Latest Posts

"In fuga dalla scienza vittime degli sciamani", di Rosario Sorrentino – Corriere della Sera 13.12.14

Caro direttore, il nostro è un Paese con una lunga tradizione antiscientifica. Gli ingredienti sono vari e affondano le loro radici nell’integralismo cattolico, in quella filosofia ancora impregnata dal neoidealismo di Croce e Gentile e da un dogmatismo laico che mostra tutta la sua insofferenza nei confronti di una scienza che, ai vaniloqui di varia natura, esibisce ricerche e progressi su cui riflettere. Lo stesso termine «cultura» viene utilizzato spesso in senso restrittivo, quasi esclusivo, e c’è chi ancora oggi vagheggia una cultura «alta» di tipo umanistico da contrapporre a una cultura «minore» di tipo scientifico.
Gli scienziati poi vengono percepiti, con le loro scoperte, come persone che possono insidiare comode egemonie, privilegi o interessi consolidati. Sono guardati con sospetto e vengono confutati, nelle loro acquisizioni, spesso da persone di scarsa competenza e con modalità ideologiche, a volte pretestuose. I riflessi di tutto ciò rappresentano il vero «brodo di cultura» per quella che considero «l’onda lunga» di un sentimento antiscientifico ancora diffuso nella nostra società. Si percepisce, per esempio, un senso di fastidio nei confronti della scienza medica, oltre al tentativo di sminuire il rapporto tra medico e paziente, a favore del fiorire di una impressionante lista di pseudoscienze che nell’immaginario collettivo sono più rassicuranti e capaci di risolvere l’impossibile.
È evidente, di fronte a una diagnosi scomoda, la fuga dalla scienza ufficiale e l’approdo a discipline di varia natura, abili a trasformare una cosa in una non cosa, dai significati ambigui, che richiede «terapie» diverse, alternative. Ed è così che si afferma il «neosciamanesimo», e la ricerca mostra tutto il suo affanno e l’incolmabile ritardo. Siamo passati con disinvoltura, dal «metodo Di Bella» a «Stamina», alla più recente e pericolosa campagna mediatica contro la vaccinazione. Questo è paradossale, perché i vaccini rappresentano una delle più grandi conquiste della scienza che hanno contribuito a cambiare il destino dell’umanità e noi abbiamo il coraggio di metterli in discussione dimostrando il nostro autolesionismo e una scarsa propensione ad apprendere dall’esperienza, creando anche i presupposti per la fuga da un protocollo medico consolidato, basato sulla prevenzione, grazie al quale ogni anno si salvano migliaia di vite. La verità è che il nostro è un Paese che non ama la scienza e mostra, di fatto, una diffidenza di fondo pronta a scattare al minimo dubbio, espressione di una disinformazione diffusa e della mancanza di conoscenza dei fatti. Ed è l’assenza di cultura scientifica il nostro vero tallone d’Achille e purtroppo c’è la tendenza a ricordarsi della scienza solo nei momenti di disperazione o di emergenza, chiedendo ad essa risposte rapide e sicure. E questo dimenticando che spesso la scienza non dispone delle risorse necessarie per realizzare tutto ciò.
Penso che la scienza debba uscire una volta per tutte da una sorta di «sindrome di Cenerentola», ed esercitare, per il bene comune la sua leadership nel nostro Paese, affinché diventi, finalmente, cultura di massa e istituzione tra le istituzioni orientando così le scelte delle politiche sociali.
Rosario Sorrentino, neurologo

"Ciò che sappiamo di Piazza Fontana", di Benedetta Tobagi – La Repubblica 12.12.14

piazza fontana
Manca poco a Natale. A Milano, nella filiale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana — in pieno centro, proprio dietro al Duomo — come ogni venerdì pomeriggio si stanno svolgendo le contrattazioni tra agricoltori e allevatori giunti dalle campagne lombarde.
Alle 16.37, una bomba esplode e trasforma il salone circolare della banca nell’inferno. Uccide 17 persone, ne ferisce un centinaio. Era il 12 dicembre 1969, quarantacinque anni fa. La prima grande strage accade quando la Repubblica italiana è appena 23enne, una ragazza con molte ingenuità, moltissime speranze e le spalle gravate dal peso dell’eredità del Ventennio fascista a soffocarne gli slanci: poliziotti, magistrati, questori, burocrati ministeriali…gli apparati dello Stato sono ancora innervati di uomini del vecchio regime. È l’inizio di una lunga stagione di terrorismi. Fino al 1974, stragi neofasciste realizzate con l’intento di destabilizzare il Paese e promuovere una svolta autoritaria, o almeno una stabilizzazione conservatrice, contro l’avanzata delle sinistre. Poi, l’escalation del terrorismo rosso, che voleva innescare la rivoluzione e tentò di accreditarsi anche come risposta allo “Stato delle stragi”, per conquistare le simpatie di giovani esasperati e disgustati. Perché i terroristi neofascisti godettero di appoggi e coperture dentro gli apparati di sicurezza, e le stragi restarono per lo più impunite, a causa dei depistaggi. Anche piazza Fontana. Quarantacinque anni dopo, dopo tre lunghi e tormentati processi (potete trovare tutte le sentenze e un riassunto dell’iter giudiziario nel sito fontitaliarepubblicana. it), forse la cosa più importante è rimettere insieme quanto sappiamo della strage di piazza Fontana. Perché sappiamo molto, e ne abbiamo le prove, a dispetto dei depistaggi.
Il massacro di piazza Fontana è ascrivibile a “Ordine Nuovo”, la più pericolosa organizzazione della destra eversiva, che nella sua parte clandestina aveva mezzi e intenti stragisti. Nel 2005, la Cassazione ha dichiarato accertata la responsabilità nell’organizzazione della strage dei terroristi neri Franco Freda e Giovanni Ventura, già condannati per numerosi attentati nella primavera-estate ‘69. Solo sul piano storico, però: già processati, erano stati assolti in via definitiva nel 1987. Resta provato il coinvolgimento dell’armiere di Ordine Nuovo, Carlo Digilio, collaboratore di giustizia dagli anni Novanta. Sappiamo che il Sid, il servizio segreto dell’epoca, ha depistato le indagini: tra tante assoluzioni resta la condanna passata in giudicato degli ufficiali Gianadelio Maletti e Antonio Labruna, per aver aiutato uno dei neofascisti indagati a fuggire all’estero.
«Ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarchici aut frange estremiste. Est già iniziata previe intese Autorità giudiziaria vigorosa azione at identificazione et arresto responsabili» scrisse in un telegramma il prefetto di Milano, Mazza, al presidente del Consiglio Rumor la sera stessa del 12 dicembre 1969. Sappiamo che la falsa pista anarchica che incriminò l’anarchico Valpreda (depistaggio di cui fu vittima innocente e ferocemente calunniata il ferroviere Giuseppe Pinelli), fu costruita ad arte e pervicacemente perseguita dai funzionari degli Uffici politici di Roma e Milano, e dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, che svolsero le indagini a partire dal 12 dicembre 1969: con buona pace dell’articolo 109 della Costituzione, ufficiali di polizia giudiziaria a servizio dei desiderata dell’esecutivo più che della magistratura. Una catena di potere che riconduceva al ministro dell’Interno democristiano Franco Restivo. Sappiamo che funzionari come il questore di Milano Guida, il commissario capo Allegra, Russomanno e Catenacci dell’Uar, e altri, hanno nascosto ai magistrati elementi di prova: l’hanno scoperto e denunciato in una limpida requisitoria del 1974 i pm milanesi Fiasconaro e Alessandrini (assassinato nel 1979 dai terroristi rossi di Prima Linea), prima che il processo gli fosse scippato per spedirlo a Catanzaro, a mille chilometri di distanza dal giudice naturale.
Sappiamo che ci sono strani “buchi” laddove dovrebbero esserci documenti: per esempio, nell’archivio dell’Ufficio affari riservati ritrovato in un deposito sulla via Appia, a Roma, nel 1996, mancano documenti prodotti nei giorni in prossimità del 12 dicembre 1969. Sappiamo che ci sono ancora tanti posti dove andare a cercare: nell’archivio del ministero della Difesa, per esempio, potremmo trovare documenti e lettere che dovettero circolare freneticamente tra il giugno e il luglio del 1973, quando il giudice istruttore D’Ambrosio chiese se il giornalista di destra Giannettini, legato a Freda e Ventura, collaborasse col Sid, e gli fu opposto il segreto politico-militare. E aspettiamo che il ministero dell’Interno versi all’Archivio centrale dello Stato anche le carte dell’Ufficio affari riservati posteriori al 1965, e siano consultabili le carte degli uffici politici delle questure, i fascicoli dei funzionari che ci lavorarono. Ora che la Repubblica è un’anziana signora piena d’acciacchi, vicina ai settanta, sarebbe bello che, a prescindere dalle “direttive straordinarie” che si stanno rivelando di dubbia efficacia, la politica dei versamenti agli archivi divenisse più fluida e regolare.
Non sappiamo ancora tutto, è vero. Ma sappiamo moltissimo e non bisogna lasciare più che qualcuno s’azzardi a dire il contrario, come hanno fatto troppi epigoni della destra degli anni Settanta dopo essere andati al governo nel ‘94. Né dobbiamo scivolare nella fatale tentazione del cinismo, che si fa più forte ogni volta che si alza una nuova ondata di scandali: non potremo mai sapere la verità, l’hanno fatta franca, a che serve? È la solita Italia dei misteri, non vale la pena di provare a capire, ricordare, distinguere, rimettere in fila l’elenco, incompleto e lacunoso, delle responsabilità, e via dicendo. Arrendersi a questi pensieri sarebbe come diventare complici dei depistatori.
Se consideriamo quanto vasto e feroce è stato il dispiegamento di forze del Potere, nelle sue varie articolazioni, per mistificare il vero, creare falsi colpevoli, nascondere i responsabili, è quasi stupefacente quanto sappiamo, grazie all’impegno di molte donne e uomini di buona volontà che hanno continuato, ostinati, a indagare, spesso in solitudine, a dispetto delle minacce e degli ostacoli. Teniamocelo ben stretto. E continuiamo a lavorare perché si possa raccontare sempre più e sempre meglio cosa è accaduto, davvero, in questo Paese.

Pensioni, Ghizzoni “E’ economico tenere a scuola i “Quota 96”?” – comunicato stampa 11.12.14

classe_scuola-768x317

La parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni prosegue il suo impegno a favore dei cosiddetti “Quota‘96”, ovvero il personale della scuola escluso dal pensionamento a causa di un errore della legge Fornero. Mentre fino al 12 dicembre una loro rappresentanza sarà  in sciopero della fame in concomitanza con la discussione in Senato della Legge di stabilità, Manuela Ghizzoni ha presentato un’interrogazione al ministro dell’Istruzione Giannini in cui si chiede se sia più economico sbloccare il pensionamento dei lavoratori con 40 anni di attività alle spalle o mantenere in servizio, a scuola, personale ultrasessantenne.

 

“E’ più economico sbloccare il pensionamento di lavoratori con 40 anni di attività alle spalle o mantenere in servizio personale ultrasessantenne?”. Lo chiede la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera, nell’interrogazione avanzata al ministro per l’Istruzione Giannini a proposito dei cosiddetti “Quota 96”, docenti e personale Ata che hanno visto negato il loro diritto al pensionamento per un errore della legge Fornero, a cui ancora oggi non è stato posto rimedio, mentre, proprio in questi giorni, alcuni di loro stanno attuando uno sciopero della fame in concomitanza con la discussione in Senato della Legge di stabilità. “I soggetti coinvolti – sostiene l’on. Ghizzoni nell’interrogazione – sono mantenuti al lavoro in quanto alla soluzione del problema sono sempre stati  opposti insormontabili problemi di natura finanziaria. Non si sono volute, invece, valutare le conseguenze di un innalzamento forzato dell’età lavorativa e quindi misurare il costo “sociale” del mantenimento in servizio di persone ultrasessantenni. Non appare difficile comprendere quanto sia complesso e faticoso occuparsi per più di 40 anni dell’istruzione di studenti in classi sovraffollate, con la presenza di alunni stranieri, di ragazzi con handicap spesso con sostegno insufficiente, di studenti con DSA o con BES. Un impegno fisico e intellettivo che configura quella dell’insegnante come una professione usurante, causa di stress e predisposizione a contrarre malattie. Questa situazione, in progressivo deterioramento, determina la necessità di frequenti assenze con costi a carico del SSN, del MIUR e dell’INPS, sia per le cure necessarie sia per il pagamento di supplenti. Appare quindi lungimirante – conclude Manuela Ghizzoni – considerare più economico il pensionamento rispetto al protrarsi di questa condizione, tenuto conto della esigenza della continuità didattica, della dignità dei lavoratori coinvolti nonché della necessità di emendare a palesi errori normativi”.

 

INTERROGAZIONE Q96 bornout

 

"Corruzione: Pd propone "codice di condotta" per deputati" – Ansa 11.12.14

Onesta’,integrita’,trasparenza finanziaria,no conflitti interessi

(ANSA) – ROMA, 11 DIC – Adottare anche nell’ordinamento

parlamentare italiano un Codice di Condotta dei deputati: e’

quanto propone Michele Nicoletti deputato Pd, che punta a

modificare il Regolamento della Camera per introdurre quello che

dovrebbe essere una specie di codice deontologico sul modello di

quelli adottati da altri paesi europei ed anche dal Parlamento

europeo.

“La lotta alla corruzione si deve condurre  su diversi

livelli: quello legislativo e quello politico ma anche – afferma

Nicoletti – attraverso codici di comportamento e stili di vita

sobri e rigorosi che contribuiscano a far ritrovare il senso

della dignita’ e dell’onore del servizio pubblico. In un quadro

drammatico come quello che sta vivendo l’Italia serve utilizzare

tutto quanto puo’ contribuire ad un rafforzamento dell’etica

civile”.

Una ‘bozza’ del codice e’ gia’ in cantiere e, al momento, gia’ 151

deputati la sostengono. I ‘criteri’ a cui il codice dovrebbe

ispirarsi sono intanto definiti in una proposta di modifica del

regolamento che punta a stabilire ” principi e norme di condotta

ai quali i deputati devono attenersi nell’esercizio del mandato

parlamentare”. Oltre al rispetto dei principi di “onesta’,

integrita’, trasparenza, rispetto dell’altro” le norme dovrebbero

anche esigere dai deputati “serieta’ nella gestione e

nell’utilizzo di risorse pubbliche”. Dovrebbero inoltre essere

previste norme e procedure per assicurare “trasparenza e

pubblicita’ alle posizioni finanziarie” dei deputati e prevenire

situazioni di “conflitto di interessi”. E per i trasgressori

potrebbero arrivare, oltre alle sanzioni disciplinari, anche

sanzioni pecuniarie e l’ammonizione del Presidente della

Camera.

"L'Europa salvata dai ragazzi di Erasmus", di Timothy Garton Ash – La Repubblica 09.12.14

Mario, studente italiano, mi dice che ce l’aveva con me. Si era arrabbiato per l’articolo che scrissi dopo le europee di maggio, in cui criticavo la candidatura di JeanClaude Juncker alla presidenza della Commissione europea definendola la risposta più sbagliata al diffuso scontento emerso da quell’elezione. Ora che Juncker tira fuori dal cilindro un pacchetto di investimenti a sostegno della traballante economia europea e l’ex primo ministro polacco Donald Tusk si prepara a presiedere il primo vertice dei capi di governo dell’Ue, vale la pena di tornare a chiedersi chi salverà il progetto Europa. La mia risposta è che non si può salvare senza un più attivo coinvolgimento di Mario e dei suoi contemporanei, la generazione Erasmus e Eeasyjet. Ovviamente il salvataggio esige anche valide politiche dall’alto. Ma Super Mario cioè Draghi, il presidente della Bce, non può farcela da solo, neppure con un altro migliaio di miliardi di dollari in bilancio. Serve anche il giovane Mario. Non ho mai visto tanto pessimismo intellettuale riguardo al futuro dell’Ue tra chi (come me) ne è stato appassionato sostenitore. Le cause sono principalmente tre. Innanzitutto l’Eurozona. Loukas Tsoukalis, autorità in materia, nonché filoeuropeo, osserva che «il progetto era sbagliato tanto quanto le adesioni».
Troppe economie, troppo eterogenee, legate da una valuta comune senza fondi comuni. Questi fondamentali difetti di fabbrica sono stati aggravati dalla politica di austerità a guida tedesca che sottovaluta le differenze tra le culture economiche nazionali e la necessità di maggiori investimenti e di aggregazione della domanda all’interno dell’Ue. La seconda causa di pessimismo è la politica. Elezione dopo elezione, sondaggio dopo sondaggio, è emersa la profonda delusione degli elettori. Essa trova espressione sia in una maggiore apatia che nel successo elettorale dei partiti anti-sistema di ogni colore – dallo Jobbik in Ungheria al Fronte Nazionale francese passando per l’Ukip britannico e il tedesco Alternativa per la Germania fino al Movimento 5Stelle italiano al Podemos spagnolo e al Syriza greco.
Lo scontento nei confronti delle istituzioni europee supera quello a livello nazionale. Il pianeta Bruxelles è diventato simbolo della distanza tra élite politiche e cittadinanza. Benché il Parlamento europeo sia a elezione diretta e gli siano stati attribuiti maggiori poteri, l’impressione è di una rappresentanza popolare scarsa. E non esiste un’arena politica pan europea. I tre dibattiti televisivi tra gli Spitzenkandidaten, i principali candidati dei raggruppamenti partitici europei per il seggio di presidente della Commissione, sono stati seguiti da meno di 500.000 spettatori, mentre l’audience del primo dibattito tra i candidati alla presidenza Usa Barack Obama e Mitt Romney nel 2012 era sopra i 67 milioni.
Questo mi porta alla terza triste considerazione. Non mancano i manifesti, i progetti e i libri mirati al salvataggio dell’Unione Europea, ma in massima parte sono scritti da persone che si collocano dalla parte sbagliata dello spartiacque anagrafico dei 50 anni. Un valanga di appelli a rafforzare la “leadership” vengono da leader in pensione con l’idea che ai loro tempi le cose andassero meglio.
Vedo poche proposte da parte della generazione del giovane Mario. È strano, perché la sua è la prima generazione che ha vissuto l’Europa come unico spazio di libertà da Lisbona a Tallin, ad Atene, a Edimburgo. Ho chiesto su Twitter dei suggerimenti per questo articolo e qualcuno ha risposto «parla dei bambini nati da Erasmus ». Dan Nolan ha aggiunto «Erasmus obbligatorio per tutti», facendo riferimento all’intervista in cui Umberto Eco, il grande saggio, sostiene che «l’Erasmus ha dato vita alla prima generazione di giovani europei ed ha segnato una rivoluzione sessuale: un giovane catalano incontra una ragazza fiamminga; i due si innamorano, si sposano e diventano europei, come pure i loro figli. L’Erasmus dovrebbe essere obbligatorio, e non solo per gli studenti: anche per i tassisti, gli idraulici e i lavoratori».
Non sono proprio certo che il religioso Desiderius Erasmus da Rotterdam apprezzerebbe il fatto di essere sinonimo di rivoluzione sessuale, ma davvero esiste una realtà quotidiana vissuta così, un amalgama transnazionale. Nei sondaggi Eurobarometer condotti in tutta l’Ue la risposta più comune al quesito «che cosa significa per te l’Ue?» è «libertà di viaggiare, studiare e lavorare in tutti i Paesi dell’Unione». Anche se coloro che tendenzialmente non hanno fiducia nell’Ue sono quasi il doppio rispetto a quelli che tendono a riporvi fiducia, quest’ultima cresce col diminuire dell’età degli intervistati. Ad essere fiduciosi sono solo il 46% dei giovani tra i 15 e i 24 anni. Un giovane su due in Grecia e in Spagna è disoccupato e può a buona ragione domandarsi «cosa ha fatto per me l’Europa ultimamente? ».
Ciò nonostante sono numerosi i giovani — incluso un intero esercito di cittadini dell’est e del centro Europa post-1989 — ad aver tratto grande beneficio dal progetto europeo. Ma la loro voce in Europa si sente poco. In parte, credo, è proprio perché hanno già a disposizione l’Europa cui aspiravano le generazioni precedenti. Amano l’Europa ma essa non è la loro causa, il loro sogno. Ad appassionarli sono altre tematiche, altri luoghi: l’ambiente, la parità sessuale, la povertà globale, i diritti degli animali, la libertà di Internet, il cambiamento climatico, la Cina, l’Africa. Se le libertà fondamentali che apprezzano nell’Ue venissero improvvisamente revocate, senza dubbio si mobiliterebbero per difenderle — ma il declino dell’Europa, se ci sarà, probabilmente non porterà a questo. Le istituzioni resteranno, ma gradualmente si svuoteranno, come quelle del Sacro Romano Impero. Forse non sarà lanciato un allarme serio finché non sarà troppo tardi. (Per alcuni est europei il campanello d’allarme è Vladimir Putin, ma a quanto sembra non per la maggior parte degli europei dell’Ovest).
Però io sono anche del parere che noi europei più anziani non chiediamo ai giovani con frequenza e insistenza sufficiente che tipo di Europa essi vogliano. Qualche tempo fa sono stato contattato da un’istituzione europea che voleva verificare la mia disponibilità a partecipare alla formulazione di una nuova versione della dichiarazione di Schuman, che nel 1950 pose le basi di quelli che sarebbero stati i primi passi del cammino verso l’Ue odierna. Ho risposto che era meglio chiedere alla generazione post ‘89, alla generazione Erasmus. A quanto ne so l’istituzione ha in programma di contattare un gruppo di capi di Stato per redigere questa nuova dichiarazione. Buona fortuna. Abbiamo giusto bisogno di un’altra cosa del genere.
Sono quindi davvero grato al giovane Mario che si è dato la pena di arrabbiarsi con me. Forza, arrabbiatevi. Prendetevela con noi. Ma cambiatel’Europa. Bisogna farlo. ( Traduzione di Emilia Benghi)

"L’informazione liquida", di Ilvo Diamanti – La Repubblica 09.12.14

L’atlante di Demos dedicato al rapporto fra “Gli italiani e l’informazione”, giunto all’VIII edizione, descrive l’affermarsi di un sistema “ibrido” (per citare una nota definizione di Andrew Chadwick). Dove il ricorso ai new media non esclude i media tradizionali. Ma si traduce in nuove e diverse forme di integrazione. D’altronde, ormai metà dei cittadini si informa ogni giorno attraverso Internet. Il doppio rispetto al 2007 e quasi 10 punti in più di due anni fa. Nell’ultimo anno, invece, la crescita è stata più limitata: 2 punti. Solo la televisione, ormai, supera – ancora largamente – la Rete, come canale di informazione “quotidiana”. Ma la distanza fra la tv e la Rete, dal 2007, si è dimezzata da (circa) 60 ai 30 punti attuali. La radio e, soprattutto, i giornali sono, invece, “consultati” da una quota di persone molto più ridotta – e in continuo calo.
Coloro che si informano assiduamente attraverso la Rete sono, mediamente, più giovani e istruiti. Perché per muoversi nella Rete servono abilità “digi- tale” e capacità di accesso alle informazioni. Anche per questo coloro che si informano quotidianamente solo in Rete (i netinformati) costituiscono una componente limitata: intorno al 6%. Mentre nella maggioranza dei casi (per la precisione: il 44%) Internet viene associato ad altri media. La tv e i giornali, in particolare. Quasi due terzi di coloro che utilizzano Internet, d’altronde, lo fanno per leggere i quotidiani. Che, d’altra parte, prevedono, quasi tutti, edizioni digitali. Ma su Internet, ormai, è possibile accedere anche alle principali reti televisive e radiofoniche. E, reciprocamente, tutti i programmi televisivi e radiofonici sono in comunicazione diretta e continua con Internet. Attraverso i social network. Facebook e Twitter. È la comunicazione ibrida, che ormai coinvolge gran parte degli italiani. L’accesso a Internet, d’altronde, nella maggioranza dei casi, avviene attraverso strumenti “personalizzati”. I tablet e gli smartphone, in primo luogo. Anche per questo si tratta di un incentivo alla partecipazione dei cittadini che vogliono esercitare una funzione critica verso l’azione dei politici. È ciò che ritengono 7 italiani su 10, tra quelli intervistati da Demos. La Rete costituisce, dunque, un canale di “contro-de- mocrazia”, come la definisce Pierre Rosanvallon, volta alla “sorveglianza” politica e istituzionale. Non per caso, i cittadini che utilizzano la Rete in modo ibrido o, meglio ancora, esclusivo, sono, prevalentemente, orientati verso il M5s, che ha fatto della comunicazione digitale un simbolo di democrazia diretta e “senza mediazioni”. Tuttavia, occorre cautela nel celebrare la “libertà” della Rete. Sia perché (come rammenta Evgeny Morozov) è, spesso, sottoposta a interferenze e controlli. Sia perché, la stessa libertà di accesso, rende difficile verificare le informazioni che circolano.
Peraltro, come si è detto, il rapporto fra gli italiani e la politica appare ancora largamente “mediato” dalla televisione. Il canale attraverso cui si informano, regolarmente, 8 persone su 10. Peraltro, per il 23% (della popolazione) si tratta del mezzo di informazione (quasi) esclusivo. Queste persone, i “tele-centrici”, sono particolarmente diffuse fra gli elettori più “indecisi”. E ciò rende la tv determinante in campagna elettorale. Per convincere gli elettori che decidono solo alla fine. Peraltro, i “tele-centrici”, secondo le attese, pesano molto nella base di Fi. Gli elettori del M5s, invece, confermano la loro confidenza con i new media e con la Rete. Sono, infatti, più “ibridi”. Mentre sorprende l’ampiezza di elettori (Net)ibridi fra i leghisti. Segnale del cambiamento in atto nella Lega, dopo l’avvento di Salvini. Il Pd, infine, appare il più trasversale, fra i diversi tipi di pubblico. Non era così fino a poco tempo fa. Ma il Pd di Renzi, il Pdr, ha colmato il distacco dai media. Vecchi e nuovi. Tv e Rete. L’atteggiamen- to nei confronti dei Tg conferma queste tendenze – e gli indirizzi degli ultimi anni (in termini di fiducia, non necessariamente di ascolto). I più apprezzati restano i Tg Rai e in particolare il Tg3. Che prevalgono largamente sui Tg Mediaset. Tra i quali, solo il Tg5 presenta un livello di stima elevato. E perfino in crescita, rispetto all’ultimo anno. Mentre le reti All-News, RaiNews 24, Sky Tg24 e lo stesso Tg di La7, sono quelli che hanno aumentato maggiormente il grado di fiducia rispetto al 2009. In particolare i Tg di Sky e, soprattutto, di Rai News 24. Mentre il Tg de La7, nell’ultimo anno, ha perduto qualche punto.
D’altra parte, l’intreccio tra politica e media, divenuto inestricabile, nel corso del ventennio berlusconiano lascia ancora tracce evidenti nelle preferenze politiche del pubblico. Che appare maggiormente orientato a destra, nel caso dei Tg delle reti Mediaset. A sinistra, per quel che riguarda le reti Rai. E in particolare il Tg3. Gli elettori della Lega, invece, mostrano maggiore fiducia verso RaiNews 24, il Tg5 e il Tg di Sky. Mentre gli elettori del M5s si fidano, anzitutto, del Tg de La7. Inoltre, del Tg3 e di RaiNews24 (il più “trasversale”, dal punto di vista della percezione degli elettori). I media, comunque, non si limitano a orientare le preferenze degli italiani, ma le rispecchiano. Compresa la stanchezza verso la politica, ben raffigurata da un certo fastidio verso l’informazione tv. E, soprattutto, verso i programmi di approfondimento e dibattito. I talk politici, in particolare, sono considerati troppo confusi e litigiosi da due persone su tre.
La stagione della “democrazia del pubblico”, fondata sulla televisione (secondo la nota definizione di Bernard Manin), in Italia, non sembra, dunque, finita. Ma si contamina con la diffusione della Rete. Così delinea la cornice della “democrazia ibrida” del nostro tempo. Abitata da un “cittadino ibrido”, critico e scettico verso la politica e le istituzioni.

"Quegli insegnanti dell’istituto tecnico al premio per il miglior prof del mondo", di Antonella De Gregorio – Corriere della Sera.it 08.12.14

Può un insegnante diventare una star, senza passare per Hollywood? Ritrovarsi famoso nel mondo per quello che fa ogni giorno, con fatica, competenza e pochi, nella quotidianità, disposti a dirgli «bravo»? Succederà. Grazie a un’idea della Varkey Gems Foundation , che ha messo in palio un milione di dollari da assegnare a un prof eccezionale. In marzo il bando, poi la selezione tra 5 mila nomi di tutto il mondo e oggi l’annuncio della rosa finale. Tra i 50 candidati migliori ci sono anche due italiani: Daniela Boscolo, docente di un istituto tecnico della provincia di Rovigo e Daniele Manni, di Lecce.

La prof veneta che insegna a studenti diversamente abili dell’Itsc Colombo di Porto Viro dà gambe a progetti per inserire nella normale vita scolastica alunni con «esigenze educative speciali». Nel 2010 ha ottenuto il riconoscimento di «miglior insegnante dell’anno». Ha «rivoluzionato la didattica tradizionale e introdotto una nuova mentalità», si legge nelle motivazioni, per aiutare anche i ragazzi meno dotati a sviluppare le loro capacità in normali situazioni sociali. Un suo successo il progetto «Al supermercato dell’integrazione»: «Un supermercato allestito all’interno della scuola — spiega — dove tutti i ragazzi vanno a fare la spesa e tengono la contabilità, gestiscono il magazzino, stanno alla cassa, curano etichettatura o stoccaggio».
Daniele Manni (una passione smisurata per istanze come pace, inclusione e tolleranza), insegna informatica all’Istituto tecnico Galilei-Costa del capoluogo salentino e impegna i propri studenti in progetti che abbracciano diversi temi, dall’inclusione sociale alle start up. I suoi alunni vincono diversi premi ogni anno e a lui è stata conferita una medaglia dal presidente della Repubblica. Non si attiene strettamente ai programmi, in classe, non ama modelli di «insegnamento passivo», ma si sforza di «incoraggiare il pensiero creativo, in un’atmosfera di collaborazione». Dieci anni fa ha dato vita a una cooperativa, «Arianoa» (aria nuova, in dialetto), all’interno della scuola: un incubatore per stimolare gli alunni all’auto-imprenditorialità e sostenere finanziariamente le loro giovani start up. Ne sono nate 22, da allora, tutte «leggermente profittevoli»; un paio sane e forti sul mercato. Una, «Island of Host», che noleggia server web, è valsa al suo ideatore di 16 anni un premio tra le migliori imprese di under 20 del mondo. «E quest’anno — dice il prof — in una quinta ho diviso i ragazzi in gruppi: vincerà quello che inventerà la start up che a maggio farà più fatturato e sarà più affermata».
Straordinarie, ma non isolate le loro storie: gli insegnanti con grinta, passione, competenza e idee sono tantissimi. Per accettare la candidatura, l’organizzazione del premio chiedeva l’uso di pratiche didattiche innovative; segnalazioni di alunni e colleghi; impegno nel testimoniare l’importanza dell’insegnamento e nel migliorare l’accesso all’istruzione per tutti.
Quando, in marzo, la Global Teacher prize Academy sceglierà il vincitore, tra una rosa finale di 10 nomi, si accenderà il riflettore su uno, ma la luce verrà irradiata su tutta la categoria. Questo è l’obiettivo del premio: «Che non è solo una somma di denaro, ma un modo per far conoscere migliaia di storie», ha dichiarato Sunny Varkey, padre della Fondazione, di cui è presidente onorario Bill Clinton.
L’idea è nata leggendo i risultati del Global Teacher Status index, pubblicato in novembre: primo tentativo di mettere a confronto l’atteggiamento nei confronti degli insegnanti in 21 Paesi. Notevoli le differenze rilevate, comune la considerazione che quasi ovunque almeno un genitore su tre non incoraggerebbe i propri figli a intraprendere questa professione. «Certamente serve più di un premio per ridare a questa professione lo status che le compete. Ma la mia speranza — ha detto Varkey — è che questa iniziativa avvii migliaia di conversazioni sul ruolo degli insegnanti: nelle famiglie riunite per la cena, tra gli adolescenti sui social media, fino ai ministeri dell’istruzione del mondo».