Latest Posts

Nell'attesa di "Ricercarsi", di Manuela Ghizzoni 03.12.14

ricercarsi

I dati dell’indagine “Ricercarsi”, che verranno presentati domani al Senato, sono anticipati da un bel dibattito avviato dalla lettera aperta che Cosimo Lacava ha inviato al presidente Napolitano per denunciare lo stato di precarietà in cui sono costretti molti ricercatori italiani (e quindi la ricerca italiana) e che le norme della legge di stabilità non contrasta.
A quella lettera ne é seguita una della senatrice a vita Elena Cattaneo, a sostegno di Lacava e un intervento del prof. Eugenio Mazzarella, che sposta lo sguardo su quello che é, a mio avviso, il nodo vero da sciogliere: il definanziamento del sistema. Infatti la ragione vera del disagio assunzionale nelle università è il persistere di un pesante blocco parziale del turnover universitario – esteso addirittura ai ricercatori a tempo determinato, caso unico nella pubblica amministrazione – che va avanti dal 2008 e che non finirà prima del 2018, anno dopo il quale, comunque, il personale universitario non potrà più tornare a crescere. E’ la drastica cura dimagrante per gli organici universitari costruita dal Governo Berlusconi nel 2008 che continua a produrre i suoi frutti amari. Per fare un esempio, dello stipendio per un professore ordinario che va in pensione le università possono attualmente recuperare solo il 50%, che ovviamente non può bastare per rimpiazzare il docente con uno più giovane e allo stesso tempo assumere un ricercatore a tempo determinato. Il punto sostanziale è, quindi, porre termine al blocco del turnover che sta soffocando gli atenei per emorragia di forze docenti. Il Miur nella sua risposta a Lacava si riferisce a questi limiti come se fossero invalicabili. Ma é proprio così? No, si tratta di scelte. Ad esempio, si é scelto di destinare i 150 milioni aggiuntivi al Fondo di Finanziamenro ordinario alla quota premiale del medesimo Fondo, che per il 2015 sommerà ad oltre un miliardo e 300 milioni. Non sarebbe meglio utilizzare queste risorse per rimuovere il blocco al turn over (o per alleggerirlo di molto)? Alla Camera, dove abbiamo già discusso la legge di stabilità, non siamo riusciti ad ottenere questo risultato (sebbene avessimo presentato specifici emendamenti). Speriamo che il dibattito che si è animato in questi giorni orienti migliori scelte al Senato.

"Per l’Italia abbandono scolastico record", di Federica Micardi – Scuola 24 03.12.14

 

L’Italia ha un tasso di abbandono scolastico tra i più alti d’Europa. È quanto rileva il rapporto “Tackling Early Leaving from Education and Training in Europe ” realizzato dal network educativo europeo Eurydice e dal Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale (Cedefop).

La percentuale di abbandoni nel nostro paese è del 17%, in leggero calo rispetto al 2009 quando era del 19,2%, ma pur sempre molto alta. Solo quattro paesi sono “peggio” di noi: Romania (17,3%), Portogallo (18,9%), Malta (20,8%) e Spagna (23,6%).

La media europea è del 12%, in linea con questo valore è l’Inghilterra (12,4), migliori sono le performance di Francia (9,5%) e Germania (10) . Però i paesi dove l’abbandono è più basso sono la Slovenia, che registra il 3,9% – era 5,3 nel 2009 – e la Croazia con il 4,5% in crescita però rispetto al 2009 quando registrava il 3,9%
Il dato sull’abbandono scolastico è tanto più allarmante se si pensa che secondo gli esperti del rapporto, esiste una connessione diretta tra gli abbandoni scolastici e la disoccupazione giovanile. La media europea vede tra i giovani di 15 – 24 anni che hanno conseguito un diploma di scuola secondaria di primo grado (terza media) una percentuale di occupati del 19,7, in Italia per questo stesso target la percentuale di occupati scende all’8,7%.

Nella stessa fascia d’età, con un diploma di scuola secondaria di secondo grado gli occupati europei salgono al 42,7%, in Italia sono il 24,8%. Se poi passiamo alla laurea, gli occupati in Europa sono il 54,6% contro il 23,1% in Italia.
Molti Stati Ue, come Belgio (regione fiamminga), Bulgaria, Spagna, Malta, Paesi Bassi e Austria, hanno messo in campo “strategie complessive” per contrastare il fenomeno degli abbandoni prematuri mentre Ungheria e Romania sono sul procinto di farlo. Una strada che per ora non viene percorsa da: Italia, Francia, Grecia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Croazia, Danimarca e Finlandia.
Chi abbandona il percorso scolastico si trova in una situazione di svalntaggio sociale ed economico; il fenomeno va quindi affrontato e limitato il più possibile ed è proprio nella scuola che gli autori della ricerca individuano il luogo in cui questo contrasto deve avvenire.

 

PDFLa ricerca sull’abbandono scolastico in Europa

Regione, Ghizzoni “Il buon governo e la scommessa per il futuro” – comunicato stampa 2.12.14

 

La classifica de Il Sole 24 ore sulla qualità della vita nelle province italiane premia l’Emilia-Romagna: ben quattro province nelle prime dieci, con performance significative in tutti gli ambiti che incrociano le politiche della Regione. “Un buon piazzamento in classifica – spiega la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni – non servirà da solo a restituire fiducia all’ente regionale, che riparte, ora, con una nuova scommessa di rigore, efficienza e credibilità, ma ci fa riflettere sulla valenza di un governo intermedio fra i cittadini e lo Stato, ancora in grado di elaborare politiche per il territorio”. Ecco la dichiarazione di Manuela Ghizzoni:

 

«A pochi giorni dalle elezioni regionali si parla dell’indagine sulla qualità della vita nelle province italiane che vede al primo posto Ravenna, al terzo Modena, al quinto e settimo Reggio Emilia e Bologna. Quattro province della nostra regione nelle prime dieci posizioni sono un segnale di un livello alto dei nostri servizi, della nostra sanità, del nostro ambiente e anche del benessere economico. Per quanto possano valere queste valutazioni, individuano, comunque, i parametri di un sistema che funziona, e sono tutti ambiti che incrociano le politiche della Regione. Se è vero che il non voto del 23 novembre ha evidenziato il distacco dei cittadini dal ruolo di rappresentanza dell’ente regionale, è pur vero che tanto si deve alle strategie della Regione Emilia Romagna se in questi cinquant’anni siamo diventati da popolo di agricoltori a modello europeo di sviluppo in tanti campi, da quello imprenditoriale, al sociale, al culturale, alla scuola, la ricerca e l’innovazione. Un buon piazzamento in classifica non servirà da solo a restituire fiducia all’ente regionale, che riparte, ora, con una nuova scommessa di rigore, efficienza e credibilità, ma ci fa riflettere sulla valenza di un governo intermedio fra i cittadini e lo Stato, ancora in grado di elaborare politiche per il territorio, rappresentarne tutte le componenti e portarle a confronto con l’Italia e l’ Europa».

"Il femminicidio su Facebook e la deriva dei 'mi piace'", di Gabriele Romagnoli – La Repubblica 2.12.14

Se la caduta di un albero nella foresta aveva necessità di una ripresa televisiva per essere reale, così un femminicidio ha bisogno di un contorno social per fare (ancora) notizia? I like all’annuncio del delitto da parte dell’ennesimo ex marito incapace di rassegnarsi sono altrettante e ulteriori coltellate o soltanto quel nulla in più che però rende il tutto nuovamente scabroso e inaccettabile?
L’assassino, Cosimo Pagnani, anni 32, della provincia di Salerno, non risponde né a queste né ad altre domande. Arrestato, tace. Ferito, non a morte. Da se stesso, in tutti i possibili sensi. La sua è una storia che si ripete, con un’appendice neppure troppo sorprendente. Gli elementi di realtà sono scarni e consueti: un uomo e una donna si incontrano, si amano e si sposano, hanno una figlia, la passione finisce, a uno dei due quel che resta non basta, si separano, lui non lo accetta (accade anche il contrario, ma le Medea sono una contro dieci), quando lei trova un altro il risentimento esplode, dalle recriminazioni si passa alle minacce, dalle urla ai colpi di qualche arma. A rendere particolare la vicenda è il suo svolgersi, parallelamente, nel mondo di Facebook: è lì che tutto si deposita, lascia tracce, monta. Lì adesso inquirenti e media ricostruiscono personalità dell’omicida, escalation della battaglia tra lui e l’ex moglie, modalità del delitto. E rinvengono, a margine, utili a futura memoria, tracce di diffusa imbecillità.
Per spiegare chi sia quest’uomo vengono messi in fila i suoi selfie. Appare in tenuta da caccia e in costume tirolese, ma non è chiaro in quale delle due immagini volesse realizzare una parodia. Lo pervade quella disperazione che abbassa la soglia del pudore, spingendolo a mostrarsi fiero di un nuovo piercing, sullo sfondo delle piastrelle da doccia, testimone un bagnoschiuma, o in tenuta da superatleta, senza il fisico corrispondente, nel tinello. Esibisce ingenuamente le proprie passioni: il fucile appoggiato a un sasso, il paesello visto dalla collina, il furgone con cui lavora.
Con personaggi così in America ci fanno sit com di successo. Ma Cosimo Pagnani ha perduto ironia e amabilità perché ha perduto un ingrediente indispensabile: la famiglia. Ha sostituito i sentimenti ordinari con dosi straordinarie di affetto (per la figlia) e di rancore (per l’ex moglie). È sempre dai suoi post su Facebook che emergono la devozione per la bambina, “principessa”, e l’odio per la donna, che gliel’ha “rubata”. Per comunicare tra di loro i due non usano né telefono né av- vocati, come avviene in questi casi, ai diversi livelli di ostilità. Di nuovo, tutto avviene su Facebook che si trasforma nel loro teatro. Gli amici comuni sono gli spettatori, hanno accesso ai loro dialoghi, li commentano, applaudono chi l’uno chi l’altro. È lei a dettare tempi e modalità di questa recita e rifiutare ogni altra forma di contatto. C’è chi ammira la sua risolutezza, chi solidarizza con l’amarezza di lui, che si sente defraudato ma ritrova la forza di sperare e giura che tornerà “felice da morire”. Non è questo il messaggio più sinistro, il peggio deve arrivare. Se lui fosse rimasto in Germania dove ha trovato lavoro, se i loro scambi fossero rimasti su Internet non sarebbe successo nulla di irreparabile. Con tutta la sociologia demonizzante la Rete può rendere ridicoli e volgari, ma non uccide. Per quello occorre ancora la vecchia, mai obsoleta, realtà. La rappresentazione però esige un finale nello stesso teatro in cui si è svolta e quindi Cosimo Pagnani, sanguinante, manda dal cellulare un ultimo post annunciando il delitto con un estremo insulto alla vittima. Per come tutto è accaduto è una chiusa che gli sembra, e quasi è, necessaria.
Dopodiché parte la reazione del pubblico, per lo più positiva. Il profilo viene rimosso quando ci si accorge che i like sono oltre 300. Qualcuno pensa che siano giudizi inavvertiti, ma un altro frequentatore della rete controlla: solo 32 sono precedenti alla notizia dell’omicidio, gli altri 265 vengono apposti quando la fine è nota. Parlare per questo di social murder sarebbe una sciocchezza: Facebook è uno strumento come lo è un coltello, utilizzabile da un raffinato chef o da un matto. La caratteristica del giudizio emesso in Rete è l’assenza di mediazione, una specie di intercettazione senza filtro, nemmeno della voce al telefono, peggio: del pensiero nella testa.
Schiacciare like è un gesto da scimmia in laboratorio, si reagisce con un istinto primitivo e, quindi, più bestiale che umano. La cosa veramente esecrabile è che dopo, con tutto il tempo per riflettere e agire di conseguenza, decine di siti abbiano pubblicato il post dell’assassino così com’era, insulto postumo incluso. E giudizi morali a seguire

"Ascoltate chi sta sul campo", di Giuseppe De Rita – Corriere della Sera 2.12.14

Forse è un falso allarme. Ma le ultime settimane, coronate da un forte quanto inatteso assenteismo elettorale, hanno rimesso in discussione l’ambizioso disegno di disintermediare il rapporto fra politica di vertice e singoli cittadini attraverso la delegittimazione delle varie sedi intermedie di confronto e di mediazione. C’erano, ci sono state, tutte le condizioni per l’affermarsi di tale disegno: l’indicazione di un indiscutibile primato della politica; una forte leadership verticistica; una sua crescente empatia consensuale; una conseguente chiara volontà di rivolgersi direttamente ai cittadini; una notevole disponibilità di strumenti di convincimento collettivo (dalle conferenze stampa alle slides e ai tweet). Naturale quindi la tentazione di fare a meno di quelle tante sedi di confronto che hanno nei decenni appesantito ed invecchiato i processi decisionali e il rapporto fra politica e collettività. Ed è naturale l’orientamento a rottamare la concertazione; a mettere in discussione la capillarità degli apparati di partito; a disconoscere il valore oggettivo delle lotte e delle strutture sindacali; a guardare con sospetto le intenzioni delle rappresentanze imprenditoriali; a rendere secondario il mondo dell’associazionismo e del terzo settore. In altre parole, la volontà politica sembra voler fare a meno della rappresentanza e degli enti intermedi; e non solo nella dialettica socioeconomica, ma anche nell’articolazione dei poteri territoriali si sono combinate varie opzioni forti: la delegittimazione e anche la soppressione di Province, Camere di commercio, Prefetture. I n sintesi, fra il potere politico e i singoli soggetti sociali (cittadini e Comuni) sembra che si voglia creare uno spazio vuoto, liberato dalle strutture e dalle istituzioni intermedie. Certo, queste non erano (e non sono) in ottima salute, segnate da varie debolezze interne e da una bassa reputazione pubblica; ma la volontà di disintermediazione non ha adeguatamente riflettuto su tre aspetti delicati: anzitutto non ha tenuto conto del fatto che il consenso empatico di vertice spesso evapora come gli eventi piccoli e grandi che l’hanno supportato; in secondo luogo ha pensato che bastasse, per ottenere l’obiettivo, solo la facile rottamazione dell’esistente; ed infine non ha avvertito che il consenso si conquista con la quotidiana fatica di capire individui e problemi. Per capire cosa succede in fabbrica occorre qualche intelligente delegato di reparto; per guidare o fronteggiare uno sciopero o un’occupazione servono capi sindacali competenti e coraggiosi; per capire le preoccupazioni dei piccoli imprenditori occorre la disponibilità quotidiana dei quadri associativi; per capire cosa succede nel dissesto idrogeologico servono ricerche e tecnici a livello provinciale e camerale; per capire cosa bolle nell’orientamento politico delle masse occorrono quelli che una volta si chiamavano «uomini di collegio» capaci di spendersi sul territorio; per «annusare» le variazioni antropologiche delle diverse aree del Paese è essenziale il ruolo quotidiano delle migliaia di operatori del mondo del volontariato e del terzo settore. Nessuno esclude la congenita debolezza di tutte queste figure, ma senza di esse non c’è possibilità di raccordo e di dialettica fra politica e società. Per cui la tentazione della disintermediazione, pur comprensibile di fronte all’eccesso di concertazione giustamente criticato, resta nuda di fronte alla complessità sociale, a qualche ruvido sciopero aziendale, a qualche mobilitazione di massa, a qualche crisi di elettorato regionale. Questo vuol dire che la disintermediazione è un’illusione? Forse no, ma se si pone attenzione ai recenti campanelli d’allarme sarebbe bene che tutti i soggetti in causa (governativi e di rappresentanza, centrali e intermedi) si impegnino a ripensare a fondo le loro specifiche strategie e le loro dinamiche di confronto.