Latest Posts
“Così la paura cambia il volto delle destre”, di Mauro Magatti – Corriere della Sera 4.1.15
La sinistra sembra lontana dalle inquietudini che attraversano i ceti popolari. A parte il caso della Grecia, i partiti di sinistra oggi rappresentano soprattutto i ceti medi istruiti e metropolitani: legati ai valori della tolleranza e del cosmopolitismo (sempre più spesso associati alla logica del mercato e della tecnocrazia), essi guardano con sufficienza a dimensioni quali la famiglia, l’identità culturale e territoriale, l’appartenenza religiosa.
Nel vuoto lasciato dalla sinistra, a crescere è la nuova destra che ormai si pone esplicitamente in contrapposizione al neoliberismo degli ultimi decenni. Un po’ dappertutto, a raccogliere consensi crescenti sono le formazioni che fanno leva sui temi dell’identità e che indicano nella lotta contro l’immigrazione il principale tema della propria proposta politica.
Il caso più noto è quello della Francia dove Marine Le Pen, favorita alla corsa per l’Eliseo, proprio ieri non si è risparmiata un attacco all’Italia, accusandola di essere la porta di ingresso di migliaia di immigrati in Europa. Ma non è da sottovalutare il cambiamento di clima che si va registrando in Germania, dove a capodanno Merkel è dovuta intervenire per stigmatizzare «chi predica l’odio» dopo le grandi manifestazioni organizzate a Dresda dal gruppo Pegida, gli «Europei patriottici contro l’islamizzazione dell’Occidente». Tensioni simili si registrano anche in Paesi noti per apertura e tolleranza quali Danimarca, Olanda, Svezia. E in Inghilterra, l’Ukip — che ha tra le altre cose proposto un embargo di 5 anni sulla stabilizzazione degli immigrati — è ormai una presenza scomoda, in grado di rubare voti al partito conservatore.
Muovendosi su questa linea, anche in Italia Salvini ha raddoppiato i consensi nel giro di pochi mesi.
Il fenomeno merita dunque di essere preso sul serio: la paura e la rabbia che si diffondono in Europa vanno ascoltati e non disprezzati, perché ci dicono che siamo entrati in un’epoca storica nuova.
Le considerazioni razionali — «in Paesi che invecchiano gli immigrati apportano un notevole sollievo demografico» — non bastano. In gioco c’è qualcosa di più profondo: di fronte a un presente gramo e a un futuro incerto, la sfida è riuscire a rispondere alla disillusione nei confronti della globalizzazione.
Si teme per il lavoro. I gruppi meno professionalizzati considerano temibili concorrenti i milioni di immigrati arrivati in questi anni: più motivati e disponibili, sono spesso preferiti dai datori di lavoro e più capaci di avviare nuove attività autonome.
Si teme per la propria incolumità: la percezione di insicurezza che si avverte nelle periferie di tante città si somma allo sgomento suscitato dall’ormai quotidiana crudeltà degli atti di terrorismo internazionale.
Ma forse, più in profondità, si teme per il destino di una storia — quella a cui si appartiene.
La metamorfosi della destra in corso — che nasce dunque dalla relazione tra dinamiche interne e internazionali — è un processo in corso. I suoi sbocchi ancora incerti.
Per questo è quanto mai importante decodificare l’inquietudine di fondo attorno a cui questo fenomeno sta prendendo forma: dopo l’euforia dei primi Anni 2000, la crisi sembra voler insegnare che una crescita solo estroflessa, oltre a essere economicamente insostenibile, è socialmente distruttiva. Per non compromettere la democrazia, l’economia non può più pensare di trascurare i processi di integrazione sociale (a cominciare dagli eccessi della disuguaglianza) e culturale (una comune appartenenza ha bisogno di riconoscere il senso del limite). Compito che, nelle attuali condizioni storiche, appare assai arduo.
Per questo occorre un immaginario politico-economico nuovo, in grado di tenere insieme ciò che oggi è destinato a separarsi. Ed è attorno a questo immaginario che l’asse destra-sinistra è destinato nei prossimi anni a venire ridisegnato.
“L’anticorruzione solo a parole”, di Giovanni Bianconi – Corriere della Sera 3.1.15
Matteo Renzi ha appena promesso una svolta e annunciato un nuovo disegno di legge per introdurre aggiustamenti che, oltre a soddisfare gli slogan lanciati dal premier, possono contribuire a meglio reprimere il fenomeno e in certa misura — si spera, attraverso qualche forma di deterrenza — a prevenirlo. Ma siamo ai primi passi. E resta l’incognita del dibattito parlamentare, che non si annuncia agevole per una maggioranza di centro-destra-sinistra che in tema di giustizia s’è sempre mostrata tutt’altro che compatta. Tuttavia sarebbe il caso di arrivare a un’approvazione rapida della riforma annunciata, se possibile migliorandola, attraverso l’impegno concreto dei partiti e magari una corsia preferenziale.
I magistrati hanno manifestato le loro perplessità, e suggerito soluzioni alternative o aggiunte per meglio poter svolgere il proprio lavoro di indagine e di giudizio. Archiviarle con l’invito alle toghe di fare meno interviste e più sentenze serve a poco; spesso anche le interviste (soprattutto degli addetti ai lavori) aiutano a comprendere la sostanza dei problemi e affrontarli nel merito, oltre che nei titoli dei giornali.
La proposta di prevedere sconti di pena per i «pentiti» della corruzione, ad esempio, non viene solo da pubblici ministeri e giudici, ma anche da esponenti del Pd (e della stessa corrente di Renzi): spezzare il legame di omertà tra chi indebitamente paga e chi viene indebitamente pagato è un modo per raggiungere più facilmente la prova del patto occulto, e per rendere più conveniente la denuncia. Ed è un appello costantemente ripetuto dal presidente dell’Autorità anticorruzione Raffele Cantone, magistrato della cui nomina il capo del governo fa continuo sfoggio per dimostrare la determinazione dell’esecutivo su questo terreno. Ma allora perché non dare seguito ai suoi consigli?
Il meccanismo «premiale» era contenuto nei disegni di legge entrati al Consiglio dei ministri di metà dicembre, ma poi è scomparso. Evidentemente per contrasti tra i partiti della maggioranza, che sarebbe bene superare durante la discussione per trasformare la proposta in legge. Vedremo se, almeno stavolta, alle parole seguiranno i fatti.
Lo Stato, attraverso il potere giudiziario, ha il compito di scovare e punire la criminalità economica; la società civile dovrebbe trovare lo stimolo e l’energia per considerare la corruzione un disvalore, anziché un’occasione per rimuovere gli ostacoli; alle forze politiche spetta di facilitare questo percorso promuovendo leggi che aiutino a far emergere i traffici illeciti consumati sottotraccia. Sono le tre componenti chiamate in causa da Napolitano, affinché lavorino «insieme, senza eccezione alcuna» per sradicare la malapianta e risalire la china. La speranza è che almeno ci provino seriamente, caricandosi ciascuno delle proprie responsabilità. Altrimenti saremmo di fronte ai soliti richiami caduti nel vuoto e all’ennesima occasione persa.
“Le sfide della cooperazione”, di Nadia Urbinati – La Repubblica 2.1.15
“Un richiamo per ricordare a tutti che il futuro dipende da ognuno di noi”, di Mario Calabresi – La Stampa 2.1.15

«Gli scatoloni non sono mai tornati indietro, i miei libri sono tutti al Senato, sono oltre 3mila e sono là ad aspettarmi. Anche i vestiti erano stati portati a casa e li sono rimasti, l’altro giorno sono andato con mia moglie a prendere un abito più leggero visto che viene il caldo, ma di ritraslocare qui non ci ho mai pensato. L’Italia dovrà avere la maturità di eleggere un nuovo presidente perché non può permettersi di averne uno di novant’anni». Lo scorso aprile avevo incontrato Giorgio Napolitano nel suo studio ed ero rimasto colpito dall’assenza delle consuete pile di volumi sottolineati e appuntati, era il segno tangibile della provvisorietà ed eccezionalità del secondo mandato al Quirinale.
Un mandato non cercato e non voluto, tanto che, nel suo ultimo discorso pubblico, l’emozione non ha prevalso perché a vincere questa volta è stato un senso di sollievo. Quasi una liberazione da una carica accettata in un momento di emergenza, in giorni di sbandamento totale della politica solo per senso del dovere e senso di responsabilità.
Proprio quei due valori “desueti” che il Presidente ha indicato nel suo ultimo discorso come gli unici capaci di alimentare una riscossa del Paese.
Ora che siamo entrati nell’anno in cui raggiungerà il traguardo dei novanta ecco l’annuncio delle dimissioni, dettate non solo dall’idea di essere un capo dello Stato a tempo, quasi “in prestito”, ma anche dalla convinzione che non si possano sottovalutare i segni dell’affaticamento che aumentano ogni giorno e per non esporre la figura del Presidente ai rischi dell’età.
Napolitano aveva già pensato di lasciare lo scorso anno, la sua agenda per molto tempo si è fermata alle elezioni europee, dopo non c’era segnato più nulla. Poi una campagna elettorale infiammata in tutto il continente dal populismo e da quelli che l’altroieri sera ha liquidato come «i velleitari appelli all’abbandono dell’euro», una campagna che molto lo aveva preoccupato per la percezione di essere sull’orlo di un precipizio nella barbarie politica e civile, lo aveva convinto che l’Italia non avesse bisogno di un’ulteriore fibrillazione e che era opportuno garantire continuità e stabilità nel semestre di presidenza italiana.
Adesso siamo arrivati a quel traguardo e il suo nono discorso di fine anno è stato molto diverso dai precedenti, verrebbe da dire che tutto quello che aveva da dire l’aveva già detto. Questa volta è stato ben attento a non invadere il campo del suo successore, a non indicare le priorità politiche e istituzionali del Paese quando ci sarà qualcun altro a elencarle da qui a un mese.
Il suo discorso aveva un altro scopo, Napolitano voleva congedarsi, spiegare agli italiani che la sua elezione era stata frutto di una congiuntura eccezionale e che le dimissioni non avevano ragioni politiche ma personali. E soprattutto voleva ringraziare i cittadini e sottolineare che è stato un onore ricoprire la più importante delle cariche pubbliche.
Così il suo discorso non ha quasi mai avuto come interlocutori i politici – se non nell’appello a non sprecare la stagione delle riforme e a mostrare maturità preparandosi serenamente ad eleggere il suo successore – per il resto era davvero tutto rivolto ai cittadini comuni. Con l’idea che sia fondamentale ricordare che il futuro del Paese dipende da ognuno di noi, dalla somma dei comportamenti individuali e che l’idea di servizio non deve mai sembra aliena.
Per questo sono significativi gli esempi che ha portato, esempi di cittadini al servizio alla collettività, esempi positivi in un discorso pubblico che sembra vedere solo il negativo. Il marcio c’è, eccome, tanto che Napolitano ha preso in prestito una frase emersa dalle intercettazioni dell’ultima inchiesta sul sistema di corruzione mafiosa a Roma per parlare del “mondo di sotto”, quello opaco e criminale, e spronare a «bonificare il sottosuolo marcio e corrosivo della nostra società».
Ma dobbiamo anche riscoprire e valorizzare il «capitale umano» di cui disponiamo per non cadere in quella «indifferenza globale» denunciata da Papa Francesco. E qui Napolitano indica la strada con parole coraggiosamente desuete, non solo il senso del dovere ma anche la combattività e lo spirito di sacrificio. Certo parlare di spirito di sacrificio agli italiani che pensano di averne già fatti troppi di sacrifici in questa crisi può apparire azzardato, ma non è questo il problema per un uomo che sta per congedarsi dal più importante degli incarichi e che ha visto la Seconda guerra mondiale e sa che le società non si rimettono in piedi senza fatica e coraggio.
«Perché da ciascuno di voi – ha concluso – può venire un impulso importante per il rilancio e un nuovo futuro dell’Italia. Lo dimostrano quei giovani che non restano inerti – dopo aver completato il loro ciclo di studi – nella condizione ingrata di senza lavoro, ma prendono iniziative, si associano in piccoli gruppi professionali per fare innovazione, creare, aprirsi una strada».
Il messaggio agli italiani è chiarissimo, ora tocca alla classe politica mostrarsi all’altezza della sfida e del compito, nel momento in cui questo “presidente a tempo” si congeda per tornare finalmente alla sua casa e ai suoi libri.
Il commiato di Napolitano – testo integrale del discorso di fine anno del Presidente della Repubblica – 2.1.15
Il messaggio augurale di fine d’anno che ormai dal 2006 rivolgo a tutti gli italiani, presenterà questa volta qualche tratto speciale e un po’ diverso rispetto al passato. Innanzitutto perché le mie riflessioni avranno per destinatario anche chi presto mi succederà nelle funzioni di Presidente della Repubblica. Funzioni che sto per lasciare, rassegnando le dimissioni: ipotesi che la Costituzione prevede espressamente. E desidero dirvi subito che a ciò mi spinge l’avere negli ultimi tempi toccato con mano come l’età da me raggiunta porti con sé crescenti limitazioni e difficoltà nell’esercizio dei compiti istituzionali, complessi e altamente impegnativi, nonché del ruolo di rappresentanza internazionale, affidati dai Padri Costituenti al Capo dello Stato.
A quanti auspicano – anche per fiducia e affetto nei miei confronti – che continui nel mio impegno, come largamente richiestomi nell’aprile 2013, dico semplicemente che ho il dovere di non sottovalutare i segni dell’affaticamento e le incognite che essi racchiudono, e dunque di non esitare a trarne le conseguenze. Ritengo di non poter oltre ricoprire la carica cui fui chiamato, per la prima volta nel maggio del 2006, dal Parlamento in seduta comune. Secondo l’opinione largamente prevalente tra gli studiosi, si tratta di una valutazione e di una decisione per loro natura personali, costituzionalmente rimesse al solo Presidente, e tali da non condizionare in alcun modo governo e Parlamento nelle scelte che hanno dinanzi né subendone alcun condizionamento. Penso che questi semplici chiarimenti possano costituire una buona premessa perché Parlamento e forze politiche si preparino serenamente alla prova dell’elezione del nuovo Capo dello Stato. Sarà quella una prova di maturità e responsabilità nell’interesse del paese, anche in quanto è destinata a chiudere la parentesi di un’eccezionalità costituzionale.
Personalmente resto convinto che la disponibilità richiestami e offerta nell’aprile 2013, in un momento di grave sbandamento e difficoltà post-elettorale, sia risultata un passaggio determinante per dare un governo all’Italia, rendere possibile l’avvio della nuova legislatura e favorire un confronto più costruttivo tra opposti schieramenti politici. Ma è positivo che ora si torni, per un aspetto così rilevante, alla normalità costituzionale, ovvero alla regolarità dei tempi di vita delle istituzioni, compresa la Presidenza della Repubblica.
L’aver tenuto in piedi la legislatura apertasi con le elezioni di quasi due anni fa, è stato di per sé un risultato importante : si sono superati momenti di acuta tensione, imprevisti, alti e bassi nelle vicende di maggioranza e di governo ; si è in sostanza evitato di confermare quell’immagine di un’Italia instabile che tanto ci penalizza, e si è messo in moto, nonostante la rottura del febbraio scorso, l’annunciato, indispensabile processo di cambiamento.
Un anno fa, nel messaggio del 31 dicembre, avevo detto : “Spero di poter vedere nel 2014 almeno iniziata un’incisiva riforma delle istituzioni repubblicane”. Ebbene, è innegabile che quell’auspicio si sia realizzato. E il percorso va, senza battute d’arresto, portato a piena conclusione. Non occorre che io ripeta – l’ho fatto ancora di recente in altra pubblica occasione – le ragioni dell’importanza della riforma del Parlamento, e innanzitutto del superamento del bicameralismo paritario, nonché della revisione del rapporto tra Stato e Regioni.
Ma sul necessario più vasto programma di riforme – istituzionali e socio-economiche – messo in cantiere dal governo, sulle difficoltà politiche che ne insidiano l’attuazione, sulle possibilità di dialogo e chiarimento con forze esterne alla maggioranza di governo – anche, s’intende, e in via prioritaria, per il varo di una nuova legge elettorale – non torno ora avendovi già dedicato largamente il mio intervento, due settimane fa, all’incontro di fine anno con i rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile. Vorrei piuttosto ragionare con voi su come stiamo vivendo questo momento in quanto generalità dei cittadini, uniti dall’essere italiani.
Credo sia diffuso e dominante l’assillo per le condizioni della nostra economia, per l’arretramento dell’attività produttiva e dei consumi, per il calo del reddito nazionale e del reddito delle famiglie, per l’emergere di gravi fenomeni di degrado ambientale, e soprattutto – questione chiave – per il dilagare della disoccupazione giovanile e per la perdita di posti di lavoro. Dalla crisi mondiale in cui siamo precipitati almeno dal 2009, nemmeno nell’anno che oggi si chiude siamo riusciti a risollevarci. Parlo dell’Europa e in particolare dell’Italia.
Gli Stati Uniti, da cui partì – anche per errate scelte politiche – la crisi finanziaria, conoscono un’impennata della ripresa già avviata e guardano all’Europa per uno sforzo corrispondente, benché in condizioni assai diverse. In effetti, l’Italia ha colto l’opportunità del semestre di presidenza del Consiglio per sollecitare un cambiamento nelle politiche dell’Unione che accordi la priorità a un rilancio solidale delle nostre economie. Tra breve il Presidente del Consiglio Renzi tirerà le somme dell’azione critica e propositiva svolta a Bruxelles. Nulla di più velleitario e pericoloso può invece esservi di certi appelli al ritorno alle monete nazionali attraverso la disintegrazione dell’Euro e di ogni comune politica anti-crisi.
Tutti gli interventi pubblici messi in atto in Italia negli ultimi anni stentano a produrre effetti decisivi, che allevino il peso delle ristrettezze e delle nuove povertà per un così gran numero di famiglie e si traducano in prospettive di occupazione per masse di giovani tenuti fuori o ai margini del mercato del lavoro.
Guardando ai tratti più negativi di questo quadro, e vedendo come esso si leghi a debolezze e distorsioni antiche della nostra struttura economico-sociale e del nostro Stato, si può essere presi da un senso di sgomento al pensiero dei cambiamenti che sarebbero necessari per aprirci un futuro migliore, e si può cedere al tempo stesso alla sfiducia nella politica, bollandola in modo indiscriminato come inadeguata, inetta, degenerata in particolarismi di potere e di privilegio.
Non può, non deve essere questo l’atteggiamento diffuso nella nostra comunità nazionale. Occorre ritrovare le fonti della coesione, della forza, della volontà collettiva che ci hanno permesso di superare le prove più dure in vista della formazione del nostro Stato nazionale unitario e poi del superamento delle sue crisi più acute e drammatiche. Il Centocinquantenario dell’Unità si è perciò potuto celebrare – non dimentichiamolo – con orgoglio e fiducia, pur nella coscienza critica dei tanti problemi rimasti irrisolti e delle nuove sfide con cui fare i conti.
Un recupero di ragionata fiducia in noi stessi, una lucida percezione del valore dell’unità nazionale, sono le condizioni essenziali per far rinascere la politica nella sua accezione più alta, per rendere vincente quell’impegno molteplice e di lunga lena che i cambiamenti necessari all’Italia chiaramente richiedono.
Ho fatto del mio meglio in questi lunghi e travagliati anni della mia Presidenza per rappresentare e rafforzare l’unità nazionale, per sanare le ferite che aveva subito, per ridarle l’evidenza che aveva perduto : se vi sia in qualche modo riuscito, toccherà dirlo a quanti vorranno con obbiettività e insieme con spirito critico analizzare il mio operato.
Di strada comunque ne abbiamo percorsa, nella direzione che indicai in Parlamento dopo aver giurato da Presidente il 15 maggio 2006 : “il reciproco riconoscimento, rispetto e ascolto tra gli opposti schieramenti, il confrontarsi con dignità nelle assemblee elettive, l’individuare i temi di necessaria convergenza nell’interesse generale” non contrastano con la democrazia dell’alternanza, ma ne definiscono il più maturo e costruttivo modo di essere in sintonia con l’imperativo dell’unità nazionale. Si, in questa direzione, anche se tra alti e bassi, si sta andando avanti. Ed è il solo modo di garantire all’Italia stabilità politica e continuità istituzionale, e di affrontare su larghe basi unitarie le più gravi patologie di cui il nostro paese soffre.
A cominciare da quella della criminalità organizzata e dell’economia criminale ; e da quella di una corruzione capace di insinuarsi in ogni piega della realtà sociale e istituzionale, trovando sodali e complici in alto : gli inquirenti romani stanno appunto svelando una rete di rapporti tra “mondo di sotto” e “mondo di sopra”. Sì, dobbiamo bonificare il sottosuolo marcio e corrosivo della nostra società. E bisogna farlo insieme, società civile, Stato, forze politiche senza eccezione alcuna. Solo riacquisendo intangibili valori morali la politica potrà riguadagnare e vedere riconosciuta la sua funzione decisiva.
Valori morali, valori di cultura e di solidarietà. Non lasciamo occupare lo spazio dell’attenzione pubblica solo a italiani indegni. Rendiamo omaggio a italiani esemplari. Come la brillante scienziata, Fabiola Gianotti, eletta all’unanimità direttore generale del Centro europeo per la Ricerca Nucleare a Ginevra. O come l’astronauta Samantha Cristoforetti che ci parla semplicemente, con modestia e professionalità, della ricerca scientifica in corso nello spazio.
Siamo orgogliosi di questi italiani campioni di cultura e di solidarietà. Come Fabrizio, il medico di Emergency accorso in Sierra Leone per curare i colpiti dal virus Ebola anche a costo di esserne contagiato e rischiare la vita. O come Serena Petriucciolo , ufficiale medico della Marina che sulla nave Etna ha aiutato – nella notte di Natale – una profuga nigeriana a dare alla luce la sua bimba. E che dire della perizia e generosità di cui gli italiani lanciatisi a soccorrere i passeggeri del traghetto in fiamme sulla rotta tra la Grecia e l’Italia hanno dato prova?
Ho voluto fare almeno questi pochi richiami al valore delle risorse umane di cui ci mostriamo dotati e di cui ci si dà atto internazionalmente ; potendo citare molti altri esempi individuali, che peraltro rinviano all’eccellenza dei nostri centri in cui i singoli si sono formati. Così come rinviano al magnifico impegno sia delle forze dello Stato sia del volontariato sui fronti di tutte le emergenze. Dalla constatazione delle qualità del nostro capitale umano può venire e diffondersi un’accresciuta consapevolezza della nostra identità e della nostra missione nazionale.
Una missione da esprimere anche in un atteggiamento più assertivo e in una funzione più attiva in seno alla comunità internazionale. Il canale principale per assolvere questa funzione è naturalmente dato dal concerto europeo, nel quale all’Italia è toccata la guida della politica estera e di sicurezza comune europea e la responsabilità operativa del Servizio esterno di azione europea. E il contesto internazionale in cui muoverci è critico e problematico come mai negli ultimi due decenni. Ne vengono per l’Italia e per l’Unione europea impegni di riflessione ed analisi, e soprattutto di proposta e di azione, non solo diplomatica, rispetto ai quali non ci si può tirare indietro. Il rischio di cadere in quell’indifferenza globale che Papa Francesco denuncia con tanto vigore è dietro l’angolo, anche da noi.
A quel rischio deve opporsi una sensibilità sempre più diffusa per le conquiste e i valori di pace e di civiltà oggi in così grave pericolo. La crescita economica, l’avanzamento sociale e civile, il benessere popolare che hanno caratterizzato e accompagnato l’integrazione europea, hanno avuto come premessa e base fondamentale lo stabilirsi di uno spirito di pace e di unità tra i nostri popoli. Ebbene, questo storico progresso è sotto attacco per l’emergere di inauditi fenomeni e disegni di destabilizzazione, di fanatismo e di imbarbarimento, fino alla selvaggia persecuzione dei cristiani. Dal disegno di uno o più Stati islamici integralisti da imporre con la forza sulle rovine dell’Iraq, della Siria, della Libia ; al moltiplicarsi o acuirsi di conflitti in Africa, in Medio Oriente, nella regione che dovrebbe essere ponte tra la Russia e l’Europa : di questo quadro allarmante l’Italia, gli italiani devono mostrarsi fattore cosciente e attivo di contrasto. Ci dà forza la parola, il magistero del Pontefice che per la Giornata Mondiale della Pace si fa portatore di un messaggio supremo di fraternità, e ci richiama alla durissima realtà dei “molteplici volti della schiavitù” nel mondo d’oggi.
Farci, ciascuno di noi, partecipi di un sentimento di solidarietà e di un impegno globale – sconfiggendo l’insidia dell’indifferenza – per fermare queste regressioni e degenerazioni, è un comandamento morale ineludibile. E forse, facendoci lucidamente carico di quanto sta sconvolgendo il mondo, potremo collocare nella loro dimensione effettiva i nostri problemi e conflitti interni, di carattere politico e sociale ; potremo superare l’orizzonte limitato, ristretto in cui rischiamo di chiuderci.
Ho così concluso l’appello che questa sera ho voluto indirizzare, più che ai miei naturali interlocutori istituzionali, a ciascuno di voi come persone, come cittadini, attivi nella società e nelle sue molteplici formazioni civili. Perché da ciascuno di voi può venire un impulso importante per il rilancio e un nuovo futuro dell’Italia. Lo dimostrano quei giovani che non restano inerti – dopo aver completato il loro ciclo di studi – nella condizione ingrata di senza lavoro, ma prendono iniziative, si associano in piccoli gruppi professionali per fare innovazione, creare, aprirsi una strada.
Dal modo in cui tutti reagiamo alla crisi e alle difficoltà con cui l’Italia è alle prese, nasceranno le nuove prospettive di sviluppo su cui puntiamo, su cui dobbiamo puntare “dall’alto e dal basso”. Il cammino del nostro paese in Europa, lo stesso cammino della politica in Italia lo determineremo tutti noi, e quindi ciascuno di noi, con i suoi comportamenti, le sue prese di coscienza, le sue scelte. Più si diffonderanno senso di responsabilità e senso del dovere, senso della legge e senso della Costituzione, in sostanza senso della Nazione, più si potrà creare quel clima di consapevolezza e mobilitazione collettiva che animò la ricostruzione post-bellica e che rese possibile, senza soluzione di continuità, la grande trasformazione del paese per più di un decennio.
Mettiamocela dunque tutta, con passione, combattività e spirito di sacrificio. Ciascuno faccia la sua parte al meglio. Io stesso ci proverò, nei limiti delle mie forze e dei miei nuovi doveri, una volta concluso il mio servizio alla Presidenza della Repubblica, dopo essermi impegnato per contribuire al massimo di continuità e operosità costituzionale durante il semestre di presidenza italiana del Consiglio dell’Unione Europea. Resterò vicino al cimento e agli sforzi dell’Italia e degli italiani, con infinita gratitudine per quel che ho ricevuto in questi quasi nove anni non soltanto di riconoscimenti legati al mio ruolo, non soltanto di straordinarie occasioni di allargamento delle mie esperienze, anche internazionali, ma per quel che ho ricevuto soprattutto di espressioni di generosa fiducia e costante sostegno, di personale affetto, direi, da parte di tantissimi italiani che ho incontrato o comunque sentito vicini. Non lo dimenticherò. Grazie ancora. E che il 2015 sia un anno fecondo di risultati positivi per il nostro paese, le nostre famiglie, i nostri ragazzi.