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“Attentato Parigi, deputati Pd “Idealmente vicini al presidio modenese” – comunicato stampa 08.01.15

Attentato Parigi, deputati Pd “Idealmente vicini al presidio modenese”
I deputati modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini e Matteo Richetti, impegnati in Aula alla Camera, aderiscono idealmente al presidio odierno in piazza Torre. Ecco la loro dichiarazione:

“Impegnati nel lavoro di Aula alla Camera, diamo la nostra adesione ideale al presidio organizzato per il tardo pomeriggio di oggi in piazza Torre, a Modena, organizzato da Cgil, Cisl e Uil per condannare l’atroce attentato contro la redazione di Charlie Hebdo di cui sono rimasti vittime giornalisti, vignettisti e poliziotti. È in momenti come questi che dobbiamo stringerci assieme, uniti dal bene comune rappresentato dalla difesa della democrazia e della libertà che proprio i morti del sacrario della Ghirlandina ci ricordano. Esprimiamo la nostra solidarietà al popolo francese e al mondo dell’informazione, e dolore per le vittime e i loro familiari. La violenza e l’odio non piegheranno le nostre comunità”.

“I filosofi del dialogo”, di Alberto Melloni – Corriere della Sera 08.01.14

La cultura europea è profondamente segnata dagli orrori di cui si è resa responsabile: si è abbandonata alla violenza religiosa, all’interno e fra le Chiese; ha inventato una macchina di sfruttamento bestiale basata sullo schiavismo e sul colonialismo; ha costruito l’inferno totalitario e il genocidio come soluzione «finale», che non ha avuto pietà di nessuno. Ma quella stessa cultura ha sviluppato idee che costituiscono un anticorpo agli orrori. Non un antidoto, giacché quel veleno — lo dimostra l’islamofobia contro la quale i berlinesi in questi giorni si sono schierati come un muro, davanti alla porta di Brandeburgo oscurata per marcare il lutto della ragione — può sempre tornare: ma un anticorpo che combatte l’orrore, fatto di concezione dei diritti, di aspirazioni democratiche, di una visione pluralistica dell’uomo e della società, di una teologia.
Quell’anticorpo di cui sono privi coloro che, ingannando se stessi, si credono titolati a uccidere in nome di un Dio di cui bestemmiano il nome di Clemente e Misericordioso; coloro che fanno coraggio alla propria codardia con quel grido «Dio è grande», che è il grido dei redenti e non degli assassini di inermi.
Di questi assassini se ne sono visti in giro parecchi, in Europa: quelli che sparavano in testa ai bambini ebrei di Tolosa, che mitragliavano i visitatori del museo ebraico di Bruxelles e che ieri sono andati a sparare alla cosa più ebraica che ci sia — il gusto dissacrante dell’ironia.
Può darsi che questi macellai abbiano studiato in un’Europa che insegna poco e male le due radici della propria convivenza. Le misure antiterrorismo possono difendere, finché riescono, capi di Stato, autorità religiose, obiettivi «sensibili». Ma l’unica cosa che può proteggere una società è la confluenza di due movimenti.
Uno viene dalla teologia medievale. Nel 1141-1142, Pietro Abelardo scrive il suo ultimo Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano , nel quale l’arbitro è un filosofo, secondo alcuni lettori portatore di un aristotelismo islamico: e davanti all’ebreo che vanta il dono della legge e la pazienza del popolo scelto da Dio, davanti al cristiano che vanta la capacità della morale cristiana di portare l’uomo ai limiti della sua perfettibilità, deduce che — in sostanza — è «una cosa buona, quella che porta vantaggio a uno, senza andare necessariamente contro l’utile o la dignità di un altro» e, viceversa, si deve chiamare male quello che si oppone necessariamente al vantaggio o al decoro di un altro».
L’altra radice viene dalla filosofia illuminista. Gotthold Ephraim Lessing scrive il dramma Nathan il saggio nel 1779.
Il protagonista racconta al Saladino la famosa parabola dei tre anelli, già nota al Boccaccio: il padre, che non vuole «sopportare la tirannia di un solo anello in casa sua», consegna ai tre figli tre anelli identici, pegno del suo amore e promessa di virtù in chi li porta.
Davanti a quest’idea — l’idea cioè che sia identica la verità di ciascuno dei tre grandi monoteismi abramitici — il Saladino reagisce, osservando che le differenze fra le manifestazioni di fede sono vistose. Ma, come spiega Nathan: posso io credere ai miei padri meno che tu ai tuoi? O viceversa? Posso forse pretendere che tu, per non contraddire i miei padri, accusi i tuoi di menzogna? O viceversa?
Parole, si dirà: irrilevanti per chi oggi dà la caccia agli stragisti di Parigi o per chi deve pensare rapidissimamente e con una qualche esperienza a come liquidare le decine di giovani che, espatriati per essere formati come tagliagole, sono pronti a tornare avendo perso anima, fede e cervello.
Ma se non ci si appella a queste parole, se non si torna a pensare che la cultura è questa, perderemo il nostro anticorpo civile: diventeremo senza accorgercene i teorici di una discriminazione religiosa che ci perderà, i pantofolai sostenitori di una crociata di cui pagheranno altri il prezzo.
E prima o poi anche nelle nostre orecchie, come in quelle di una quota piccola ma sanguinaria di musulmani, tornerà a farsi sentire il diabolico sussurro che dice «Dio lo vuole», e con la sua seduzione ruba le anime alla redenzione, perverte la fede di un Abramo sempre più sconsolato nel vedere i suoi nipoti ridotti così, a manovalanza della morte, a fattorini della paura.

Edilizia scolastica, Ghizzoni “Fondi finalmente in dirittura d’arrivo” – comunicato stampa 08.01.15

 

«Per il nostro territorio che ha fame di nuove scuole si apre finalmente una concreta opportunità di interventi sostanziali»: questo il commento della parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni sull’attuazione del Dl Istruzione n. 104 del 2013, con importanti misure in materia di edilizia scolastica. Ecco la sua dichiarazione:

 

Buone notizie per l’edilizia scolastica. Sono infatti in dirittura di arrivo i fondi, stimati fra gli 800 e i 900 milioni, a disposizione dei Comuni che dovranno realizzare nuove scuole. La possibilità si aprirà con l’attuazione del Dl Istruzione n. 104 del 2013. “Nei prossimi giorni – dichiara la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera – il decreto attuativo, già firmato dal Ministero dell’Istruzione, dovrà passare alla firma dei ministri delle Infrastrutture e dell’Economia. I fondi verranno erogati dallo Stato alle Regioni sulla base di un prestito concesso dalla Banca europea degli investimenti. Per gli Enti locali si apre la possibilità di realizzare le opere senza esborso di risorse e al di fuori del patto di stabilità. I Comuni potranno programmare e appaltare per il triennio 2015/2017 interventi di costruzione e ricostruzione di edifici e plessi scolastici così come previsto dal Decreto. È importante cogliere subito questa opportunità, perché i tempi sono brevi: le Regioni infatti dovranno raccogliere, vagliare e inviare i programmi dei Comuni, già previsti e appaltati, entro il 31 marzo, per una successiva approvazione del Ministero che avverrà entro il 30 aprile. Per il nostro territorio che ha fame di nuove scuole si apre finalmente una concreta opportunità di interventi sostanziali, sia in città che in provincia. Si pensi, in particolare,  a tutto il sistema di edilizia scolastica seriamente compromesso dal sisma del 2012 nei comuni del cratere”. Intanto, a dimostrazione dell’importanza che il tema ha per il Governo, oggi è stato convocato, per la prima volta dopo 17 anni, a Roma, presso la sede del Ministero dell’Istruzione, l’Osservatorio per l’edilizia scolastica, ai cui lavori parteciperanno anche i rappresentanti dei Ministeri dell’Economia, delle Infrastrutture e dei Beni culturali e del Turismo, oltre a quelli di Anci, Upi e coordinamento delle Regioni.

“La favola milionaria di Gianluigi “Dal Salento agli Usa l’eolico per tutti”, di Riccardo Luna – La Repubblica 7.1.15

La Befana, nella calza di un ragazzo salentino, ha infilato cinque milioni e mezzo di euro; e quando è ripartita, per l’America o chissà dove, invece della scopa, era a cavallo di una mini turbina eolica fatta in Puglia.
Questa storia è una fiaba da raccontarci la sera per credere ancora che non è tutto perduto. Non è tutto perduto se esistono ragazzi come Gianluigi Parrotto che, senza chiedere un euro a nessuno, si è inventato un prodotto innovativo, ci ha costruito attorno una azienda e ha avuto così successo che in un anno appena ha venduto tutto ad un misterioso gruppo americano non con l’obiettivo di diventare ricco, ma per continuare a produrre turbine – e non solo – nella sua terra: «Voglio far nascere altre startup nel Salento» dice con la sua parlantina sicura, e per un attimo dimentichi che lui stesso è nato soltanto nel 1994: ha vent’anni.
Ma chi è davvero? E come ha fatto? «Sono nato a Poggiardo, in ospedale, ma i miei stavano a Casarano, in provincia di Lecce. Dopo il biennio di Istituto industriale, a 16 anni mi sono trasferito da solo a Brindisi perché volevo frequentare una nuova scuola di cui avevo letto meraviglie ». Parla del Majorana, dove il preside Salvatore Giuliano aveva appena iniziato la sperimentazione di libri scritti da docenti, computer e wi-fi per tutti, lezioni “rovesciate”, classi scomposte e colorate: il progetto Book in Progress . Parrotto è subito uno degli studenti migliori. L’anno seguente, la prima coincidenza: su un volo da Brindisi a Roma siede accanto a un piccolo produttore bresciano di impianti fotovoltaici. «Proprio quel giorno a Casarano avevano iniziato l’installazione di pannelli che non mi piacevano affatto. “Possibile fare di meglio?”, gli chiedo». Una mini turbina eolica, niente di davvero speciale in fondo. «Sì, ma avevo davanti due strade: o diventavo un venditore di turbine o me ne inventavo una mia. Ho scelto la seconda».
Dopo i primi prototipi, realizzati in un capannone a Brescia, nel maggio del 2012 Parrotto presenta domanda di brevetto: la sua mini turbina ha una distanza fra albero e vele che le permette di partire anche con pochissimo vento, «arriva ad un picco di potenza di 6 kilowatt con appena 130 rotazioni al minuto ». Nel marzo del 2013 nasce la GP Renewable, le iniziali del fondatore nel nome. A dicembre il primo impianto viene installato in Puglia: «Lo abbiamo venduto sottocosto, per 13 mila euro». Già, e i soldi? Dove ha trovato Parrotto i soldi per partire? Non dai bandi pubblici, «mai partecipato»; non dagli investitori professionali in startup, i venture capitalist, «mai visti». E non dalla famiglia, anzi: sebbene il papà sia diventato socio al 10 per cento, nel frattempo aveva perso il lavoro «e oggi è un dipendente della mia società, fa l’installatore». E qui c’è la seconda coincidenza: un altro volo, stavolta fra Brindisi e Milano. Il compagno di viaggio stavolta è il direttore generale di una grande banca. Insomma, si innamora del progetto (e della parlantina di Parrotto) e il giovane startupper ottiene un affidamento bancario sufficiente a partire. Anche perché le sue turbine si vendono alla grande: «Un centinaio in un anno». Cosa hanno di speciale? Qui Parrotto si fa serio: «Lo ammetto. Non molto. A parte il fatto che l’azienda era guidata da un adolescente e questo ci ha aiutato a farci conoscere ». I nuovi prodotti invece saranno una bomba, dice: «Vetroresina, fibra di carbonio, titanio: il team di ingegneri che lavora al mio fianco ha fatto meraviglie, vedrete». Quando? A fine gennaio: presentazione ufficiale del nuovo gruppo, “gli americanI”. Chi sono? Mistero, ma i giornali locali hanno già sparato la notizia in prima pagina cantando le lodi di quello che un tempo lì chiamavano “Il Briatore dei poveri” per via degli occhiali azzurri ormai archiviati, ma che adesso merita un soprannome molto più generoso, probabilmente.
Insomma, gli americani: «Un fondo di investimento, roba grossa, nomi grossi: hanno investito 5,5 milioni di euro nella creazione di una nuova società, la Air Group Italy, che ha inglobato la GP Renewable e io sarò presidente. Prenderemo capannoni industriali abbandonati a Casarano: le turbine le produrremo lì. Ma non solo: vogliamo creare un polo di startup innovative in Salento. Spazi e consulenza li metteremo a disposizione gratis».
Sembra anche troppo, persino per una fiaba, e molte cose sono ancora da raccontare e chiarire. Ma intanto giù il cappello per questo ragazzo-grande, sempre elegante, sicuro ma mai arrogante, che guarda avanti e parla come se fosse destinato a un futuro più grande quando dice: «La turbina diventerà come la lavatrice, un elettrodomestico alla portata di tutti».

“Mai una donna al Colle Da Iotti a Jervolino tutti i veti che hanno impedito una svolta”. di Sebastiano Messina – La Repubblica 7.1.15

Dieci donne sono già salite al Quirinale, in questi settant’anni di Repubblica. Dieci donne: ma come mogli, o come figlie (anche se due di loro, la moglie di Pertini e quella di Cossiga, non vollero dormire in quel palazzo abitato dai papi e dai re neanche per una notte). Una presidente, però, l’Italia non l’ha mai avuta. Dagli anni Ottanta in poi, alla vigilia di ogni elezione spunta immancabilmente il nome di una donna — da Tina Anselmi a Nilde Iotti, da Rosa Russo Jervolino a Emma Bonino — che però alla fine viene puntualmente bocciato. L’ultima volta, poi, sonovolati anche gli insulti.
Siamo nell’aprile 2013 e Pierluigi Bersani mette nella rosa dei suoi candidati la più longeva senatrice del Pd, Anna Finocchiaro, una donna che siede in Parlamento dal tempo di Reagan contro Gorbaciov. Anche sette anni prima era circolato il suo nome, ma poi la scelta era caduta su Napolitano, e lei non aveva nascosto la sua amarezza, sibilando: «Un uomo con il mio curriculum l’avrebbero già fatto Presidente della Repubblica da tempo». In questi sette anni lei ha saputo tessere le relazioni giuste. Quando si alza il sipario sul nuovo Parlamento, Pier Ferdinando Casini le fa il baciamano in aula, Renato Schifani ne tesse le lodi, il leghista Roberto Calderoli la candida alla presidenza di Palazzo Madama. E il giorno che quella poltrona viene assegnata a Grasso, lei incassa a denti stretti: «Non sarei sincera se dicessi che quell’incarico non mi sarebbe piaciuto…». Quando si aprono i giochi per il Quirinale, Bersani la rimette in pista: lei è l’unica donna nella “rosa” dei papabili. I giornali la mettono nel toto-presidente, e tra i favoriti. Eppure, prima ancora che le urne di vimini vengano portate a Montecitorio arriva da Firenze la stroncatura di Matteo Renzi: «Finocchiaro la ricordiamo per la splendida spesa all’Ikea con la scorta-carrello umano…». Lei naturalmente non la prende bene, e definisce quello del futuro premier «un attacco davvero miserabile». Poi, furibonda, scaglia la sua profezia contro il sindaco, appena sconfitto da Bersani alle primarie per Palazzo Chigi: «Chi si comporta in questo modo non ha le qualità umane indispensabili per essere un vero dirigente politico e un uomo di Stato». Quando legge queste parole, il senatore pd Corradino Mineo commenta alla radio: «E con questa risposta si è giocata la presidenza della Repubblica ».
Non è stato il primo, Bersani, ad avere l’idea di mandare una signora sul Colle. Nell’estate del 1946 bisogna eleggere il capo provvisorio dello Stato. E il fondatore dell’Uomo Qualunque, Guglielmo Giannini candida proprio una donna: Ottavia Penna, baronessina Buscemi di Caltagirone. «Una donna colta, intelligente, una sposa, una madre»: così la presenta Giannini ai grandi elettori, aggiungendo: «L’abbiamo scelta per opporla alla tirannia dei tre arbitri della cosiddetta democrazia: costituisce per noi la condanna di un mondo politico incancrenito». Così, la mattina del 28 giugno, quando comincia la votazione, la baronessina Buscemi — siciliana, monarchica e anticomunista, una delle 21 donne elette alla Costituente, contro 556 uomini — è al centro dell’attenzione. Il cronista parlamentare del “Giornale di Sicilia” annota: «Guglielmo Giannini, con la sigaretta spenta tra le labbra, rientra nell’aula e salito al banco dove siede la candidata del gruppo s’inchina a baciare la mano della signora, per una singolare affermazione di qualunquismo designata alla presidenza». Al momento dello spoglio, la baronessina Buscemi ottiene però solo 32 voti, contro i 396 di Enrico De Nicola.
La Liberia — persino la Liberia — ha eletto una donna, Ellen Johnson Sirleaf, capo dello Stato. Come il Cile, che ha consegnato alla socialista Michelle Bachelet le chiavi del palazzo presidenziale. O come il Brasile, l’Argentina, la Finlandia, la Nigeria, il Botswana. In Italia questa ipotesi è sempre stata così lontana dagli orizzonti del Transatlantico che nel 1999, quando Giuliano Amato lanciò l’idea, gli risposero che era «una bella provocazione». «Oh, io ho detto una donna, non un coleottero! » protestò lui.
Le candidature, quelle ci sono sempre state, ma nessuno le ha mai preso sul serio. Dopo la mossa di Guglielmo Giannini, passarono 18 anni, prima che il nome di un’altra donna spuntasse dal grande cesto di vimini che raccoglie i voti per il presidente. Era il 1964 (la volta di Saragat) e fu la democristiana Elisabetta Conci, una dei fondatori del Partito popolare, a ricevere un voto. Uno solo, come uno solo ne ebbe l’attrice Emma Gramatica, al diciannovesimo scrutinio. Punto. Si capisce che sembrò un fatto strano, sette anni più tardi, la lettura al primo scrutinio di una scheda per la deputata genovese Ines Boffardi. Pertini, che presiedeva la seduta, udì le battute impertinenti di un paio di parlamentari e interruppe lo scrutinio per ricordare a tutti la parità dei diritti tra uomini e donne. «C’è poco da ridere, onorevoli colleghi. Anche una donna può diventare presidente, sapete?».
Poi ci sono state le candidature di testimonianza (Camilla Cederna nel 1978: 4 voti), quelle di solidarietà (Eleonora Moro, lo stesso anno: 3 voti), quelle di bandiera (Franca Rame nel 2006: 24 voti) e quelle di perfidia (Aureliana Alberici, moglie di Occhetto, nel 1992: 2 voti; Linda Giuva, moglie di D’Alema, nel 2006: 3 voti).
Le donne che sono state davvero in campo, sia pure per lo spazio di un mattino, sono solo quattro. La prima è stata la democristiana Tina Anselmi, l’ex staffetta partigiana che nel 1976 aveva rotto il monopolio maschile dei ministeri. Il prestigio meritato alla guida della commissione d’inchiesta sulla P2 l’aveva portata sul trampolino di lancio per la successione a Pertini, ma De Mita raggiunse l’intesa su Cossiga e dalle urne per la Anselmi uscirono solo tre schede (che sette anni dopo salirono a 19). La seconda è stata la radicale Emma Bonino, che nel 1999 riuscì a mobilitare intorno alla sua candidatura un ampio movimento d’opinione, che tuttavia si infranse contro il portone di Montecitorio: 15 voti. La terza, sempre nel 1999, è stata Rosa Russo Jervolino, prima donna alla guida del Viminale: era nella terna del suo partito (il Ppi) che però svanì con l’entrata in gioco di Ciampi, eletto al primo scrutinio. Eppure, in quell’unica votazione si contarono comunque 16 voti per lei.
Infine la quarta, Nilde Iotti: nessuna è arrivata più in alto di lei. In Parlamento dalla Costituente, è stata la prima donna a essere eletta a una delle massime cariche dello Stato, la presidenza della Camera, conquistandosi con la sua indipendenza dal partito un’autorevolezza e un rispetto che attraversavano trasversalmente tutto l’emiciclo. Nel 1992 raccolse prima 183, poi 245 e infine 256 voti, preferenze che lei ascoltava dal suo banco con l’elegante distacco di chi non si fa illusioni. Sapeva che non sarebbe toccato a lei (e infatti venne eletto ancora una volta un uomo: Scalfaro).
La prossima volta forse toccherà a una donna, azzardarono allora i giornali. Si sbagliavano. Gli italiani, che hanno aspettato 115 anni e 836 ministri maschi prima di vedere al governo una donna, sanno che la loro classe politica non ha ancora smentito, nei fatti, quello che Samuel Johnson scriveva due secoli fa: «La natura ha dato alla donna un tale potere che la legge ha giustamente deciso di dargliene poco».

“Un futuro per vecchi”, di Federico Fubini – La Repubblica 6.1.15

Dopo le due guerre e il trauma della disfatta militare del 1940, la Francia della quinta Repubblica prese una decisione per sempre: finanziare con generosità le famiglie per ogni nuovo nato, in modo da non avere mai più una popolazione e dunque un esercito meno numerosi della Germania. La scommessa è riuscita, osserva Thomas Piketty nel suo libro «Il capitale nel XXI secolo». Secondo lo scenario di base delle Nazioni Unite, alle tendenze attuali la popolazione francese dovrebbe superare quella tedesca prima del 2050. La prima a 77 milioni di abitanti, in crescita di circa dieci, la seconda a 71 milioni e in decrescita di altri dieci.
Jens Weidmann, il quarantaseienne presidente della Bundesbank, a quel punto sarà un venerabile pensionato: uno dei 67 che la Repubblica federale dovrà mantenere per ogni cento persone in età da lavoro (l’Italia avrà uno squilibrio simile). Per adesso però Weidmann è ancora uno dei più giovani banchieri centrali d’Europa e nella sua recente intervista a Repubblica ha parlato anche di questo, benché pochi in Italia sembrino essersene accorti: la Germania, ha osservato, deve ridurre il suo debito perché sta invecchiando e presto avrà bisogno di risorse per mantenere e curare i suoi anziani.
Si può non essere d’accordo con il leader della Bundesbank, non però negare che i tedeschi stiano pensando in termini strategici. Lo fanno al pari della Francia gollista del secondo dopoguerra. Con i suoi effetti di onda lunga, che viene da lontano e approda lontano, la demografia è quanto di più vicino esista a un destino ineluttabile. Per questo in alcuni dei Paesi intellettualmente più avanzati ci si inizia a preparare ad alcune prospettive che somigliano da vicino a delle certezze. Eccone alcune: secondo le proiezioni dell’Onu, per effetto della caduta delle nascite e dell’invecchiamento, nel 2050 la Germania avrà perso 13 milioni di lavoratori autoctoni; l’Italia ne avrà persi dieci; e se il tasso di fertilità e la chiusura ai migranti continua così come oggi, secondo stime dello stesso governo di Tokyo, la popolazione giapponese crollerà dai 120 milioni attuali a 40 milioni fra un secolo. Nel 2014 e il Giappone ha perso 268 mila abitanti grazie al saldo negativo fra nuove nascite e decessi peggiore di sempre.
Queste sono realtà che incidono nel lungo periodo ma impongono ai Paesi ricchi di correre ai ripari subito. C’è chi lo sta facendo. Proprio la Germania, uno dei Paesi più colpiti dall’invecchiamento, è prima al mondo nel puntare sempre di più sull’istruzione dai primi anni di età: poiché le persone in età da lavoro saranno sempre di meno, l’obiettivo adesso è rendere da subito gli adulti del 2050 più capaci di produrre e portare crescita economica. Per questo Basf, leader mondiale della chimica, si è messa al centro di un club di 123 imprese tedesche, dalle medio-piccole a colossi come Daimler, Continental o Boehringer Ingelheim Pharma, in un progetto che hanno chiamato Wissensfabrik : la fabbrica della conoscenza. Non sono solo annunci di buone intenzioni, una fabbrica da convegni. Il gruppo di aziende si è anche collegato a decine di università e centri di formazione, ma soprattutto ha stretto rapporti con qualcosa come 162 scuole materne in Germania, quasi mille scuole elementari, centinaia di medie e di istituti superiori di ogni tipo. Insieme, stabiliscono programmi per bambini fin dalla prima infanzia – uso delle lingue, numeri, strumenti digitali – destinati a rendere gli allievi adulti più capaci in futuro. Una Germania con sempre meno lavoratori pensa già a mettere quelli dei prossimi decenni in condizione di diventare più produttivi.
Alla base di Wissensfabrik c’è la scoperta che è valsa il Nobel per l’Economia a James Heckman, dell’Università di Chicago. Heckman ha seguito un gran numero di persone fin dalla prima infanzia e per decenni. All’inizio ha misurato che nella primissima età scolare i bambini con genitori disoccupati ascoltavano 3 milioni di parole l’anno, quelli con genitori occupati in mestieri umili 6 milioni di parole e i figli di professionisti laureati 11 milioni. Lo scarto fra loro era già enorme all’età di ingresso nella scuola materna: i figli di disoccupati disponevano di un vocabolario di non oltre 500 parole, quelli di genitori con mestieri poco qualificati di 700 parole, mentre i figli dei laureati arrivavano a 1.100. Soprattutto, seguendo il suo gruppo-campione, Heckman ha notato che questo scarto apertosi fra bambini del primo anno dell’asilo sembrava non chiudersi più. Al contrario, negli anni e nei decenni tendeva a crescere. Il livello cognitivo all’età di tre anni, collegato alla cultura della famiglia di origine, permetteva dunque di prevedere il successo nella vita per qualifiche, produttività, reddito, stabilità familiare, salute o la capacità di evitare il vizio del fumo o di obesità.
Per questo Heckman pensa che la «predistribuzione» sia più efficace della redistribuzione: programmi educativi rivolti alla prima infanzia, quando la capacità di assorbimento degli allievi e la loro permeabilità all’istruzione è massima, in modo offrire a tutti opportunità simili. Insegnare alle persone a usare il cervello quando il cervello è più ricettivo all’insegnamento. L’intervento del welfare classico è sì necessario, ritiene Heckman, ma costa di più ed è meno efficace.
L’alleanza fra imprese e scuole in Germania è la prima applicazione della teoria di Heckman a un grande Paese sul quale grava la nube dell’invecchiamento. L’intenzione è preparare una generazione di tedeschi a far funzionare quella che viene chiamata Industrie 4.0 : gli impianti che fra dieci o vent’anni saranno robottizzati e funzioneranno grazie all’integrazione di sistemi meccanici e digi- tali. Anche a migliaia di chilometri distanza, le macchine di un gruppo globale si invieranno segnalazioni automatiche sullo stadio di produzione, le catene di fornitura, il livello degli stock o il rischio di guasti nel sistema.
Il piano scuola che il governo di Matteo Renzi sta elaborando per ora non tiene conto di tutto questo. Eppure l’Italia è uno dei Paesi che invecchia più in fretta: nel 2014 sono nati oltre 70 mila bebé meno che nel 2008. Certo esiste un’altra strada per compensare il crollo delle nascite, l’immigrazione. Ma poiché la crescita è tanto frutto del numero di lavoratori attivi che della loro produttività, è determinante per l’economia che gli stranieri in arrivo siano persone qualificate. Una banca dati presente da qualche giorno sul sito di Eurostat, l’agenzia statistica europea, fa capire che questa selezione avviene. Ma non per tutti i Paesi nella stessa misura. In Germania ha una laurea (o titolo equivalente) il26% degli stranieri residenti, in Francia il 22%, in Italia solo il 14%. Questi numeri non sembrano casuali: corrispondono quasi esattamente alla quota dei laureati rispettivamente tedeschi, francesi e italiani sul totale della popolazione nazionale dei tre Paesi. In sostanza tanto più è alto il livello di istruzione di una società, quanto più quella società riesce ad attrarre persone qualificate anche da fuori. Dove l’istruzione è meno diffusa, anche i migranti che arrivano e si trattengono sono meno preparati, meno produttivi e dunque meno utili all’economia. La Gran Bretagna in questo ha una strategia che sembra vincente, perché attrae stranieri più istruiti della media degli stessi britannici. I «nativi » con una laurea sono il 24%, gli stranieri residenti con un titolo di studio superiore invece sono il 42% del totale degli immigrati.
Mentre i Paesi avanzati invecchiano, queste realtà conteranno ogni anno di più e produrranno anche nuove opportunità: in Giappone la carenza di uomini sta già aprendo alle donne professioni tradizionalmente riservate agli uomini come le costruzioni o la guida dei camion. L’invecchiamento porterà opportunità anche nell’innovazione industriale: quando gli ultra-settantenni saranno oltre un quarto della popolazione in Europa o in Giappone, nota l’economista dell’Università di Tokyo Hiroshi Yoshikawa, richiederanno ogni sorta di sistemi e robot disegnati per le loro esigenze: auto, appartamenti, apparecchi medici e di cura personale, modalità di viaggio adatte a loro. Il Boston Group, un consulente industriale, prevede che il giro d’affari della vecchiaia varrà da 8 mila miliardi di dollari di qui a metà secolo. Forse Weidmann dunque ha torto a pensare che l’invecchiamento imponga soprattutto di risparmiare: ma lui, almeno, ha iniziato a porsi il problema.

“Un super club per la lettura” L’ultima sfida di mr Facebook”, di Elena Stancanelli – La Repubblica 5.1.15

Mark Zuckerberg, sempre lui. L’inventore del social network più importante del pianeta (1,3 miliardi di iscritti, circa 12 miliardi di messaggi al giorno, 40 minuti al giorno di stazionamento medio sulle pagine da parte degli utenti, 1,3 miliardi di dollari come utile trimestrale nel 2014…). Se fosse una nazione, sarebbe la seconda nazione al mondo dopo la Cina, e Zuckerberg se la potrebbe comprare. Quando parla, lo si sente. Quando decide qualcosa, lo fa con attenzione. O almeno, questo è quello che tutti speriamo. Se infatti domani lanciasse l’idea che per accedere a Facebook dovremmo tutti farci tatuare una F sulla fronte, chi esiterebbe?
Ieri, per fortuna, non ha parlato di tatuaggi, ma di quacosa di altrettanto bizzarro, oltre che antico: i libri. Dal luogo della contemporaneità per eccellenza, dall’intelligenza più smart e 2.0, arriva la proposta di creare un gigantesco club del libro. Attraverso l’esercizio di una buona pratica, che Mark Zuckerberg si è dato tra gli obiettivi da perseguire nel nuovo anno: leggere almeno due libri al mese. Una proposta che fatta da un intellettuale della vecchia Europa, un premio Nobel dai capelli bianchi, un insegnante di liceo, sarebbe stata spernacchiata. Considerata retorica o addirittura controproducente. Chiedere alle persone di leggere? Ma non capite che è il modo migliore per fargli passare la voglia? Bisogna far finta di niente e aspettare piuttosto che qualcuno, su un libro, ci inciampi. E lo tiri su, e cominci a leggerlo con distrazione e poi zitti, non fare commenti. Forse così, forse se non ci pensa, magari si appassiona.
Invece Mark Zuckerberg, abituato a parlare con gente cresciuta affacciandosi a uno schermo prima che a qualsiasi finestra — e che probabilmente considera la letteratura popolare quanto l’attinologia (lo studio degli effetti medico-biologici delle radiazioni luminose, ndr) — non si è preoccupato di essere retorico o controproducente. Ha chiesto ai suoi utenti di aiutarlo, di fare proposte, di segnalare libri interessanti. La prima l’ha fatta lui, proponendo un saggio, pubblicato anche in Italia da Mondadori, La fine del potere, sottotitolo Dai consigli di amministrazione ai campi di battaglia, dalle chiese agli stati, perché il potere non è più quello di un tempo , scritto da un autore venezuelano, Moises Naim. Ha immaginato che da queste letture potranno nascere discussioni, e riflessioni. Non si è preoccupato del fatto che gli uffici stampa delle case editrici, e gli editori stessi, saranno da domani pronti a fare sacrifici umani, pur di garantirsi uno di quei due posti mensili. Né di agganciare tutta questa faccenda ad Amazon, o magari a qualche avversario pronto a scalzare il monopolio della vendita dei libri sulla rete, avversario che magari potrà essere, dopodomani, lui stesso. Ha solo detto leggiamo due libri al mese e vediamo l’effetto che fa.
Ricordo per i fortunati che lo avessero dimenticato che, secondo le statistiche attuali, un italiano su due non legge neanche un libro all’anno. Il 18 per cento di noi ne legge da 4 a 11, e il 6 per cento viene considerato un “lettore forte” perché legge almeno un libro al mese. Uno, non due. In una celebre intervista di qualche anno fa, Philip Roth disse che il numero di lettori di romanzi nel giro di pochissimo tempo sarebbe diminuito così tanto da essere paragonato all’attuale numero dei lettori di poesia. Pochissimi eccentrici, feticisti dai gusti incomprensibili ai più. I libri, si sgolano gli editori, non si vendono. Le storie, è ormai argomento inoppugnabile, non abitano più tra le pagine, ma nelle serie tv, nelle sceneggiature dei videogiochi. Basta vedere dove va il denaro, segui il successo e scoprirai chi sono oggi i veri raccontatori. Lo predichiamo tutti, e ci strappiamo i capelli.
Ma. Se qualcuno una decina di anni fa ci avesse detto che milioni di persone avrebbero passato le loro serate davanti alla televisione a vedere gare di scaloppine e profiteroles lo avremmo trattato come uno scimunito. Eppure è successo, perchè siamo diventati tutti cuochi. Il nostro Zeitgeist si è incarnato molto più nella bistecca alla Bismarck che nel Kulturkampf di Bismarck. Succede, ogni epoca ha i suoi miti e le sue predilezioni. E la televisione li moltiplica fino all’isteria. Ma se la stessa persona ci avessero profetizzato che i maggiori successi in rete sarebbero stati video nei quali ti spiegano come passarti lo smalto sulle unghie o imbranati che ballano in maniera improbabile o gattini, ci saremmo addirittura offesi, convinti di essere migliori. Cuochi sì, ma così stupidi no. In che modo questa mediocrità ci può rappresentare, che cosa dirà di noi la storia? Il punto è che la rete, e questo Mark Zuckerberg lo sa molto bene, non è la televisione. Non è il messaggio e non è neanche l’altoparlante al quale siamo abituati, con cui siamo cresciuti. Lo dimostra il fatto che quando in televisione si cerca di parlare di libri, quando si prova a usare format pensati per altre attività applicandoli agli scrittori, non si ottengono grandi risultati. La rete invece è come un’enorme incubatrice di quello che siamo e non osiamo dire ad alta voce. Una specie di inconscio collettivo, di mostruoso “es” che fatica a essere domato, indirizzato. Tutto il contrario del luogo di libertà espressiva che certi predicatori populisti vorrebbero farci credere. In questo inferno ribollente la letteratura potrà forse trovare un ruolo, è questo che ha immaginato il fondatore di Facebook? C’è una cosa che funziona sempre moltissimo su internet: le classifiche. Qual è il miglior film, il miglior bacio al cinema, il cane che si comporta in maniera più scema, e perfino — come accaduto nell’immenso passaparola social planetario di qualche mese fa, un grandissimo successo — quali sono i cento libri che ci hanno cambiato la vita. Ogni volta che un sondaggio del genere viene lanciato, il misterioso popolo della rete partecipa con entusiasmo. Per due ragioni, perché è un gioco nel quale l’utente ha un ruolo attivo (e la rete è senza dubbio il mezzo fondato sull’idea della partecipazione e non della fruizione passiva) e poi perché condividere quello che amiamo è un modo sentimentale, emotivo di decifrare il mondo. Che somiglia molto a quello che fanno gli scrittori quando scrivono un romanzo, e forse anche quando si occupano di saggistica, come lo scrittore venezuelanoproposto da Zuckerberg.
Un libro è infatti un’architettura di parole, congegnata attraverso la tecnica, che emerge dalla solitudine di un essere umano. Che, una volta compiuta, viene messa a disposizione dei lettori. Se Zuckerberg del suo club di lettura saprà fare un’impresa commerciale, non sarà quindi soltanto in virtù del suo innegabile talento, ma del fatto che, forse per la prima volta nella storia, esiste uno spazio dove i libri se la giocano alla pari coi cuochi e persino i calciatori. Anzi, forse sono addirittura avvantaggiati.