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"La grande fuga dalle Regioni", di Ilvo Diamanti – La Repubblica 1.12.14

Il vincitore delle elezioni regionali in Calabria e in Emilia-Romagna è il non voto. Così hanno sostenuto molti osservatori e attori politici. In realtà, chi non vota non vince mai. In modo più o meno consapevole e volontario, sostiene e legittima le scelte di chi vota. Sicuramente, però, l’astensione è un segnale di distacco. Un indice di disagio della democrazia rappresentativa. Ma occorre interpretarlo correttamente.
L’astensione alle elezioni regionali è sempre stata più elevata che alle politiche. Anche se mai come questa volta. Soprattutto in Emilia-Romagna, dove storicamente si vota per “appartenenza” politica e sociale. Se molti elettori hanno scelto di non votare, però, è perché non ne hanno sentito la necessità. Non dico il dovere, che ormai è categoria che non si addice al voto. Chi non ha votato (quasi due elettori su tre) l’ha fatto per diverse ragioni. Indifferenza, disinteresse, rifiuto. Molto meno, a mio avviso, contro il PdR. Il Partito di Renzi. D’altra parte, anche alle Europee gli elettori del Pd hanno votato per Renzi “nonostante tutto”.
In questo caso, alle Regionali, cioè, la posta in palio era diversa. Il governo della Regione — “rossa” per definizione. Dell’Emilia-Romagna. E se molti, troppi, non hanno votato è, anzitutto e soprattutto, per sfiducia, disincanto, verso la classe politica e dirigente non “nazionale”, ma “regionale”. Verso gli uomini di governo e di partito che, in Emilia-Romgna, coincidono largamente. Perché sono passati i tempi del “buon governo locale”. La Ditta, ormai, non garantisce più formazione e selezione della classe dirigente, come una volta. Anche perché non è più quella di prima. Il Partito, come organizzazione radicata nella società e nel territorio, non c’è più. Si è centralizzato, burocratizzato, personalizzato. Mediatizzato. Non solo il Pd post-comunista, ovviamente. È il percorso seguito da “tutti” i partiti. Ma il Pd post-comunista, nelle regioni rosse, ne ha sofferto di più. Perché coincideva, largamente, con la società. Insieme alla rete di associazioni e di istituzioni locali, che lo affiancavano, garantiva il sistema di servizi e di relazioni che accompagnavano la vita quotidiana della gente. Costituiva la tela sociale del territorio.
Oggi quel mondo non c’è più. Da tempo. Ma, in aggiunta, non c’è più neppure la classe dirigente che garantiva il funzionamento della società locale. O meglio, non ha la stessa qualità e “popolarità”. E, soprattutto, si è deteriorato il rapporto dei cittadini con il governo del territorio. Per primo, verso la Regione. Ciò non riguarda, specificamente, le “Regioni rosse” (anche se il cambiamento, in rapporto con il passato, appare più acuto). Ma le Regioni in quanto tali. La fiducia nei loro confronti, in pochi anni, è collassata, più che declinata. Nel 2000 era espressa dal 44% dei cittadini, nel 2008 dal 39%, nel 2014 dal 28% (dati di sondaggi Demos).
Questo rapido cambiamento di umore ha più di qualche ragione, più di qualche fondamento. Basti rammentare che, dal 2000, in quasi metà delle Regioni hanno avuto luogo elezioni anticipate. Solo negli ultimi due anni: sette. Oltre a Emilia-Romagna e Calabria, anche Piemonte, Lombardia, Lazio, Molise e Basilicata. Segno e conseguenza degli episodi di corruzione, abuso, irregolarità, inefficienza che hanno interessato le Regioni, in Italia. In particolare, dopo l’avvio dell’elezione diretta dei governatori, nel 2000, e dopo l’approvazione del titolo V, sul Federalismo, nel 2001, che hanno aumentato risorse e poteri delle Regioni.
Per restare agli ultimi mesi, è sufficiente rammentare gli scandali che hanno investito il Veneto e la Lombardia, per le vicende del Mose e dell’Expo. Ma, soprattutto, sono molti, troppi i casi di sperpero e di uso improprio — e indecoroso — dei soldi pubblici — dei cittadini — da parte degli amministratori regionali. A fini personali. Difficile non provare indignazione e disgusto. Difficile tornare a votare — come nulla fosse — per un’istituzione rappresentativa che non si ritiene più rappresentativa. Se non degli interessi personali dei (pochi) eletti. Così, al distacco nei confronti dei partiti e dello Stato, del Parlamento e dei leader politici, si è sommata, in misura crescente, la sfiducia nei confronti della Regione. Che è perfino più lontana e indefinita, agli occhi dei cittadini. E per questo più inaccettabile. L’indifferenza si è cumulata all’indignazione. E, alla fine, solo un terzo degli elettori, in Emilia-Romagna, si è mostrato disponibile a spendere il tempo necessario a recarsi alle urne. A votare.
Difficile, per questo, non pensare alla crisi, se non alla fine, delle attese riposte nel progetto federalista. L’illusione federalista, potremmo dire. Che ha mobilitato molte energie, molte iniziative, molti soggetti, molte persone. D’altronde, negli anni Novanta, due “partigiani” del federalismo, come Giorgio Lago e Francesco Jori, notavano, con un po’ d’ironia, che l’Italia era divenuta «il Paese con il più alto tasso di federalisti per km quadrato». Io stesso, d’altronde, ci ho creduto. Convinto che il trasferimento di poteri e di competenze dal centro alla periferia, dallo Stato alle Regioni, avrebbe allargato e qualificato la nostra democrazia. Così non è avvenuto.
Le Regioni — o, almeno, “queste” Regioni — hanno moltiplicato i centralismi. Non hanno ridotto il peso dello Stato. L’hanno accentuato ulteriormente. Riproducendone i vizi e le inefficienze. Così, oggi, diventa difficile discutere dell’astensione alle elezioni regionali senza ricondurla alla sua origine istituzionale e territoriale: la Regione. D’altronde, il governatore della Campania, Caldoro, ha proposto di sostituirle con macroaree. E perfino la Lega di Salvini, dopo trent’anni di identità nordista, sta diventando “Ligue National”. E, per questo, ha sfondato oltre il Po. La buona partecipazione, ieri, alle primarie del centrosinistra, in Puglia (ma non si può dire lo stesso per il Veneto), non basta a fugare l’idea — inquietante — che, in Italia, sia finita un’epoca della politica e delle istituzioni. Fondata sulla “centralità della periferia” e del Territorio. E ciò proietta un’ombra, che dis-orienta. Perché, di fronte alla “fine del territorio”, fonte di rappresentanza e riferimento dell’identità: com’è possibile non sentirsi s-paesati?

"E ricordate che noi italiani portiamo bellezza", di Renzo Piano – La Repubblica 29.11.14

L’ architettura è un’arte civica, ha a che fare con la comunità. C’è una cultura con la C maiuscola che non mi interessa. Non mi interessa la cultura elitaria, dei convivi, dei club, dei cenacoli. La cultura che mi interessa è quella che appartiene a tutti. È quella che ci appartiene in quanto europei. Il nostro è un paese di bellezze straordinarie, l’Italia è la casa della bellezza. C’è un giochino che potete fare a casa. Provate a guardare il Mare Mediterraneo senza l’Italia: è un grande lago. Ebbene, nel bel mezzo di questo lago, attraversato da tante culture diverse, è venuta ad adagiarsi l’Italia. Era naturale che una tale posizione privilegiata ci aiutasse a diventare la culla della cultura. Non si poteva fare altrimenti, era inevitabile.
La nostra storia poggia su una cultura profonda, una cultura che non possiamo disconoscere, che abbiamo sotto la pelle: è la bellezza del nostro Paese. Se ripenso al mio primo cantiere, al Beaubourg a Parigi, fatto insieme a Richard Rogers, capisco quali energie ci animavano. Avevamo poco più di vent’anni, era il 1971, tre anni dopo il Sessantotto, e in quel progetto la protesta era evidente. Inseguivamo qualcosa che rompesse la cultura imposta dall’alto. Allora pensammo di costruire questa gigantesca fabbrica: un cantiere enorme, al centro della piazza. Non mi sono mai sentito, neanche allora che ero giovanissimo, un semplice architetto ma un costruttore di luoghi di cultura, un amante della bellezza. La cultura, la frequentazione della bellezza, il sapere, ci rendono persone speciali. Qualsiasi lavoro facciate nella vita, ciò che vi renderà unici sarà la vostra dimensione culturale. E per cultura non intendo qualcosa di immobile, di istituzionale. La cultura è anche rompere i tabù, non può e non deve mai essere intimidente. Una volta esportavamo gli stili architettonici, ma oggi non è più così, oggi non esportiamo modelli formali ma un’idea di urbanità. Credo che la bellezza oggi sia nella trasparenza, nella luce. Attraverso la costruzione di un edificio si può rendere una città un luogo migliore, avvicinarla alla cultura. È quello che ho tentato di fare trent’anni fa quando ho costruito il museo di Houston, nel Texas, ed è quello che ispira costantemente il mio lavoro.
L’architettura, come la cultura, è sempre un’opera collettiva. Quanti operai ci vogliono per realizzare un progetto? All’aeroporto di Osaka hanno lavorato 10 mila operai. L’architettura è una strana cosa in cui la scienza, la tecnologia, l’arte e la comunità si fondono. Come nell’umanesimo. Ma è la gente a rendere i luoghi vivi. Dobbiamo sempre pensare i luoghi in funzione della gente. Pensate a cosa poteva essere Berlino dopo la caduta del muro, ci voleva un progetto che riunisse l’est e l’ovest. L’architettura deve essere capace di prodezze, richiede il lavoro di molti ed è destinata a molti.
Gli edifici costruiti per la cultura devono essere spazi della condivisione, spazi in cui avviene il miracolo della tolleranza. Il palazzo che ospita la sede del New York Times a New York è stato costruito dopo l’11 settembre, quasi come reazione alla tragedia dell’attentato.
Stare assieme, condividere i valori, capirsi. Sono questi i principi che ispirano la nostra cultura comune e devono ispirare l’architettura, che non è solo tecnica, non è solo costruzione, è anche poesia. Noi italiani, noi europei, possiamo fare tutto ciò perché poggiamo sulle spalle di un gigante: la cultura umanistica, un sapere complesso che unisce valori scientifici e artistici.
Ma come vengono le idee? A noi architetti vengono collettivamente. Un po’ alla volta, come una bolla di sapone che esce dalla cannuccia. A soffiare dalla cannuccia, però, non si è mai soli.
Essere europei, essere italiani, vuol dire avere il dono di comprendere la complessità delle cose, i chiaroscuri. Invece oggi nel nostro Paese sembra vincere un battage sulla demolizione dei valori .
Non dovete farvi prendere dallo sconforto, non fatevi demolire. Nella nostra cultura abbiamo un paracadute, uno strumento straordinario di sopravvivenza. Il nostro dna ha dentro la bellezza, la scienza, il senso della comunità. Anche il lavoro di rammendo delle periferie è un mestiere da umanista. Le periferie saranno le città del futuro. Così come negli anni Settanta e Ottanta abbiamo vinto la battaglia per la conservazione dei centri storici, oggi la nostra sfida è trasformare le periferie in città urbanizzate, fecondarle, portarci delle attività. L’architettura è prima di tutto un’arte civica, che ha a che fare con la comunità, la gente. Un’arte che tiene insieme tecnologia ed emozioni, scienza e poesia. Tutti gli aspetti della cultura umanistica, che è la nostra eredità, il nostro riparo. Voi siete involontari portatori di bellezza. Dovete saperlo e ricordarvelo, qualsiasi mestiere facciate, e non scoraggiarvi ma avere fiducia.

"Cari ragazzi ringraziate di essere europei", di Umberto Eco – La Repubblica 29.11.14

In che senso si può parlare di una comune cultura europea? Prima di rispondere a questa domanda vorrei fare una premessa, perché penso che alcuni di voi (o forse alcuni dei vostri compagni che non sono qui) si chiedano a che cosa serva loro l’Europa con tutte le sue complicazioni burocratiche, mentre ci si dovrebbe occupare dei problemi specifici del proprio paese, o della propria regione, mandando al diavolo persone che parlano lingue incomprensibili. Ebbene, vi citerò alcune cifre. Nella Prima guerra mondiale del 14-18 ci sono stati in Europa 9 milioni di morti. Poco, se li paragoniamo ai morti europei della Seconda guerra mondiale.
Escludendo pertanto le perdite umane della guerra nel Pacifico, abbiamo 41 milioni di morti. Non sono sicuro se il computo tenga conto anche dei sei milioni di ebrei e dei due milioni di zingari massacrati nei campi di sterminio nazisti, e in tal caso la cifra salirebbe a 49 milioni. Ma ricordo che l’Europa ha cominciato faticosamente a formarsi come complesso di popoli ciascuno con un dialetto e poi con una lingua nazionale diversa dalla fine dell’impero romano, e in questo decorso di secoli ci sono stati massacri ininterrotti. Lo avrete studiato a scuola, dalle invasioni barbariche alla guerra dei cento anni, e poi la guerra dei trent’anni, la guerra dei sette anni, le guerre di successione, le guerre di religione, il sacco di Roma, sino alle guerre napoleoniche (4 milioni di morti, e solo a Waterloo, tra francesi, inglesi e prussiani, alla sera giacevano sul campo 41.000 cadaveri).
Voi per fortuna non sapete che cosa sia una guerra: vuole dire attendere la notte che ci cada una bomba sulla testa, oppure, come accadde a mio padre, assistere alla distruzione di una scuola elementare dove sotto un bombardamento sono stati sepolti vivi tutti i bambini, o com’è accaduto a me, patire il freddo o la fame in una campagna dove eravamo sfollati, vedere all’orizzonte i bagliori del bombardamento sulla mia città, senza sapere se mio padre era ancora vivo, e averlo saputo solo tre giorni dopo perché erano interrotte le linee telefoniche, non viaggiavano più i treni e mio padre ci poteva raggiungere solo in bicicletta al sabato, attraversando due posti di blocco, uno fascista e uno partigiano, con due lasciapassare in tasche diverse e stando attento a non sbagliarsi di tasca. Oppure vi sarebbe potuto accadere, come è accaduto a molti dei vostri nonni, di essere mandati a morire congelati nella neve russa portando scarpe di cartone compresso. O ridursi a una acciuga in un campo di concentramento, se si era fortunati e non si finiva in una camera a gas.
Perché rievoco queste cose? Perché per la prima volta in millecinquecento anni di storia, dal 1945 a oggi abbiamo avuto quasi settant’anni ininterrotti di pace (se si esclude un conflitto nei Balcani, atroce ma localizzato e abbastanza breve). Voi siete i figli di settant’anni di pace. Forse la pace vi annoia e per questo vi fate delle canne, ma se non ci fossero stati questi settant’anni voi forse non sareste nati, o sareste morti a sette anni giocando tra le macerie e inciampando in una bomba inesplosa. E invece molti di voi possono non solo vivere in pace a casa loro, ma tentare l’avventura del programma Erasmus e sperimentare come si vive e si studia in altri paesi.
Perché godete di questa fortuna? Perché delle persone illuminate, che si chiamavano Altiero Spinelli, Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, Robert Schumann e altri, fondatori dell’Europa unita, hanno capito che non solo per necessità politiche ed economiche ma anche per profonde ragioni di unità culturale si doveva riconoscere il nostro continente come una patria comune. Anche se oggi l’Europa parla 24 lingue. Parlerò dopo di come si possa vivere in una patria dove si parlano 24 lingue diverse, ma non dimentichiamo che esiste un piccolo paese che ha prosperato nei secoli sopportando che i suoi cittadini parlino quattro lingue diverse, ed è la Svizzera.
Possiamo parlare, nonostante la diversità delle lingue, di una comune cultura europea? Tutto il pensiero europeo si è sviluppato sul modello di Platone e Aristotele, e se prendete la cattedrale di Burgos, in Spagna, e quella di Colonia, in Germania vi accorgete che certamente sono diversissime, eppure sia noi sia un extraeuropeo comprendiamo immediatamente che esse hanno qualcosa in comune rispetto a una pagoda cinese, a una moschea musulmana, a un tempio indiano. Sin dagli inizi l’Europa ha avuto una sua architettura, prima il romanico, poi il gotico, poi i vari rinascimenti, il barocco, il rococò, il neoclassico, il liberty…
E mentre sorgevano da occidente a oriente edifici fortemente analoghi, con la nascita delle università chierici vaganti di lingue diverse (che però parlavano tutti il latino come lingua comune) viaggiavano da università a università, e a Bologna, la prima università del mondo, passavano Copernico ed Erasmo da Rotterdam, Paracelso e Dürer. Non dimentichiamo che tutta la cultura filosofica medievale è stata europea, senza distinzione di nazionalità, Tommaso d’Aquino insegnava a Parigi, l’inglese Occam e l’italiano Marsilio sostenevano la causa dell’imperatore tedesco (per non dire di Dante), mentre tutte le canzoni di gesta e le storie del Graal migravano tra Inghilterra, Francia, Spagna e Germania per arrivare con Pulci, il Boiardo e l’Ariosto nell’Italia rinascimentale. In quell’epoca i banchieri italiani andavano a operare nelle Fiandre, Leonardo giungeva in Francia alla corte di Francesco I come premier peintre, architecte , et mecanicien du roi, con una pensione di 5000 scudi (e dopo di lui hanno lavorato alla corte francese Primaticcio, Rosso Fiorentino, Andrea del Sarto e Benvenuto Cellini). Non si potrebbe capire Antonello da Messina senza il fiammingo Petrus Christus, i castelli della Loira senza la lezione del rinascimento italiano, italiano parlavano gli uomini di cultura di vari paesi tra cinquecento e seicento, dopo la lingua francese è stata la lingua di tante corti europee e l’inglese come lingua franca, se si è imposto per influenza americana, è pur sempre una lingua europea. Tutte le culture europee sono state influenzate da Dante e da Shakespeare, il quale dal canto proprio si ispirava alla novellistica italiana.
Quando andate all’opera o a un concerto di musica classica, se ci andate, di solito non vi chiedete a quale paese appartenessero Verdi o Beethoven, Haendel o Mozart, Vivaldi o Chopin, Ravel o De Falla. Godete la musica come qualcosa di comune a un intero continente. Né possiamo dimenticare che i fondatori degli Stati Uniti hanno concepito la loro civiltà nascente sull’esempio di quella europea e hanno costruito templi e palazzi sul modello del neoclassicismo italiano, francese e inglese, mentre molti campus universitari americani sono interamente neogotici perché i loro fondatori hanno inteso il sapere come eredità che veniva loro dai loro antenati europei.
Vorrei terminare citando alcune pagine de Il tempo ritrovato di Proust, l’ultimo volume della sua Ricerca del tempo perduto . Non dimentichiamo che francesi e tedeschi sono stati per secoli i nemici per eccellenza. Eppure ogni tedesco colto si abbeverava alla cultura francese. Nelle pagine di Proust siamo a Parigi durante la prima guerra mondiale, di notte, la città teme le incursioni degli Zeppelin, e l’opinione pubblica attribuisce ogni sorta di crudeltà agli odiati “boches” (così i francesi chiamavano per disprezzo i tedeschi, come noi un tempo parlavamo dei “crucchi”.). Ebbene, nelle pagine proustiane si respira un’aria di germanofilia, che traspare nelle conversazioni dei personaggi. A proposito del suo amico Saint Loup, bravo soldato che morirà in combattimento, scrive Proust: «(Saint-Loup) per farmi capire certe opposizioni d’ombra e di luce che erano state “l’incantesimo della sua mattinata”… non esitava a fare allusioni a una pagina di Romain Rolland, o addirittura a Nietzsche, con quella libertà di coloro che stavano in trincea e che, a differenza di chi stava nelle retrovie, non avevano affatto paura di pronunciare un nome tedesco… Saint-Loup mi parlava di una melodia di Schumann, non ne citava il titolo se non in tedesco e non usava circonlocuzioni per dirmi che quando, all’alba, aveva inteso i primi cinguettii ai bordi d’una foresta, era stato inebriato come se gli avesse parlato l’uccello di quel “sublime Sigfrido” che egli sperava ascoltare di nuovo dopo la guerra». O ancora: «Appresi, in effetti, della morte di Robert de Saint-Loup, ucciso all’indomani del suo ritorno al fronte, mentre proteggeva la ritirata dei suoi uomini. Mai qualcuno aveva nutrito meno di lui l’odio verso un popolo… Le ultime parole che avevo udito uscire dalla sua bocca, sei giorni prima, erano quelle che accennavano a un “lied” di Schumann e che sulle scale mi canticchiava in tedesco, tanto che l’avevo fatto tacere a causa dei vicini».
Ecco che cosa sta alla base dell’identità culturale europea, un lungo dialogo tra letterature, filosofie, opere musicali e teatrali. Niente che si possa cancellare nonostante una guerra, e su questa identità si fonda una comunità che resiste alla più grande delle barriere, quella linguistica. Ma sino a che punto la barriera linguistica è così drammatica? Ho sempre parlato del valore sessuale del progetto Erasmus. Moltissimi universitari vanno a passare un certo periodo all’estero e poi si sposano laggiù. Il che vuol dire che entro trent’anni potremmo avere una generazione di bilingui. E d’altra parte si parla sempre più di plurilinguismo e plurilinguismo non vuol dire solo saper parlare molte lingue: esiste un plurilinguismo moderato e passivo per cui, se non si sa parlare una lingua, si riesce in parte a capirla. E accade sovente, tra giovani che hanno viaggiato e in genere tra persone colte, che si possa sedere intorno a una tavola a cena, dove ciascuno parla la propria lingua e gli altri riescono a intenderne qualcosa. Sogno una Europa plurilingue di questo tipo e se oggi ne è pioniere solo qualche élite dotata di una cultura universitaria, voi potreste domani rendere comune a moltissimi questa bellissima facoltà.
Ringraziate Iddio o la sorte, come preferite, di essere nati europei e non fidatevi dei falsi profeti che vorrebbero farci tornare indietro di settant’anni.

"Italia, donne meno discriminate, ma la politica resta cosa da uomini", di Ilaria Mariotti – Pagina 99 28.11.14

Italia, donne meno discriminate, ma la politica resta cosa da uomini

Se paragonate al resto della popolazione femminile mondiale, le donne italiane sembrerebbero non cavarsela male in fatto di discriminazione di genere. La buona notizia è infatti che secondo l’Ocse, che ha appena pubblicato un aggiornamento dell’indice Sigi (Social Institutions and Gender Index) estendendolo a 160 nazioni, l’Italia fa parte del gruppo dei paesi in cui la disparità uomo donna è più attenuata. “Very low” è il livello di disuguaglianza riscontrato da noi e in altri 15 paesi sia europei che non (c’è per esempio Cuba, l’Argentina, la Repubblica Ceca, e la Mongolia). Tradotto, significa che qui le donne possono «contare su misure che forniscono uguali diritti all’interno della famiglia e nell’accesso alle risorse, e che ne promuovono le libertà civili» spiega il report.

Sono cinque gli indicatori misurati. Si analizzano i codici familiari («norme giuridiche o sociali che limitino le capacità decisionali delle donne»), le restrizioni all’integrità fisica (ad esempio «nell’autonomia riproduttiva») o nell’accesso alle risorse, nel caso in cui il sesso femminile «trovi difficoltà a usufruire di alcuni servizi senza la mediazione di un uomo». Si indaga poi nell’applicazione delle libertà civili e nella perpetrazione di una cultura che favorisca la discendenza maschile. Su ciascuno di questi fronti l’Italia esce promossa a pieni voti (almeno sulla carta, essendo l’indagine basata sugli usi e costumi di un paese estrapolati attraverso le maglie del suo sistema legislativo). Non ci sarebbe traccia secondo i dati Ocse di discriminazioni nelle abitudini familiari o nelle opportunità offerte al genere femminile anche nella partecipazione alla vita pubblica. Anzi l’Italia è perfino citata come esempio di best practice per la promozione della leadership femminile. Merito della scelta di lanciare anni fa – su input dell’ultimo ministero per le Pari opportunità oggi retrocesso a mero dipartimento – il programma Donne, Politica e Istituzioni, che avviò in 41 atenei corsi gratuiti per l’insegnamento del management politico.

 

Ed è proprio qui che il quadro italiano comincia ad appannarsi, e si fa strada un paradosso. L’Italia non brilla affatto per presenza in politica delle donne. Non bastano le quote rosa, pur presenti sia «nelle istituzioni nazionali che in quelle locali». Nel Parlamento italiano «siede il 30% delle donne» rileva l’Ocse, una quota più ristretta rispetto a quella dei paesi più avanzati. «I sindaci italiani sono rappresentati da 7238 uomini e 789 donne». Una disomogeneità che si ripete nei consigli e nelle giunte regionali (occupati da 86mila e mille uomini rispettivamente contro 19mila e 118 seggi femminili). Tanto che, sottolinea il report, «tranne rare eccezioni non ci sono mai stati leader politici in Italia di sesso femminile, né capi di Stato o presidenti del Consiglio donna». La politica resta quindi per lo più cosa da uomini, tanto che a superarci in questo campo sono diversi altri paesi Ocse tra cui Usa, Uk, Francia, Portogallo.

Non rassicura neppure il resoconto sulla violenza domestica, «presente nel 19 per cento delle relazioni di coppia secondo uno studio dell’Agenzia per i diritti umani, e con un tasso di 120 donne uccise nel solo 2012». L’incidenza è più bassa che in Germania (22), Belgio (24) e Regno Unito (29), ma potrebbe esserci una grande sottostima della realtà dovuta «alla vergogna provata dalle donne nel riconoscere questo tipo di abusi» evidenzia l’indice. Retaggi culturali dunque, gli stessi che fanno ritenere «accettabile al 7% di italiani la violenza dentro le mura domestiche in determinate circostanze».

 

 

Che in Italia la strada verso l’effettiva parità uomo donna fosse ancora lunga lo aveva documentato anche un altro studio, il Global Gender Gap del World Economic Forum. I miglioramenti ci sono, era l’assunto, ma per il raggiungimento dell’uguaglianza assoluta in termini di occupazione e salari ci vorranno altri 81 anni (per parità salariale siamo 129esimi). Non a caso tra i paesi che spiccano per basse percentuali di discriminazione l’Italia si attesta in settima posizione, sotto paesi più arretrati come la Serbia e l’Argentina. Forse perfino facilitata dal fatto che dalla classifica siano esclusi diversi big dell’Occidente come la Germania, il Regno Unito e gli Stati Uniti per «non aver apportato dati a sufficienza», fanno sapere i responsabili del Sigi. Sopra di noi si posizionano Spagna, Slovenia e Francia, mentre va al Belgio la medaglia d’oro come paese che tratta meglio la popolazione femminile. Ricorda la ricerca che nel paese nordeuropeo «la violenza domestica è reato», al pari delle molestie sessuali, combattute con una serie di leggi che ne hanno aggravato le pene. Qui le donne occupano il 40% dei seggi in Parlamento e la metà dei posti di governo. Un eldorado lontano anni luce dalla drammatica condizione rilevata dall’indice Sigi nel resto del mondo, specie quello in via di sviluppo. Visti da questa prospettiva anche i problemi dell’Italia si ridimensionano: in media il 16% delle minorenni dei paesi extra Ocse è già sposato (il 60% in Niger). Il lavoro di cura continua a essere appannaggio delle donne, che tendono a dedicargli il triplo del tempo rispetto agli uomini (in Pakistan la moltiplicazione va fatta per dieci). Nel complesso solo un parlamentare su cinque è di sesso femminile, e circa un terzo delle donne è stato vittima di qualche forma di violenza nel corso della vita. Ammontano invece a 90 milioni le disperse di tutto il mondo (di cui l’80% di origine cinese e indiana).

 

"Edilizia scolastica, dalle Regioni ok definitivo all’anagrafe nazionale", di Alessia Tripodi – Scuola 24

Via libero definitivo per il Sistema nazionale delle anagrafi dell’edilizia scolastica (Snaes). Ieri nella riunione della Conferenza unificata è stato infatti approvato l’accordo che consentirà alle Regioni, a partire dal prossimo lunedì, 1 dicembre, di inserire in un’apposita piattaforma informatica tutti i dati relativi al patrimonio edilizio scolastico di competenza degli Enti locali.

Più trasparenza
Il 6 febbraio scorso il Sistema è stato oggetto di un accordo tra Governo, Regioni e gli Enti locali che oggi ha concluso il proprio iter dando concretezza alle decisioni prese allora.
«Obiettivo dello Snaes è censire l’intero patrimonio dell’edilizia scolastica del nostro paese e acquisire informazioni relative alla consistenza, alla situazione e alla funzionalità degli edifici – spiega il sottosegretario all’Istruzione, Davide Faraone – Ciò, oltre a rendere trasparente il sistema, rappresenta uno strumento essenziale per le programmazioni legate all’edilizia, permettendo di individuare le priorità e consentendo di utilizzare in modo più efficace ed efficiente le risorse, già a partire dal prossimo anno quando continuerà il piano di edilizia scolastica del governo Renzi. Gli edifici scolastici saranno “schedati” e finalmente potremo avere un quadro chiaro dello stato dell’edilizia delle nostre scuole. Per decidere è necessario conoscere. Avere i dati è un passaggio fondamentale per pianificare le azioni e gli investimenti e per intervenire in modo più puntuale e mirato».
In questa prima fase, sottolinea Viale Trastevere, non tutte le Regioni trasmetteranno i propri dati: le sei che al momento sono in ritardo, assicura il Miur, si sono impegnate a farlo rapidamente nei prossimi mesi.

Ghizzoni “Le barriere architettoniche si abbattono con la cultura” – comunicato stampa 27.11.14

La deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni è relatrice della proposta di legge, di cui prima firmataria è la collega Ileana Argentin, per l’inserimento dello studio delle tecniche e delle tecnologie per il superamento delle barriere architettoniche nelle scuole superiori e nelle università. La proposta di legge è stata calendarizzata in Commissione Cultura alla Camera. “In Commissione – conferma Manuela Ghizzoni – arriveremo alla giornata internazionale delle Persone con disabilità del 3 dicembre con azioni concrete e non solo con buoni propositi”.

 

“Eliminare le barriere architettoniche non basta, bisogna lavorare affinché non vengano costruite. In Commissione Cultura arriveremo alla giornata Internazionale delle Persone con disabilità del 3 dicembre con azioni concrete e non solo con buoni propositi”. Così Ileana Argentin e Manuela Ghizzoni, deputate del Partito democratico, annunciano la calendarizzazione in Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera dei deputati della proposta di legge per l’inserimento dello studio delle tecniche e delle tecnologie per il superamento delle barriere architettoniche nelle scuole secondarie e nelle università di cui Argentin è prima firmataria e Ghizzoni è relatrice. “La proposta di legge all’esame della Commissione si basa sulla consapevolezza che solo attraverso una adeguata formazione potrà radicarsi la cultura dell’accessibilità. Il percorso formativo scolastico e universitario deve essere strutturato al fine di dotare i futuri tecnici delle adeguate competenze di progettazione e realizzazione delle strutture pubbliche e private. Per arrivare a un reale superamento delle barriere architettoniche – spiega Argentin – le necessità di tutti i possibili utilizzatori, a prescindere della loro età, dalla condizione fisica e capacità psichica, devono essere poste al centro della progettazione, seguendo i principi dell’universal design”. “Non basta un giorno per sostenere l’inclusione delle persone con disabilità e per evitare le discriminazioni – concludono le deputate Pd – le barriere architettoniche si abbattono con la cultura”.

 

"Sisma, Ghizzoni e Baruffi “Norme per le popolazioni e i Comuni” – comunicato stampa 27.11.14

lavori in corso

Sono tre gli emendamenti alla Legge di stabilità riguardanti le zone colpite dal sisma, promossi dal Pd, che hanno passato il vaglio della Commissione Bilancio della Camera. Ne danno notizia i deputati modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Davide Baruffi che seguono, da tempo, la fase post-emergenza del terremoto. “Si tratta dell’allentamento del Patto di stabilità per i Comuni – confermano i deputati Pd – del dimezzamento del taglio alla dotazione del Fondo di solidarietà comunale, e della possibilità di pagare gli straordinari, anche per il 2015, per i dipendenti di Regione e Comuni che lavorano alle pratiche per la ricostruzione”.

La Commissione Bilancio della Camera, lo scoglio più insidioso per ogni nuova potenziale norma, ha approvato tre emendamenti, targati Pd, che prevedono norme a sostegno delle zone colpite dal sisma del 2012. “Innanzitutto – spiegano i deputati modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Davide Baruffi, impegnati da tempo su questo fronte – è stato riconosciuto l’allentamento del Patto di stabilità per i Comuni secondo criteri che verranno definiti da un successivo decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, da emanarsi comunque entro gennaio. Poi è stato accolto un emendamento, sostenuto dall’Anci, l’associazione nazionale dei Comuni italiani, che prevede il dimezzamento del taglio alla dotazione del Fondo di solidarietà comunale”. In sostanza, la Legge di stabilità dispone una riduzione del Fondo in questione di 1.200 milioni di euro annui, a partire dal 2015. Ebbene questo taglio si dimezza per i Comuni colpiti dal sisma 2012, così come per quelli che hanno subito danni da sisma nel territorio aquilano e in quello lucchese. “Infine – continuano i deputati modenesi del Pd – ha passato il vaglio della Bilancio anche un altro emendamento che avevamo condiviso con la Regione Emilia-Romagna, ovvero la possibilità anche per l’anno 2015 sia per la Regione che per i Comuni di pagare gli straordinari al personale impegnato nelle pratiche per la ricostruzione”. La norma prevede esplicitamente un “compenso per prestazioni di lavoro straordinario reso e debitamente documentato per l’espletamento della attività conseguenti allo stato di emergenza, nei limiti di trenta ore mensili”. “Ancora una volta – concludono gli on. Ghizzoni e Baruffi – la politica della concertazione con il territorio e dell’impegno continuativo su tutti i fronti istituzionali porta risultati operativi a favore delle popolazioni e dei Comuni colpiti dal sisma, molto più di quella urlata, sfruttata in campagna elettorale dalle forze dell’opposizione, che alza i toni dello scontro, senza però alcuna ricaduta concreta”. Il passaggio in Aula degli emendamenti è previsto a giorni, ma l’approvazione in Commissione Bilancio garantisce la copertura economica dei provvedimenti che ora non hanno più ostacoli nel loro cammino.