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"Muse da record" di Guido Guerzoni, Il Sole 24 Ore 07.12.14

Pochi giorni fa il Museo delle Scienze di Trento ha licenziato un succinto documento che contiene informazioni meritevoli di attenzione. Persiste, innanzitutto, il successo di pubblico; dall’inaugurazione del 19 luglio 2013 al 16 novembre 2014 sono stati registrati 702.685 ingressi, con un trend in crescita che rende plausibile il raggiungimento di un milione in due anni.
Questi risultati collocano la gemma di Renzo Piano tra i dieci musei più visitati d’Italia (il primo tra gli scientifici e l’unico situato in una città con meno di 120mila abitanti, ove il Mart di Rovereto svetta tra gli under 40mila) e meritano alcune considerazioni.
La prima riguarda il profilo del personale: se nel 1988 il Museo delle Scienze aveva 24 dipendenti – di cui 3 laureati – oggi ne ha 120, con 80 laureati, svariati dottori di ricerca e un’età media di 34,5 anni (nel 2012 quella dei 21.455 dipendenti del ministero Mibact era pari a 53,97 anni e solo il 20,86% era laureato).
La seconda concerne lo studio di fattibilità elaborato dal Muse nel 2003, tacciato di avventurismo per aver ipotizzato l’attrazione fatale di 160mila visitatori annui, indi ascesi alla quota tonda tonda di 200mila, meno della metà di quanti hanno varcato l’ingresso del museo al suo primo compleanno.
Sebbene “impossibile” sia l’aggettivo più pronunciato dai decisori tricolori, cronicamente afflitti da un doloroso torcicollo da diniego (no, no, no), chi scrive non è stupito da simili numeri. Di là dal fascino emanato dalla qualità architettonica della sede e dalla fama del suo progettista, esiste comunque una diffusa e comprensibilissima voglia di conoscere ed esplorare spazi museali innovativi.
Il desiderio è acuito dalla loro rarità, poiché negli ultimi trent’anni in Italia sono stati costruiti ex novo pochissimi musei (maglia nera Ue): tanti restauri di pregio, recuperi di manufatti industriali e rifunzionalizzazioni di edifici storici, ma scarsissime, travagliate e sanguinose nuove edificazioni, dacché «tanto non ne abbiamo bisogno».
Eppure nei musei più intelligenti oggi la forma è più che mai funzione: l’epocale mutazione delle missioni, delle funzioni e dei pubblici museali avvenuta nelle ultime decadi ha infatti determinato il radicale ripensamento delle soluzioni architettoniche, delle dotazioni impiantistiche, dei layout distributivi e dei principi espositivi, per sposare nuovi approcci museologici e rispettare standard museografici che esigono spazi, zonizzazioni e servizi concepiti ad hoc. I contenuti e le loro modalità di rappresentazione e narrazione sono più rilevanti dei contenitori, soprattutto quando, come nel caso trentino, vengono a sanare ferite annose, inferte dalla condizione di subordinazione in cui sono state colpevolmente confinate la cultura e la museologia scientifica italiane.
Le scienze sono importanti quanto le arti e meritano spazi e attenzioni di pari dignità e valore; il patrimonio culturale non è costituito solo da reperti archeologici e opere d’arte, ma anche da collezioni, competenze e conoscenze tecnico-scientifiche che il mondo ci invidia, nell’indifferenza generale.
Il successo del Muse non può essere pigramente ascritto al solo magnetismo della StarArchitecture, perché è figlio delle scelte consapevoli di migliaia di famiglie e persone che nel 70% dei casi non risiedono in provincia di Trento e hanno speso cifre rilevanti per visitare un museo il cui compito è: «interpretare la natura con gli occhi, gli strumenti e le domande della ricerca scientifica, invitando alla curiosità scientifica e al piacere della conoscenza per dare valore alla scienza, all’innovazione, alla sostenibilità».
Questa cospicua affluenza, grazie a un’intelligente politica di pricing (l’ingresso intero costa 9 euro, il ridotto 7, una famiglia di due genitori con bambini di max 14 anni ne paga 18, un genitore con bambini di max 14 anni ne sborsa 9), ha determinato il raggiungimento di un altro obiettivo strategico: le entrate proprie del Muse, su un budget di 11 milioni annui, superano il 40% del totale, una percentuale che in Italia viene colta da meno di 10 dei 6.350 musei esistenti.
Oggi anche per i musei l’imprenditorialità è una condizione necessaria ma non sufficiente per sopravvivere, in una Nazione con un debito pubblico di 2.200 miliardi di euro e non a caso il Muse ha calcolato l’impatto economico codeterminato dal finanziamento che riceve annualmente dalla Provincia, pari a 6,5 milioni di euro.
Secondo stime prudenziali, dall’apertura ha generato un impatto economico nel territorio provinciale di oltre 50 milioni di euro: 10,8 di impatto diretto (acquisti e stipendi netti); 7,9 di impatto fiscale (contributi Irpef, Irap, Ires e Iva versati da dipendenti, collaboratori, fornitori e aziende concessionarie); 32,15 di impatto sul sistema economico provinciale (provocato dagli acquisti di beni e servizi dei visitatori venuti a Trento da fuori provincia per visitare il museo).
In base a questi calcoli, che non considerano gli effetti indiretti e indotti e sottostimano il valore totale (secondo lo scrivente più vicino a 80 che a 50 milioni), il finanziamento provinciale non è un sussidio, ma un investimento il cui ritorno, grazie alla permanenza in loco dei gettiti fiscali, è più che positivo, dal momento che il valore del contributo pubblico è inferiore a quello del gettito fiscale rientrante nelle casse provinciali.
Cifre e metodi su cui vale la pena di riflettere a fondo, invece di lamentarsi.

"A Matera la prima Scuola di restauro del Sud", di Eliana Di Caro – Il Sole 24 Ore 07.12.14

Nel cuore del centro storico di Matera, in via La Vista, a un soffio dai tanti accessi ai Sassi, qualcosa si muove. «Le aule sono quasi pronte, stanno arrivando gli ultimi arredi. I laboratori di restauro e quelli scientifici sono in via di completamento»: Gisella Capponi, direttore dell’Istituto superiore per la conservazione ed il restauro, si riferisce all’ultima nata, la Scuola di restauro, figlia della prestigiosa sede romana, i cui corsi partiranno l’anno prossimo.
Un risultato che arriva alla fine di un lungo percorso. «L’Istituto, nel 2006, aveva pensato di aprire una Scuola nel Mezzogiorno e aveva scelto Matera, sia per il riconoscimento tributato dall’Unesco ai Sassi, sia per l’interesse e la sensibilità dimostrati dalle istituzioni del territorio, dall’Università alla Fondazione Zetema. Eravamo inoltre colpiti dal fascino indubbio di questa città», racconta Capponi. L’idea fu raccolta dagli enti locali, e dopo una serie di difficoltà logistiche e burocratiche, «il Comune ha messo a disposizione il complesso conventuale di Santa Lucia Nova, dove si terranno i corsi, che saranno a tutti gli effetti corsi di laurea magistrale a ciclo unico con durata quinquennale», come è stato definito nel 2011. Il bando uscirà a maggio per l’anno accademico 2015-2016, i posti saranno con ogni probabilità 20, si dovranno sostenere tre prove: una grafica, un test pratico-percettivo e una orale. Gli stranieri possono partecipare, purché superino un esame di lingua italiana.
«Sono previsti – spiega ancora il direttore – due percorsi formativi: il primo riguarda i materiali lapidei e le superfici decorate dell’architettura, con l’obiettivo di avere dei tecnici in grado di salvare realtà preziose proprio come quella materana; il secondo corso comprende manufatti e dipinti su supporto ligneo e tessile, manufatti scolpiti in legno, arredi e manufatti polimaterici».
La notizia della Scuola di restauro arriva in concomitanza con quella di Matera capitale della cultura europea 2019. C’è un nesso tra le due cose? «A onor del vero, no, sono indipendenti. Anche se la vittoria europea mi rassicura perché aumenta l’attrazione per la città e sono tranquilla che tutto verrà fatto. Allo stesso modo per la Scuola c’è stato subito un grande entusiasmo, ho ricevuto molte email in cui mi si chiedevano notizie: da parte di restauratori interessati alle docenze, o di centri di ricerca come il Cnr che si è dichiarato disponibile a collaborare con noi. Il mio intento è che, una volta istituita, si possano fare convenzioni con centri di eccellenza e ricerca della Regione, perché voglio che sia radicata nel territorio». La “Scuola madre” di restauro, quella romana, ha 71 allievi che a luglio e settembre lavorano nei cantieri attinenti ai percorsi formativi prescelti. Hanno fatto esperienze anche in Cina e Giordania.
«I corsi – tiene a specificare Capponi – hanno un forte carattere interdisciplinare. Oltre ai restauratori – uno per ogni cinque studenti, come prevede la legge – ci sono chimici, fisici, biologi, architetti, storici dell’arte, esperti di documentazione: è attraverso l’apporto di tante professionalità che si arriva ad ottenere un buon restauro. Gli allievi devono lavorare per l’80% su opere d’arte, non su prototipi».
Per Matera, dunque, un buon traguardo, la cui storia ha radici ancora più lontane. «Bisogna risalire – rievoca Raffaello De Ruggieri, presidente della Fondazione Zetema, associazione culturale che ha spinto moltissimo per questa Scuola – al 23 novembre del 1980. Il soprintendente Michele D’Elia, dopo il terremoto, doveva metter in salvo statue e tele sottratte alle chiese in parte crollate o pericolanti. Creò una specie di pronto intervento per il patrimonio in ambienti d’occasione. Poi si pensò di trovare un “ospedale da campo” dove ricoverare questi beni e con l’Amministrazione comunale si individuò un’ampia struttura nell’area artigianale Paip 1, dove si allestirono laboratori chimici, fisici, diagnostici». Questo il primo passo, ne seguirono molti altri che hanno portato all’interesse di carattere nazionale del 2006. Ma l'”ospedale da campo” fu in qualche modo antesignano della Scuola di restauro nella città dei Sassi.

"Solo la cultura ci potrà salvare", di Gilberto Corbellini – Il Sole 24 Ore 07.12.14

Alla fine gliel’abbiamo fatto, a essere primi in Europa per qualcosa: facciamo registrare il più elevato tasso di corruzione secondo gli ultimi rilievi di Transparency International. Un tragico primato d’immoralità civile che, insieme alla criminalità organizzata e all’evasione fiscale, è destinato a vanificare qualunque tentativo di far ripartire economicamente e socialmente il Paese. Parlando a Milano, il 7 novembre scorso, sui danni causati dall’economia criminale, il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco invocava più efficaci strumenti normativi per contrastare e prevenire la corruzione, che disincentiva gli investimenti di capitali stranieri, senza i quali mai e poi mai ci si risolleverà dal declino economico e sociale. Si può combattere e limitare la corruzione solo con interventi legislativi? Probabilmente no. Il Governatore Visco, che ha studiato l’economia del capitalismo cognitivo, sa che esiste una ricca ed empiricamente validata letteratura, la quale dimostra che le persone rispettano le regole scritte e condivise se e solo se hanno maturato, in età pre-adulta e attraverso specifiche esperienze socio-culturali e processi educativi, una capacità individuale, sul piano psicologico-morale, di apprezzare il valore e l’utilità di procedimenti istituzionali trasparenti, affidabili e competitivi.
In uno studio che è già un “classico”, Daniel Treisman (The causes of corruption: a cross-national study, Journal of Political Economics 76; 2000; pagg. 399-457) confermava un dato noto da tempo: le nazioni con tradizioni protestanti e quelle con economie più sviluppate hanno governi di qualità superiore, ed entrambi questi fattori sono significativamente e robustamente associati con una più bassa percezione di corruzione. Inoltre, i Paesi con una storia di legislazioni penali e civili britanniche sono regolarmente classificati come meno corrotti. Chi leggeva per primo questo fenomeno, lo spiegava in termini di superiorità del sistema di common law. Treisman lo attribuisce all’esistenza in Gran Bretagna e nei Paesi che sono stati colonie britanniche di una cultura giuridica che apprezza il sistema della giustizia procedurale – incentrato su neutralità, fiducia e riconoscimento del proprio status; un sistema nel quale le norme sanciscono e garantiscono dell’irrilevanza delle opinioni e sensibilità valoriali soggettive, inevitabilmente discordi. Ormai persino i sassi, ma non gli intellettuali e politici italiani, sanno che confondendo opinioni e fatti, o peggio privilegiando le opinioni si commettono solo errori e ingiustizie.
Dall’ampia raccolta di dati e approfondita analisi sugli indicatori correlati alla corruzione, Treisman ricavava che gli stati federali sono più corrotti di quelli unitari, a causa delle competizioni tra livelli autonomi di governo per un sovra-sfruttamento delle risorse, e che è importante l’efficienza delle istituzioni democratiche nel tenere bassa la percezione della corruzione. Anche la durata dell’esposizione della popolazione alla democrazia e a un’economia di libero scambio correla con una ridotta la corruzione, ma non è chiara la direzione del rapporto causale.
Dato che siamo fuori tempo massimo per fare una riforma protestante e una rivoluzione liberale, forse bisogna prendere un’altra strada per tentare di uscire dal tunnel. Per esempio provare a capire perché esiste la corruzione e se c’è qualche intervento che sia praticabile in tempi ragionevoli. Nella discussione sulle cause della corruzione, negli ultimi anni sono entrati in campo utili studi sulla storia evolutiva del comportamento sociale umano. Da questi risulta che corrompere e farsi corrompere non era svantaggioso, e al limite poteva essere adattativo nelle società con gerarchie di dominanza e con economie a somma zero.
Due biologi evoluzionisti hanno fatto una simulazione dell’efficienza sociale e dei criteri di accettabilità di un sistema di esercizio del potere, come quello dei pubblici ufficiali incaricati di far rispettare la legge, scoprendo che un livello minimo di corruzione, nella forma di privilegi illegali concessi a questi funzionari, rafforza il funzionamento e le prestazioni delle società umane (F. Úbeda, E.A. Duéñez-Guzmán, Power and Corruption, Evolution 2011, 65 (4), pagg. 1127-39). Questa scoperta non significa che la corruzione sia un bene. Ovvero, probabilmente lo è nelle società che si trovano più prossime a condizioni naturali di espressione della psicologia sociale umana, nel senso che può servire a ridurre abusi di potere. Nelle nostre società complesse è tutt’altra faccenda. In ogni caso, quando si applica una logica evoluzionistica all’origine dei comportamenti umani, si può scoprire che quel che tiene insieme le nostre società non è necessariamente quel che giudichiamo astrattamente o a priori come buono e giusto.
Lord Acton aveva ragione a sostenere che il «potere corrompe». Un gruppo di ricercatori ha dimostrato che l’esperienza psicologica del potere è associata alla ricerca del proprio interesse particolare. L’esperimento ha anche mostrato che questo vale soprattutto per chi ha una «debole identità morale», mentre chi ha una forte identità morale vede incrementata la propria consapevolezza etica attraverso l’esperienza psicologica del potere (DeCelles, Katherine A.; DeRue, D. Scott; Margolis, Joshua D.; Ceranic, Tara L., Does power corrupt or enable? When and why power facilitates self-interested behavior, Journal of Applied Psychology, Vol 97(3), May 2012, 681-689). Ma che cosa sarebbe fattibile in tempi più o meno rapidi per migliorare la qualità morale degli italiani?
In occasione della pubblicazione del Manifesto per la Cultura avevo riportato su queste pagine che uno studio condotto da Niklas Potrafke su 125 Paesi (Intelligence and Corruption, Economics Letters 2013; 114: 109-112) aveva rilevato che dove ci sono livelli di prestazioni intellettuali più alti, la corruzione è più bassa. Il rapporto tra livello di intelligenza nazionale, intesa come misura del “capitale cognitivo”, e un più efficace controllo sulla corruzione, oltre che sull’efficienza del governo e dello stato di diritto, è confermato da un recentissimo studio dell’economista sudafricano Isaac Kalonda Kanyama, che nel discutere i dati sottolinea come questo non significhi che ci sono Paesi abitati da persone più intelligenti, che realizzano istituzioni più efficienti, e Paesi abitati da stupidi, che mettono a punto istituzioni più povere. Il concetto che emerge da questo e altri studi sul ruolo del capitale cognitivo nella progettazione e nel governo dei sistemi liberali e capitalisti, è che il livello di comprensione cognitiva delle regole e dei principi, che fanno funzionare le istituzioni liberaldemocratiche, e la stretta cooperazione tra il capitale cognitivo e le istituzioni nazionali, sono importanti per la qualità della vita istituzionale di quel Paese (Quality of institutions: Does intelligence matter?, Intelligence 2014, 42: 44-52.)
La cura e la prevenzione della corruzione, se vuole davvero metterle in atto, richiedono di agire sulla formazione della psicologia cognitiva e morale individuale nelle fasi giovanili di maturazione e stabilizzazione delle capacità decisionali. Non a caso infatti lo stesso Governatore Visco insiste sulla necessità di investire in istruzione e ricerca. Questo significa che è nelle scuole e attraverso dinamiche famigliari di attaccamento salutare che si costruiscono i sentimenti e ragionamenti potenzialmente virtuosi, e allo stesso tempo emotivamente premianti, che riducono la pratica e il contagio della corruzione. Purtroppo anche i rapporti famigliari in Italia tendono a essere patologici, cioè a produrre forme di attaccamento che non promuovono fiducia e cooperazione, ma prevalentemente una condizione di arretratezza sociale che è il “familismo amorale”, storicamente definita proprio in Italia oltre mezzo secolo fa.

Factory 365, l’on. Ghizzoni parlerà di tasse e risorse per gli atenei – comunicato stampa 06.12.14

 

Domenica 7 dicembre la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni sarà a Roma tra gli ospiti di Factory 365, la due giorni organizzata dai Giovani democratici per discutere le tematiche più importanti per il Paese, oggetto di 60 tavoli di lavoro a cui parteciperanno giovani da tutta Italia. Manuela modenese interverrà al tavolo dedicato alla tassazione e finanziamento universitario, un tema su cui è da tempo impegnata. Ecco la sua dichiarazione:

 

“Abbiamo le tasse universitarie fra le più alte d’Europa: questo dato allarmante, se letto insieme ad una distribuzione non equa dei redditi, a squilibri territoriali e alle poche borse di studio (sono circa 46.000 gli studenti meritevoli che rischiano di rimanere senza), sta causando una preoccupante emorragia di iscrizioni, come già evidenziano gli ultimi rapporti sull’accesso universitario. Un patrimonio di talenti e creatività disperso. Per questo ho lavorato a lungo a una proposta di legge che ridisegna completamente la tassazione universitaria per renderla finalmente equa, progressiva e inclusiva. Questo tema, insieme a quello dei finanziamenti all’università e alla ricerca, è una delle chiavi di volta di una politica che investe nello studio come leva del progresso di un Paese. Le voci le idee e le domande che usciranno dal “laboratorio” di Factory 365 dovranno essere ascoltate dal Pd con molta attenzione, perché arrivano da una generazione che ha bisogno di una politica in cui credere”.

"Ricercatori italiani come panda. In dieci anni «scomparsi» 9 su 10", di Claudia Voltattorni – Corriere della Sera.it 05.12.14

«Sono stanca di fare il panda, basta con le pacche sulle spalle: noi vogliamo un impegno serio, siamo persone con anni di ricerca e studio alle spalle, abbiamo competenze acquisite qui in Italia, vogliamo spenderle qui, non all’estero». Perciò Valentina Bazzarin, 34 anni, bolognese, ricercatrice di Scienze Politiche è arrivata a Roma insieme con altri suoi colleghi ricercatori di tutta Italia. Per un flashmob contro il jobs act, ma soprattutto per dire che «l’università italiana si sta impoverendo e questo è un problema di tutto il Paese, non solo nostro». E forse non ha tutti i torti a ben vedere i dati dello studio «Ricercarsi» commissionato dalla Flc Cgil e presentato giovedì mattina al Senato.

Esodo

Negli ultimi 10 anni, spiega Francesco Vitucci, uno degli autori della ricerca ed ex ricercatore precario, «negli atenei italiani c’è stato un vero e proprio esodo: su 100 ricercatori precari, l’università ne ha espulsi più di 93». Che significa persone formate e poi lasciate andare via, all’estero magari, ma anche a fare tutt’altro rispetto a quello per cui hanno studiato per anni. Uno spreco di competenze. Non solo. A causa del blocco del turn over, nel 2014 l’università italiana ha perso tra docenti e ricercatori 2183 unità: a fronte di 2324 pensionamenti infatti sono stati attivati solo 141 ricercatori di tipo b, cioè quelli che poi, dopo 3 anni possono essere stabilizzati.

Il comma 29

A tutto ciò, spiegano gli autori dello studio e i ricercatori arrivati a raccontarsi, si deve aggiungere l’aumento di contratti precari, dai 6mila nel 2004 agli oltre 14mila del 2014. «E sarà sempre più così», spiega Francesca Coin, altra ricercatrice. Perché nella legge di stabilità appena approvata al Senato c’è un comma, il 29 all’articolo 28, che elimina l’obbligo (previsto dalla legge Gelmini) di attivare contratti di tipo b per i ricercatori quando un docente va in pensione, «contratti che almeno in futuro garantivano un’assunzione a tempo indeterminato: quel comma – spiega ancora Vitucci – invece è la pietra tombale sul reclutamento universitario». I 20mila ricercatori della università d’Italia sono inoltre destinati a ridursi notevolmente dal primo gennaio 2015, quando, per effetto della legge Gelmini, scadranno definitivamente gli assegni di ricerca della durata massima di 4 anni non rinnovabili. Lo stesso accadrà il prossimo anno con gli altri contratti di ricercatore a tempo determinato, al massimo 5 anni.

«Università italiana in crisi»

Che fine faranno tutti questi lavoratori? La bestia non è stata affamata, è stata proprio strangolata», interviene Francesco Sinopoli, segretario nazionale Flc Cgil che accusa governo e Miur «acefalo» di «essere totalmente disinteressati all’università». Ed elenca: «Cala il numero dei docenti, cala il numero dei ricercatori, calano le immatricolazioni: c’è stata una ristrutturazione anarchica dell’università, c’è una parte dell’establishment economico (ma anche politico) che combatte l’idea di una funzione sociale dell’università, invece oggi c’è bisogno di un progetto urgente, ma che sia legato a tutto il sistema Paese». Conclude la deputata pd Manuela Ghizzoni, vicepresidente della Commissione cultura alla Camera: «L’Italia è il Paese in Europa che ha il numero più basso di ricercatori, 151mila contro i 520mila della Germania e i 429mila del Regno Unito: il nostro Paese ha fame di ricerca e se non mettiamo i nostri ricercatori in condizione di lavorare con certezza e serenità non costringendoli a sopravvivere nel limbo della precarietà, condanniamo il nostro Paese a non progredire».

L.stabilità, Ghizzoni “Troppo pochi i ricercatori, al Senato risposte” – comunicato stampa 04.12.14

“La Legge di stabilità, attualmente all’esame del Senato, rappresenta un’occasione importante per cominciare a imprimere la svolta di cui il sistema universitario ha un bisogno vitale”: lo dice la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni commentando i dati dell’indagine di Flc-Cgil “Ricercarsi” che provano come in Italia ci siano troppo pochi ricercatori, un fenomeno che depaupera il complessivo sistema della conoscenza.

“I dati presentati dall’indagine ‘Ricercarsi’ sono drammatici ma non stupiscono certo chi si occupa di politiche universitarie, e saranno utili per infrangere i tanti luoghi comuni. Primo fra tutti quello secondo cui in Italia ci sono troppi ricercatori. La verità è opposta: il nostro Paese ne ha invece fame”. Lo dichiara Manuela Ghizzoni, deputata modenese del Pd e componente della Commissione Cultura della Camera, per commentare i dati di Ricercarsi, l’indagine sui percorsi di vita e lavoro nel precariato universitario presentata da Flc-Cgil. “Secondo i ultimi dati Eurostat del 2011 – spiega Ghizzoni – a fronte di 520mila ricercatori in Germania, di 429mila nel Regno Unito, di 338mila in Francia, l’Italia ne aveva solo 151mila. E la situazione, già allora desolante, dal 2011 a oggi è peggiorata”. “I giovani ricercatori dell’università – prosegue la deputata democratica – giocano un ruolo fondamentale nel sistema della conoscenza e se non li mettiamo nelle condizioni di lavorare con certezza e serenità ma, al contrario, li costringiamo a sopravvivere nel limbo della precarietà, condanniamo il nostro Paese a non progredire”. “I punti da affrontare al più presto per porre rimedio a questa situazione sono due. Creare le condizioni per bandire con regolarità, e in numero significativo, posti da ricercatori in tenure-track, così da permettere ai giovani di talento una futura immissione in ruolo accademico. In secondo luogo, rimuovere i vincoli imposti dal blocco del turn over che, con il suo limite del 50%, determina nell’università un insopportabile depauperamento di talenti. A questo scopo, si potrebbero utilizzare le risorse, o parte di esse, che Legge di stabilità ha destinato alla quota premiale del fondo di Finanziamento ordinario”. “La Legge di stabilità, appunto, attualmente all’esame del Senato, rappresenta un’occasione importante per cominciare a imprimere la svolta di cui il sistema universitario ha un bisogno vitale. Per questo, non possiamo permetterci di sprecarla”, conclude Manuela Ghizzoni.

"Università, sempre meno matricole e sempre più abbandoni e pentimenti. Crolla popolazione 19 anni", La Repubblica 04.12.14

Il rapporto annuale di Almalaurea sui diplomati evidenzia un quadro scoraggiante: nel nostro paese diminuiscono i giovani, dopo il diploma solo il 30% prosegue gli studi, tantissimi lasciano durante il primo anno e molti se potessero tornare indietro farebbero un percorso diverso

Neodiplomati demotivati e “frastornati” che sbagliano sovente la scelta universitaria e si pentono del percorso scolastico appena concluso. Il quadro che scaturisce dall’annuale rapporto di Almalaurea sui diplomati nel 2014 è tutt’altro che incoraggiante. E richiama l’attenzione della classe politica sui giovani. “Il nostro è un Paese – dichiara Andrea Cammelli, fondatore nel 1994 e direttore del Consorzio Interuniversitario AlmaLaurea – che sta “perdendo”, a causa di mancate nascite, giovani ad una velocità impressionante. Si tratta di una vera e propria emorragia che si traduce in una contrazione della popolazione diciannovenne, negli ultimi 30 anni, del 40 per cento (-389mila ragazzi e ragazze). Quella che un tempo si chiamava piramide per età oggi, in Italia, è diventato un asso di picche, con forti restrizioni alla base”.
E’ ovvio quindi che “un Paese come il nostro – continua Cammelli – debba dotarsi degli strumenti necessari per evitare di dissipare un bene prezioso come il proprio capitale umano. A partire dai giovani: una risorsa sempre più rara, sulla quale invece occorre tornare ad investire per ridare loro un futuro”. Il Report è stato presentato questa mattina a Roma, in occasione del XII Convegno nazionale “Orientamento in e per la scuola”. Le linee guida per l’autovalutazione degli Istituti secondari”. A fotografare il pianeta dei giovani appena diplomati tre dati su tutti: la percentuale di 19enni che si iscrive all’università, il numero di immatricolati che abbandona l’università al primo anno e coloro che cambierebbero scelta dell’indirizzo scolastico, se potessero tornare indietro.

Sono tre gli indicatori di un sistema scolastico che non funziona certamente in termini di Orientamento all’uscita della scuola media e della scuola superiore, in termini di sostegno alle new entry all’università e per motivazione a proseguire gli studi. La percentuale di ragazzi di 19 anni di età rappresenta poca cosa per un paese industrializzato con ambizioni di crescita. Per Cammelli il basso numero di studenti che prosegue gli studi è anche da attribuire “all’assenza di una seria politica di diritto allo studio” che si registra in Italia. E il 15 per cento di matricole che si disperdono dopo qualche mese di lezioni deve fare riflettere coloro che intendono rilanciare l’istruzione universitaria italiana. Quasi metà – il 46 per cento – di neodiplomati, inoltre, si è pentito della scelta fatta dopo la licenza media. E la dispersione scolastica – che piazza l’Italia ai primissimi posti in Europa ne è la conferma.

“Probabilmente, un’organizzazione scolastica superiore basata su un primo biennio comune a tutti gli indirizzi di studio – dichiarano da Almalaurea – e il posticipo della vera e propria scelta a 16 anni consentirebbe al giovane di compiere una valutazione più matura e consapevole”. Per Almadiploma 2014, sono stati “intervistati” oltre 40mila giovani appena diplomati. Ecco l’identikit: voto medio di maturità pari a 76 su cento, 6 per cento diplomati con 100 e lode e 86 per cento in regola con gli studi. Inoltre, l’82 per cento dei diplomati si dichiara moderatamente o pienamente soddisfatto dell’esperienza scolastica appena conclusa. Studenti soddisfatti, nel complesso, anche degli insegnanti: il 78 per cento dei diplomati è soddisfatto della loro competenza, il 72 per cento della chiarezza espositiva e della disponibilità al dialogo e il 63 per cento è soddisfatto della loro capacità di valutazione.

Neodiplomati meno soddisfatti invece delle infrastrutture scolastiche: meno della metà – il 49 per cento – è soddisfatto delle attrezzature sportive, poco più della metà – il 51 per cento – delle aule. Ma il Report mette in evidenza anche una scuola che sta cambiando: il 52 per cento degli studenti – soprattutto nei tecnici e negli istituti professionali – ha svolto stage all’estero; il 32 per cento ha compiuto esperienze di studio all’estero e il 58 per cento ha svolto un’attività lavorativa, in prevalenza stagionale. Migliorano le competenze degli studenti sulle lingue straniere e anche le competenze informatiche, che vengono giudicate “buone”. E dopo l’esame conclusivo “54 diplomati su cento intendono iscriversi all’università, 21 pensano di cercare un lavoro, 7 ritengono di riuscire a coniugare lavoro entrambe le attività”.