione di degenti dovremmo scucire 150 miliardi. E poi assumere (otto persone ogni dieci posti letto) 800 mila addetti per una spesa complessiva annuale (26mila euro l’uno) di quasi 21 miliardi l’anno. Più spese varie. Con un investimento complessivo nei primi cinque anni di oltre 250 miliardi.
"Un'alleanza per rilanciare la cultura europea", di Silvia Costa – ll Sole 24 Ore 23.11.14
La creazione di distretti, la messa in comune di servizi, la pratica delle residenze per artisti e creativi, l’adesione a progetti di lungo periodo, come le Capitali europee della Cultura, le Città capitali dei giovani o il marchio Unesco hanno fatto maturare nuovi know-how e capacità progettuali integrate e dotate di maggiore attrattività per i finanziamenti e impatto sulla vita dei cittadini. Il caso del turismo culturale merita una riflessione specifica. La cultura è la prima ragione per visitare l’Europa, prima meta turistica mondiale.
La qualità di sviluppo indotta dal turismo culturale è la più desiderabile: educata, pulita, veicola dialogo interculturale con ricadute dirette sull’ospitalità e la valorizzazione del paesaggio, delle strutture di accoglienza e degli edifici storici, della gastronomia e del lifestyle. E sulla consapevolezza dei cittadini, specie giovani. Parlamento Europeo, Commissione e Consiglio d’Europa con le Regioni, i Comuni e le associazioni hanno stretto un’alleanza forte, che ho personalmente promosso e incoraggiato, per un rilancio strategico del Programma degli itinerari culturali europei, con l’impegno dell’Italia a completare il tracciato della Via Francigena fino a Gerusalemme.
Ma l’approccio integrato riguarda anche il modo di lavorare del Parlamento e della Commissione: la non adeguata percezione della trasversalità della cultura dipende anche dal riparto inadeguato delle competenze. Da qui, la necessità di lavorare in costante collegamento. Sul fronte della comunità culturale e creativa è tempo di metabolizzare la legittimazione economica che il settore ha acquisito e affrontare il tema del valore intrinseco di cultura, creatività e innovazione per società coese, democratiche e animate da cittadini più felici.
L’autrice è Presidente della commissione cultura
del Parlamento Europeo