I giovani italiani sono sempre più disillusi rispetto alla possibilità di trovare lavoro in Italia e per questo guardano con crescente interesse fuori confine. Aumenta, quindi, l’esercito dei giovanissimi disoccupati pronti a trasferirsi all’estero per cercare fortuna ed occupazione. Ma cresce anche il numero di teenager e giovani di tra i 20 ed i 30 anni «non interessati a nulla», indifferenti allo studio ed al lavoro (che non si preoccupano nemmeno di cercare), vale a dire quell’area giovanile denominata “Neet” che non può non generare crescente preoccupazione tra genitori, insegnanti ed educatori. È il preoccupante quadro sull’universo giovanile del nostro Paese che emerge dal Rapporto “Giovani 2014 – La condizione giovanile in Italia”, edito da “Il Mulino”, una indagine svolta su un campione di circa 10mila giovani dai 19 ai 22 anni promossa dall’Istituto Giuseppe Toniolo, presieduto dal cardinale di Milano Angelo Scola, in collaborazione con l’Università Cattolica e con il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo. I circa 10mila intervistati, di differenti orientamenti scolastici, politici e religiosi, sono stati scelti in tutte le Regioni italiane. Oltre l’85% degli intervistati (19-32 anni) è convinto che in Italia siano scarse o limitate le opportunità lavorative legate alle proprie competenze professionali. Il perdurare della crisi economica e la carenza di efficacia delle politiche passate, inoltre, ha generato una forte sfiducia nel futuro: come dimostra il 70% che ritiene di avere poca o per nulla fiducia che l’Italia nei prossimi anni riuscirà a tornare a crescere sul livello degli altri paesi sviluppati. I giovani vedono le proprie capacità ed i propri talenti indissolubilmente frenate dai limiti del sistema paese e dalle carenze della politica, finora giudicata incapace di rimettere le nuove generazioni al centro della crescita. «I dati del Rapporto Giovani – spiega il professor Alessandro Rosina, tra i curatori dell’indagine – «aiutano ad andare oltre e rivelano come nelle nuove generazioni rimanga complessivamente alta la volontà di non rassegnarsi, ma come crescente sia anche la frustrazione per il sottoutilizzo delle proprie potenzialità. Sempre più complicato è trovare la propria strada. Una condizione che, complessivamente, rende il percorso di transizione alla vita adulta simile ad un labirinto». La principale causa della disoccupazione è attribuita dal 37,3% dei giovani ai limiti dell’offerta del mercato del lavoro, considerata ridotta come quantità e bassa come qualità, a cui va aggiunta una mancanza d’investimenti in ricerca e sviluppo. Il 20,9% ritiene che si debbano migliorare meccanismi di reclutamento, legati a regole troppo rigide e lontani dalla meritocrazia. Solo il 19,2% attribuisce ogni causa alla crisi economica, mentre il 17,4% è autocritico: a loro avviso i giovani non trovano lavoro per via della poca esperienza (15,3%), di una scarsa formazione e dalla difficoltà ad accettare alcuni tipi di lavori. Il 70% dei giovani vede il domani pieno di rischi ed incognite. Disoccupazione e impieghi precari spingono sempre di più i giovani ad essere concreti e pragmatici. E’ così che il 75,7 % (80% dei giovani al Sud, 71,4% al Nord) rinuncia a programmare il proprio futuro per affrontare le difficoltà del presente. Se nel 2012 il lavoro era ancora considerato più un luogo di autorealizzazione che un mezzo per procurarsi reddito, ora, la situazione è completamente capovolta. L’obiettivo primario è quello di trovare un’occupazione retribuita rinviando nel medio-lungo periodo la propria realizzazione personale. Ma è tra i “Neet” (giovani indifferenti a tutto, lavoro e studio compresi) che c’è più preoccupazione: sfiorano il 90 per cento quanti si dicono sfiduciati sulla possibilità di una ripresa socio-economica del Paese. «In particolare i “Neet” – avverte infatti il professor Rosina – sono la categoria più a rischio di perdere ogni speranza di miglioramento in carenza di politiche concrete ed efficaci in grado di aiutare i giovani italiani a mettere basi solide al proprio futuro attraverso una adeguata collocazione nel mondo del lavoro». Poca allegria anche sui possibili futuri salari per quanti riusciranno a trovare lavoro. Il 70% pensa che sarebbe più giusto arrivare a percepire a 35 anni tra i mille e i 2mila euro mensili, ma oltre la metà degli intervistati teme che non riuscirà ad andar oltre i 1.500. Le difficoltà a trovare un lavoro hanno intaccato nei giovani non solo la fiducia nelle istituzioni, ma hanno anche ridotto il senso di appartenenza sociale, portando i giovani a rifugiarsi nella rete parentale più ristretta al punto che solo il 35% circa ritiene che la maggior parte delle persone sia degna di fiducia. Un alto grado di fiducia viene riposto unicamente nei familiari e negli amici: l’80% dei giovani si ritiene infatti soddisfatto dei propri rapporti.
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"Un’ inedita vecchiaia. Così la scienza ha raddoppiato la vita", di Giangiacomo Schiavi e Carlo Vergani – Corriere della Sera 27.12.14
La scienza ci regala una fuga dal tempo e dalla morte come non si era mai verificato nella storia, scrive Martin Wolf sul Financial Times : ogni anno guadagniamo tre mesi di vita. Ma gli effetti positivi della rivoluzione che ha cambiato la curva della sopravvivenza sembrano oscurati da uno strabismo di fondo: più che ai vantaggi di una grande conquista guardiamo ai problemi. Eppure, soltanto un secolo fa, la durata media di vita era 43 anni mentre oggi è di 79 anni per gli uomini e di 83 per le donne. In più, l’aspettativa di vita, dopo i 65 anni, è di 18 anni per gli uomini e di 22 per le donne. Un salto di qualità nella salute pubblica che meriterebbe degna celebrazione, scrive Wolf, perché la riduzione della mortalità infantile, l’uso delle vaccinazioni e degli antibiotici, i risultati prodotti dall’igiene e dalla medicina, l’aumento delle calorie nella dieta, i nuovi farmaci contro il cancro e l’ipertensione, sono una svolta epocale di cui dovremmo essere più consapevoli.
Negli ultimi cinquant’anni i progressi della scienza sono stati strepitosi. Siamo riusciti a modificare il codice della vita e a cronicizzare malattie un tempo mortali, sono stati definiti i meccanismi che caratterizzano l’invecchiamento a livello molecolare e cellulare, si sono evidenziati i pesi del fattore genico e di quello ambientale, si è preso atto dell’importanza della prevenzione, sono cambiati in meglio certi stili di vita: la lotta al fumo e quella all’inquinamento danno i primi risultati; la medicina interventistica ha fatto passi da gigante; stiamo sperimentando le staminali e le nanotecnologie. «Godiamoci questo allungamento della vita media e cerchiamo di restare il più a lungo in buona salute», dice Wolf.
La questione di fondo, davanti all’innegabile dato di fatto che azzera tante diseguaglianze e offre al mondo un’occasione per riflettere, è proprio questa. Restare in buona salute, ridurre l’incidenza e i costi delle cronicità e garantire una longevità attiva a chi oggi può beneficiare dei progressi della scienza. Una società che invecchia è una società senza futuro, si dice, perché non ha rincalzi generazionali.
Ma è una società senza passato se trascura le sue radici. Un discorso che vale soprattutto per l’Italia, con il Giappone il Paese che invecchia di più al mondo. All’inizio del secolo scorso gli ultrasessantacinquenni da noi rappresentavano il 6 per cento della popolazione: oggi sono il 21 per cento. Nel 2050 diventeranno il 30. C’è da ripensare il sistema sociosanitario, da rivedere il welfare e le politiche del lavoro. Ed è difficile conciliare la legge Fornero che innalza l’età lavorativa con l’immissione di giovani nel mercato produttivo. Ma al tempo stesso è assurdo privarsi della competenza e dell’efficienza di un sessantenne lasciandolo in panchina a carico dello Stato.
Così si procede per inerzia, scaricando sugli ospedali i costi dell’allungamento della vita e sulla previdenza gli oneri dell’avvicendamento sociale. Sono troppi gli anziani che entrano ed escono dalle porte girevoli dei pronto soccorso; e sono pochi i posti di lavoro per i giovani, che ingrossano le file dei disoccupati.
La rapidità con la quale cresce la durata della vita impone la stessa riflessione di Martin Wolf: come garantire un futuro attivo ai longevi che la scienza e la medicina hanno spinto avanti con gli anni e come evitare il collasso del sistema per i troppi costi da sostenere. La svolta, recentemente annunciata dalla Regione Lombardia, che annuncia una legge per rivedere le politiche su ospedali e territorio, è un segnale che va nella giusta direzione: più medicina sull’uscio di casa e meno cure e farmaci (spesso inutili) a carico dell’ospedale.
Fermarsi a ringraziare la scienza per aver raddoppiato la durata della vita in poco più di un secolo, come invita a fare l’economista del Financial Times , è un atto giusto e doveroso. Chi nasce oggi avrà la possibilità di vivere fino a cent’anni, ha ricordato nei giorni scorsi sul Corriere Edoardo Boncinelli.
L’Italia è messa bene, anzi male, a seconda dei punti di vista: è uno dei Paesi tra i più anziani, pigri e sovrappeso d’Europa, con tre milioni di ultraottantenni destinati a triplicare nel 2050, con 16 milioni di pensionati e un esercito di ultrasessantacinquenni pronti a raggiungere, fra trent’anni, quota 20 milioni.
Davanti a una transizione demografica di questa portata ci si deve preparare per tempo, evitando squilibri che presto presenteranno il conto, come avverte l’agenda 2015 dell’Onu che ha messo come obiettivo la riduzione delle cronicità degli anziani. Anziani sui quali pesano le patologie rese curabili dalla moderna medicina: ipertensione, depressione, ictus, infarto, Parkinson, demenza.
Servirà ancora l’aiuto della scienza, ma molto potrà fare una nuova organizzazione sociale e del lavoro, con un sistema in grado di garantire un patto fra generazioni, tra i giovani e gli «anziani inediti» con un valore prezioso: il capitale relazionale.
Negli ultimi cinquant’anni i progressi della scienza sono stati strepitosi. Siamo riusciti a modificare il codice della vita e a cronicizzare malattie un tempo mortali, sono stati definiti i meccanismi che caratterizzano l’invecchiamento a livello molecolare e cellulare, si sono evidenziati i pesi del fattore genico e di quello ambientale, si è preso atto dell’importanza della prevenzione, sono cambiati in meglio certi stili di vita: la lotta al fumo e quella all’inquinamento danno i primi risultati; la medicina interventistica ha fatto passi da gigante; stiamo sperimentando le staminali e le nanotecnologie. «Godiamoci questo allungamento della vita media e cerchiamo di restare il più a lungo in buona salute», dice Wolf.
La questione di fondo, davanti all’innegabile dato di fatto che azzera tante diseguaglianze e offre al mondo un’occasione per riflettere, è proprio questa. Restare in buona salute, ridurre l’incidenza e i costi delle cronicità e garantire una longevità attiva a chi oggi può beneficiare dei progressi della scienza. Una società che invecchia è una società senza futuro, si dice, perché non ha rincalzi generazionali.
Ma è una società senza passato se trascura le sue radici. Un discorso che vale soprattutto per l’Italia, con il Giappone il Paese che invecchia di più al mondo. All’inizio del secolo scorso gli ultrasessantacinquenni da noi rappresentavano il 6 per cento della popolazione: oggi sono il 21 per cento. Nel 2050 diventeranno il 30. C’è da ripensare il sistema sociosanitario, da rivedere il welfare e le politiche del lavoro. Ed è difficile conciliare la legge Fornero che innalza l’età lavorativa con l’immissione di giovani nel mercato produttivo. Ma al tempo stesso è assurdo privarsi della competenza e dell’efficienza di un sessantenne lasciandolo in panchina a carico dello Stato.
Così si procede per inerzia, scaricando sugli ospedali i costi dell’allungamento della vita e sulla previdenza gli oneri dell’avvicendamento sociale. Sono troppi gli anziani che entrano ed escono dalle porte girevoli dei pronto soccorso; e sono pochi i posti di lavoro per i giovani, che ingrossano le file dei disoccupati.
La rapidità con la quale cresce la durata della vita impone la stessa riflessione di Martin Wolf: come garantire un futuro attivo ai longevi che la scienza e la medicina hanno spinto avanti con gli anni e come evitare il collasso del sistema per i troppi costi da sostenere. La svolta, recentemente annunciata dalla Regione Lombardia, che annuncia una legge per rivedere le politiche su ospedali e territorio, è un segnale che va nella giusta direzione: più medicina sull’uscio di casa e meno cure e farmaci (spesso inutili) a carico dell’ospedale.
Fermarsi a ringraziare la scienza per aver raddoppiato la durata della vita in poco più di un secolo, come invita a fare l’economista del Financial Times , è un atto giusto e doveroso. Chi nasce oggi avrà la possibilità di vivere fino a cent’anni, ha ricordato nei giorni scorsi sul Corriere Edoardo Boncinelli.
L’Italia è messa bene, anzi male, a seconda dei punti di vista: è uno dei Paesi tra i più anziani, pigri e sovrappeso d’Europa, con tre milioni di ultraottantenni destinati a triplicare nel 2050, con 16 milioni di pensionati e un esercito di ultrasessantacinquenni pronti a raggiungere, fra trent’anni, quota 20 milioni.
Davanti a una transizione demografica di questa portata ci si deve preparare per tempo, evitando squilibri che presto presenteranno il conto, come avverte l’agenda 2015 dell’Onu che ha messo come obiettivo la riduzione delle cronicità degli anziani. Anziani sui quali pesano le patologie rese curabili dalla moderna medicina: ipertensione, depressione, ictus, infarto, Parkinson, demenza.
Servirà ancora l’aiuto della scienza, ma molto potrà fare una nuova organizzazione sociale e del lavoro, con un sistema in grado di garantire un patto fra generazioni, tra i giovani e gli «anziani inediti» con un valore prezioso: il capitale relazionale.
“Democrazia significa resistenza", di Berna Gonzalez Harbour – La Repubblica 27.12.14
Nel 2003, Tzvetan Todorov stilò un inventario dei valori, una lista di buone intenzioni che l’Europa ha tentato di esportare nel mondo con la stessa risolutezza con cui ha esportato automobili, ortaggi o tecnologia dell’alta velocità. Non è che inventasse nulla, era tutto già più o meno scritto nelle nostre carte dei diritti, nelle nostre costituzioni: la libertà individuale, la razionalità, la laicità, la giustizia. Sembrava ovvio. Oggi, tuttavia, Todorov vede allontanarsi quei valori come quel punto all’orizzonte che sembrava raggiungibile e invece riappare di nuovo lontano. «Quando diciamo valore, non significa che tutti lo rispettino, è più un ideale che una realtà, un orizzonte verso il quale siamo diretti», dice. «Inquesto momento, tuttavia, questi valori sono minacciati».
Il filosofo bulgaro naturalizzato francese, Premio Principe delle Asturie per le Scienze Sociali nel 2008 e una delle voci più influenti del continente, colloca il punto di svolta, la curva in cui tutto è svanito, non nella crisi scoppiata nel 2008, ma nella caduta del Muro di Berlino e nella rottura, a partire da quel momento, dell’equilibrio tra le due forze che devono convivere in una democrazia: l’individuo e la comunità.
Vale ancora il suo inventario dei valori? La libertà dell’individuo, per esempio?
«La nostra democrazia liberale ha lasciato che l’economia non dipenda da alcun potere, che sia diretta solo dalle leggi del mercato, senza alcuna restrizione delle azioni degli individui e per questo la comunità soffre. L’economia è diventata indipendente e ribelle a qualsiasi potere politico, e la libertà che acquisiscono i più potenti è diventata la mancanza di libertà dei meno potenti. Il bene comune non è più difeso né tutelato, né se ne pretende il livello minimo indispensabile per la comunità. E la volpe libera nel pollaio priva della libertà le galline».
Oggi, quindi, l’individuo è più debole. Quale libertà gli rimane, allora?
«Paradossalmente è più debole, sì, perché i più potenti hanno di più, ma sono un piccolo gruppo, mentre la popolazione si impoverisce e la disuguaglianza è aumentata vertiginosamente. E gli individui poveri non sono liberi. Quando non è possibile trovare il modo di curare la tua malattia, quando non puoi vivere nella casa che avevi, perché non la puoi pagare, non sei più libero. Non puoi esercitare la libertà se non hai potere, e allora diventa solo una parola scritta sulla carta ».
Eppure, l’uguaglianza è un valore fondativo delle nostre democrazie. Abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale?
«Se non si può rispettare, un contratto sociale non è una gran cosa. L’idea di uguaglianza è ancora presente alla base delle nostre leggi, ma non sempre viene rispettata. Il tuo voto conta quanto il mio ma l’obiettivo della democrazia non è il livellamento, quanto piuttosto offrire lo stesso punto di partenza a tutti in quanto uguali davanti alla legge, perché i soldi non comprano la legge. Ma questo principio non si rispetta. Guardate quello che hanno appena approvato i legislatori degli Stati Uniti: hanno moltiplicato per dieci i soldi che possono spendere per una campagna elettorale. Chi non ha soldi non potrà godere della libertà supplementare di spendere riservata a quelli che ce li hanno. È questo pericolo di una libertà eccessiva di pochi che impedisce l’uguaglianza di tutti».
Quando i diritti diventano
una realtà formale, che cosa ci rimane?
«Ci rimane la possibilità di protestare, di rivolgerci alla giustizia. Non bisogna cambiare i principi, perché sono già scritti, ma abbiamo visto che ci sono molti modi per schivarli ed è necessario che il potere politico non capitoli di fronte alla potenza di quegli individui che infrangono il contratto sociale a loro favore. L’idea di resistenza mi sembra fondamentale nella vita democratica. Bisogna essere vigilanti, la stampa deve svolgere un ruolo sempre più importante nel denunciare le violazioni dei partiti, bisogna che la gente possa intervenire, ma so che questo richiede di essere sufficientemente vigilanti, coraggiosi e attivi ».
Lei parla della gente, ma il potere non deve cambiare? Che cosa possiamo aspettarci da poteri molto locali di fronte a una realtà globalizzata?
«Dobbiamo rafforzare le istanze europee, perché l’economia è globalizzata. L’Unione Europea è il più grande mercato del mondo, con 500 milioni di cittadini attivi e di consumatori con una grande tradizione nell’equilibrio tra difesa del bene comune e libertà individuale. Se facciamo vivere questa tradizione europea, se permettiamo che esistano organi più efficaci e attivi nell’Unione, potremo affrontare l’evasione fiscale, i paradisi fiscali e anche decisioni fondamentali come quelle sull’approvvigionamento energetico».
Ha fiducia nella sua leadership? In leader capaci di offrire l’impunità fiscale per attirare gli evasori nel loro territorio, come ha fatto Juncker in Lussemburgo?
«Se non ci fidiamo di loro devono prendersi le loro responsabilità. Il Parlamento, così come li ha eletti, dovrebbe poterli destituire ».
Nel 2008, definì i paesi occidentali come i «paesi della paura» rispetto ai paesi dell’appetito, del risentimento o dell’indecisione. Non siamo vittime di tutto questo?
«Le devastazioni causate dalla paura sono state immense, come abbiamo visto nel rapporto del Senato degli Stati Uniti sulle torture della Cia o nel caso Snowden, che ha rivelato che l’America controllava il telefono di Angela Merkel, come se lei potesse rappresentare una minaccia. L’idea che si possa legalizzare la tortura è uno shock per chi crede nel valore della democrazia e gli europei l’hanno accettata docilmente. Le rivelazioni di Snowden sono molto inquietanti per il principio che c’è dietro, il principio di uno Stato quasi totalitario che raccoglie tutte le informazioni possibili sui suoi cittadini, come facevano il Kgb o la Stasi in paesi totalitari come l’Urss o la Germania dell’Est. Allora si usava un sistema di delazioni anonime oggi divenuto arcaico, perché la tecnologia rende più facile raccogliere informazioni, ma in tutto questo le libertà individuali si riducono a una chimera ».
Quale sarà l’Europa dopo la crisi?
«Non so se la crisi finirà, sappiamo che le economie non obbediscono a spinte razionali, ci sono spinte di passione o di follia, spinte che sfidano tutti i pronostici, forse scomparirà nel 2015, o forse mai, o potremmo restarci dentro per altri dieci anni».
Traduzione di Luis E. Moriones
"Serve un antidoto al pessimismo", di Paolo Conte – Corriere della Sera 24.12.14
«Il nostro Paese soffre di un deficit informativo e troppo spesso le buone notizie spariscono. Nel più recente report di Symbola, la Fondazione per le qualità italiane, si scopre che, nel mondo della meccanica, su 496 prodotti considerati da “podio mondiale” ben 235 vedono i marchi italiani al primo, secondo o terzo posto. O che solo 5 paesi al mondo possono vantare un surplus commerciale manifatturiero superiore a 100 miliardi di dollari. L’Italia è uno di questi. E in quanti italiani sono al corrente di simili buone notizie che fanno ben sperare nel nostro futuro?».
Nando Pagnoncelli, grande sondaggista e amministratore delegato di Ipsos (e membro del comitato scientifico di Symbola) maneggia ogni giorno il materiale dell’inconscio collettivo degli italiani e sa bene quanto le «cattive notizie» sommergano quasi sempre le buone: «C’è un atteggiamento ambivalente. Da una parte c’è un pessimismo incombente. Dall’altra, c’è un gran bisogno di ascoltare la voce delle esperienze positive. E questo contrasto genera una frustrazione non solo in chi, di quelle positività, è protagonista ma anche in chi tende a crogiolarsi nella negatività ma avrebbe bisogno di segnali di ottimismo».
Per Pagnoncelli c’è un problema di fondo che lui stesso definisce «strabismo collettivo». In che senso? «Da giugno a oggi cala sensibilmente la visione generale del Paese — “l’Italia va in rovina” — mentre aumenta la qualità della prospettiva personale — “c’è la crisi ma io alla fine me la cavo” — producendo questo strabismo. Tutto ciò ha portato a una ridefinizione generale dei consumi personali: maggiore programmazione, abbandono delle spese dettate dall’impulso del momento. Nessun taglio lineare, e nemmeno nessun pauperismo. Un’abitudine a usare ciò che si ha e a riciclare ciò che si getta via, scelta che genera molto benessere interiore».
Ma tutto questo da cosa è dettato? Pagnoncelli indica un grande problema, il deficit informativo: «Prevale una generica percezione dei problemi rispetto alla realtà. Un esempio. Gli stranieri in Italia rappresentano il 7% della popolazione, l’idea radicata è che siano il 30%. Il dato reale di disoccupazione è del 12% della popolazione attiva. Chiedendo agli intervistati ci si sente rispondere che la quota è del 49%. Una cattiva conoscenza del dato reale produce quello “sconfittismo” che inevitabilmente si ripercuote sul clima generale del Paese e persino sui consumi, quindi sull’economia».
Pagnoncelli ha un’idea molto chiara sulle ragioni di questo deficit informativo. Riguarda la relazione tra gli italiani e il loro modello di conoscenza del reale: «Nel nostro Paese si leggono pochissimi giornali, meno di tre milioni e mezzo di copie quotidiane, ovvero si ricorre raramente a uno strumento di analisi e di valutazione più attenta del Paese. Resta centralissima l’informazione di tipo televisivo. La dieta mediatica italiana è basata sulla rapidità delle immagini, sulle suggestioni che producono. In quanto a Internet, a mio avviso l’effetto che produce è ancora più negativo: in tutti i social network prevale ampiamente quel pessimismo incombente di cui parlavamo prima. Per fare un esempio in negativo, la sensazione generale prodotta da questo deficit informativo è che l’Italia sia a un passo dalla Grecia, mentre non si ricorda che siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa subito dopo la Germania».
La riprova di questo «male mediatico» sta, secondo Pagnoncelli, in un’altra forma di strabismo.
Cioè nella differenza che si nota nelle risposte degli intervistati, a seconda che si parli dell’Italia in generale o della propria area, del quartiere, del Paese, della cittadina: «Se si chiede quale sia il maggior problema italiano, senza offrire una domanda già confezionata, nel 92% dei casi si resta nell’area crisi economica, mancanza di lavoro. Se la domanda viene posta sul proprio territorio quotidiano, si arriva al 50% proprio perché la percezione coincide con la realtà. Se non ci fosse il deficit informativo, anche per l’Italia saremmo alle stesse quote».
Se la sentirebbe di definirsi ottimista sul futuro dell’Italia? «Sì. A patto che si risolvano alcuni nodi essenziali. Una pressione fiscale troppo forte. Una burocrazia che diventi strumento di garanzia e non di freno. Una giustizia più rapida. Un sostegno efficace ai processi di autonomia delle nuove generazioni. Si può fare».
Per Pagnoncelli c’è un problema di fondo che lui stesso definisce «strabismo collettivo». In che senso? «Da giugno a oggi cala sensibilmente la visione generale del Paese — “l’Italia va in rovina” — mentre aumenta la qualità della prospettiva personale — “c’è la crisi ma io alla fine me la cavo” — producendo questo strabismo. Tutto ciò ha portato a una ridefinizione generale dei consumi personali: maggiore programmazione, abbandono delle spese dettate dall’impulso del momento. Nessun taglio lineare, e nemmeno nessun pauperismo. Un’abitudine a usare ciò che si ha e a riciclare ciò che si getta via, scelta che genera molto benessere interiore».
Ma tutto questo da cosa è dettato? Pagnoncelli indica un grande problema, il deficit informativo: «Prevale una generica percezione dei problemi rispetto alla realtà. Un esempio. Gli stranieri in Italia rappresentano il 7% della popolazione, l’idea radicata è che siano il 30%. Il dato reale di disoccupazione è del 12% della popolazione attiva. Chiedendo agli intervistati ci si sente rispondere che la quota è del 49%. Una cattiva conoscenza del dato reale produce quello “sconfittismo” che inevitabilmente si ripercuote sul clima generale del Paese e persino sui consumi, quindi sull’economia».
Pagnoncelli ha un’idea molto chiara sulle ragioni di questo deficit informativo. Riguarda la relazione tra gli italiani e il loro modello di conoscenza del reale: «Nel nostro Paese si leggono pochissimi giornali, meno di tre milioni e mezzo di copie quotidiane, ovvero si ricorre raramente a uno strumento di analisi e di valutazione più attenta del Paese. Resta centralissima l’informazione di tipo televisivo. La dieta mediatica italiana è basata sulla rapidità delle immagini, sulle suggestioni che producono. In quanto a Internet, a mio avviso l’effetto che produce è ancora più negativo: in tutti i social network prevale ampiamente quel pessimismo incombente di cui parlavamo prima. Per fare un esempio in negativo, la sensazione generale prodotta da questo deficit informativo è che l’Italia sia a un passo dalla Grecia, mentre non si ricorda che siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa subito dopo la Germania».
La riprova di questo «male mediatico» sta, secondo Pagnoncelli, in un’altra forma di strabismo.
Cioè nella differenza che si nota nelle risposte degli intervistati, a seconda che si parli dell’Italia in generale o della propria area, del quartiere, del Paese, della cittadina: «Se si chiede quale sia il maggior problema italiano, senza offrire una domanda già confezionata, nel 92% dei casi si resta nell’area crisi economica, mancanza di lavoro. Se la domanda viene posta sul proprio territorio quotidiano, si arriva al 50% proprio perché la percezione coincide con la realtà. Se non ci fosse il deficit informativo, anche per l’Italia saremmo alle stesse quote».
Se la sentirebbe di definirsi ottimista sul futuro dell’Italia? «Sì. A patto che si risolvano alcuni nodi essenziali. Una pressione fiscale troppo forte. Una burocrazia che diventi strumento di garanzia e non di freno. Una giustizia più rapida. Un sostegno efficace ai processi di autonomia delle nuove generazioni. Si può fare».
"L’Iva sugli ebook scende dal 22 al 4% La nuova sfida: convincere l’Europa", di Cristina Taglietti – Corriere della Sera 24.12.14
Finalmente anche un ebook è un libro. Anche in Italia, anche per il Fisco. La legge di Stabilità approvata dal Parlamento sancisce, dal primo gennaio 2015, l’applicazione dell’Iva al 4% e non più al 22. Per intenderci: fino al 31 dicembre il libro elettronico continuerà a essere trattato come un «servizio fornito elettronicamente», e quindi con l’aliquota massima; dal primo gennaio sarà trattato come un libro e quindi con l’Iva agevolata del 4%.
Per sapere se sarà davvero una vittoria bisognerà aspettare la decisione dell’Ecofin, il Consiglio che raccoglie i ministri dell’Economia dell’Unione Europea, ma l’approvazione del Parlamento italiano ha un sostanziale valore politico. Se l’Ecofin non deciderà di equiparare l’Iva, l’Italia, come la Francia (che l’ha ridotta al 5,5) e Lussemburgo (dov’è al 3%), corre il rischio di incorrere nella procedura di infrazione. «Se sarà avviata — ha dichiarato il ministro Dario Franceschini — ci difenderemo come stanno facendo Francia e Lussemburgo. Ma avvieremo comunque un lavoro di convincimento in sede europea».
La battaglia, promossa dagli editori e sostenuta da Franceschini, adesso deve servire a far cambiare idea agli altri Paesi d’Europa, compito non facile perché la decisione deve essere presa all’unanimità. Marco Polillo, presidente dell’Aie, l’Associazione italiana editori che ha promosso la campagna #unlibroèunlibro mobilitando 40 mila persone, spiega al «Corriere»: «Intanto Ecofin dovrà prendere la decisione partendo da alcune situazioni di fatto che sono a noi favorevoli. Perché un conto è avere l’appoggio formale del ministro che, con il semestre italiano di presidenza europea, aveva spinto il Consiglio dei ministri della Cultura dell’Ue ad appoggiare questa richiesta, un contro è avere una norma approvata dal Parlamento. Oltretutto questa è una delle poche questioni su cui c’è stato un accordo bipartisan».
In Europa il regime fiscale è diverso da Paese a Paese e molti applicano un’Iva agevolata sui libri, considerandoli veicoli di crescita culturale e democratica: in Norvegia, per esempio, sia il libro di carta che quello elettronico sono esenti da tassazione, mentre in Gran Bretagna e Irlanda è zero l’Iva sul cartaceo, ma non quella sull’ebook che arriva rispettivamente al 20 e al 23% e non tutti sono d’accordo con la proposta di equiparazione. «Insomma — dice Polillo — la battaglia non è ancora vinta, ma un grande passo avanti è stato fatto». Anche perché, dice Stefano Mauri, presidente del gruppo Gems, «grazie a questa campagna, molti Paesi europei che prima erano indifferenti al tema, se non contrari, adesso sono favorevoli. Insomma, per una volta, siamo noi da esempio. Abbiamo saputo dimostrare che sulle questioni fondamentali il mondo editoriale sa essere unito e convincente». E poi, scherza (ma non troppo) Mauri: «un altro effetto di questa campagna è quello di dimostrare che gli editori non sono dinosauri interessati soltanto alla carta, come alcuni dicono».
La speranza è che l’intervento contribuisca all’abbassamento del prezzo degli ebook e apra un mercato anche per i nativi digitali, magari invertendo la tendenza dei dati di lettura in continua erosione. «Un risultato decisivo, frutto di una mobilitazione mai vista, un’occasione in più per avvicinarsi ai libri anche attraverso il digitale» l’ha definito Laura Donnini, amministratore delegato di Rcs Libri che ha dato merito «al coraggio, alla tenacia, alla coerenza del ministro Dario Franceschini». Anche Riccardo Cavallero, direttore generale Libri Trade Mondadori, parla di «una grande emozione che ci ha uniti e resi determinati nel combattere una battaglia di grande impatto sociale».
«Risultato storico» per Antonio Monaco, ad di Sonda e presidente dei piccoli e medi editori dell’Aie: «Ci siamo fatti portavoce di ciò che lettori e autori ci chiedevano, di un mercato nuovo, di occasioni diverse di lettura». Soddisfazione anche a Torino, dove il Salone del Libro è da sempre cartina tornasole di ciò che succede nell’editoria: «Quest’anno potremo valutare i primi effetti di questo elemento di novità» ha detto il presidente Rolando Picchioni, mentre il direttore Ernesto Ferrero si augura che «la nuova strategia investa altre questioni in sofferenza: le librerie, le biblioteche, la formazione di nuovi lettori, che deve coinvolgere la famiglia e la scuola» .
La battaglia, promossa dagli editori e sostenuta da Franceschini, adesso deve servire a far cambiare idea agli altri Paesi d’Europa, compito non facile perché la decisione deve essere presa all’unanimità. Marco Polillo, presidente dell’Aie, l’Associazione italiana editori che ha promosso la campagna #unlibroèunlibro mobilitando 40 mila persone, spiega al «Corriere»: «Intanto Ecofin dovrà prendere la decisione partendo da alcune situazioni di fatto che sono a noi favorevoli. Perché un conto è avere l’appoggio formale del ministro che, con il semestre italiano di presidenza europea, aveva spinto il Consiglio dei ministri della Cultura dell’Ue ad appoggiare questa richiesta, un contro è avere una norma approvata dal Parlamento. Oltretutto questa è una delle poche questioni su cui c’è stato un accordo bipartisan».
In Europa il regime fiscale è diverso da Paese a Paese e molti applicano un’Iva agevolata sui libri, considerandoli veicoli di crescita culturale e democratica: in Norvegia, per esempio, sia il libro di carta che quello elettronico sono esenti da tassazione, mentre in Gran Bretagna e Irlanda è zero l’Iva sul cartaceo, ma non quella sull’ebook che arriva rispettivamente al 20 e al 23% e non tutti sono d’accordo con la proposta di equiparazione. «Insomma — dice Polillo — la battaglia non è ancora vinta, ma un grande passo avanti è stato fatto». Anche perché, dice Stefano Mauri, presidente del gruppo Gems, «grazie a questa campagna, molti Paesi europei che prima erano indifferenti al tema, se non contrari, adesso sono favorevoli. Insomma, per una volta, siamo noi da esempio. Abbiamo saputo dimostrare che sulle questioni fondamentali il mondo editoriale sa essere unito e convincente». E poi, scherza (ma non troppo) Mauri: «un altro effetto di questa campagna è quello di dimostrare che gli editori non sono dinosauri interessati soltanto alla carta, come alcuni dicono».
La speranza è che l’intervento contribuisca all’abbassamento del prezzo degli ebook e apra un mercato anche per i nativi digitali, magari invertendo la tendenza dei dati di lettura in continua erosione. «Un risultato decisivo, frutto di una mobilitazione mai vista, un’occasione in più per avvicinarsi ai libri anche attraverso il digitale» l’ha definito Laura Donnini, amministratore delegato di Rcs Libri che ha dato merito «al coraggio, alla tenacia, alla coerenza del ministro Dario Franceschini». Anche Riccardo Cavallero, direttore generale Libri Trade Mondadori, parla di «una grande emozione che ci ha uniti e resi determinati nel combattere una battaglia di grande impatto sociale».
«Risultato storico» per Antonio Monaco, ad di Sonda e presidente dei piccoli e medi editori dell’Aie: «Ci siamo fatti portavoce di ciò che lettori e autori ci chiedevano, di un mercato nuovo, di occasioni diverse di lettura». Soddisfazione anche a Torino, dove il Salone del Libro è da sempre cartina tornasole di ciò che succede nell’editoria: «Quest’anno potremo valutare i primi effetti di questo elemento di novità» ha detto il presidente Rolando Picchioni, mentre il direttore Ernesto Ferrero si augura che «la nuova strategia investa altre questioni in sofferenza: le librerie, le biblioteche, la formazione di nuovi lettori, che deve coinvolgere la famiglia e la scuola» .
Carpi – Tavola rotonda sulla libertà di informazione
Sabato 24 gennaio, dalle 11 alle 13 la Diocesi di Carpi ha organizzato una tavola rotonda, in occasione della festa del Patrono dei giornalisti, sul tema “La libertà di informazione tra democrazia e mercato alla luce delle limitazioni dei contributi pubblici all’editoria non profit e ai giornali di opinione non partitici”. Saranno presenti:
Monsignor Francesco Cavina, vescovo di Carpi
Francesco Zanotti, presidente nazionale della FISC
On. Manuela Ghizzoni, componente Commissione Cultura della Camera
On. Edoardo Patriarca, presidente del Cnv
"Buoni propositi e nuovi racconti", di Luca De Biase – Il Sole 24 Ore 21.12.14
Droni. Robot casalinghi. Intelligenza artificiale. Sensori. Semantica. Macchine per la produzione additiva. La tecnologia non si ferma e non cessa di stupire. Mentre le sue conquiste più mature, quelle che solo un paio d’anni fa apparivano ancora dirompenti, come i social network o i cellulari intelligenti, generano ricchezze enormi e abilitano attività innovative in molti settori connessi.
La tecnologia non è un insieme di macchine. È parte integrante della cultura, crea nuove opportunità economiche mentre ne mette in discussione altre, lancia incessantemente sfide alla società. Comprenderla non è saperla usare: è sapersi sintonizzare sulla sua dinamica di sviluppo. Le possibilità che offre non si colgono se non ci si adatta al suo ritmo. Per questo non basta la – pur necessaria – fatica di metterla in funzione: occorre abbeverarsi alle sorgenti dell’ispirazione che motivano a interpretarne le conseguenze.
Le preoccupazioni o le speranze che la tecnologia genera si confrontano con l’immagine di futuro che si riesce a coltivare. E questa non discende da un sistema di previsioni codificato ma dall’osservazione attenta dei fenomeni carichi di futuro: non le banali novità, ma i fatti che spostano la traiettoria della storia o almeno di una microstoria. Per questo il futuro non si prevede ma si interpreta agendo, con la mente proiettata a comprendere le conseguenze dell’azione. Consapevoli della complessità degli ecosistemi nei quali si agisce.
La narrazione che inquadra l’idea di futuro è dunque un elemento essenziale della forma che la tecnologia assume. E se un paese rifiuta di pensare il futuro, inevitabilmente si separa dalla dinamica che lo genera, finendo per subirlo.
L’Europa è consapevole di tutto questo e tenta di reagire. L’Italia ne parla e tenta di comprendere ciò che dice. Ma gli italiani ci sono. In ogni territorio del loro paese ci sono innovatori agguerriti, capaci, insieme, di intelligenza e bellezza.
Le preoccupazioni o le speranze che la tecnologia genera si confrontano con l’immagine di futuro che si riesce a coltivare. E questa non discende da un sistema di previsioni codificato ma dall’osservazione attenta dei fenomeni carichi di futuro: non le banali novità, ma i fatti che spostano la traiettoria della storia o almeno di una microstoria. Per questo il futuro non si prevede ma si interpreta agendo, con la mente proiettata a comprendere le conseguenze dell’azione. Consapevoli della complessità degli ecosistemi nei quali si agisce.
La narrazione che inquadra l’idea di futuro è dunque un elemento essenziale della forma che la tecnologia assume. E se un paese rifiuta di pensare il futuro, inevitabilmente si separa dalla dinamica che lo genera, finendo per subirlo.
L’Europa è consapevole di tutto questo e tenta di reagire. L’Italia ne parla e tenta di comprendere ciò che dice. Ma gli italiani ci sono. In ogni territorio del loro paese ci sono innovatori agguerriti, capaci, insieme, di intelligenza e bellezza.