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“Ue, Renzi a Strasburgo: “Applauso per Napolitano. Italiani sanno: la sfida è a casa nostra”, di

Accompagnato e preceduto dal presidente dell’Europarlamento Martin Schulz, il premier Matteo Renzi ha tenuto all’assemblea di Strasburgo in riunione plenaria il discorso che segna la fine del semestre di presidenza italiana dell’Unione europea. Un intervento nel corso del quale Renzi ha chiesto il saluto del Parlamento a un europeista convinto come Giorgio Napolitano, prossimo a lasciare la presidenza della Repubblica Italiana. Renzi ha inoltre ricordato la sfida da vincere contro la demagogia della paura. Quanto ai risultati del semestre Ue a presidenza italiana, il premier si è rammaricato per la sconfitta del “made in” e ha sottolineato la necessità di un cambiamento per la crescita che con la Commissione Juncker c’è stato, anche se nei fatti “ancora non si vede”. Ma ha anche ribadito che l’Italia sa che i suoi problemi “deve affrontarli a casa sua”.

Il presidente Schulz, prima di introdurre l’intervento di Matteo Renzi, ha espresso un monito all’Europarlamento, pensando a quanto accaduto a Parigi. “Avveniva 70 anni fa. I russi liberavano il campo di Auschwitz, oltre un milione di morti, ebrei di Polonia, Ungheria, Paesi Bassi, Grecia, sinti e rom, malati, omosessuali, handicappati, prigionieri politici. E innumerevoli bambini. I nazisti avevano deciso che andavano sterminati. Il luogo più importante nella storia del genocidio. Deve continuare a essere un grido di disperazione e un monito per tutti, perché non si ripeta. La responsabilità che deriva da questi atti scellerati è comune del popolo a cui appartengo, il popolo tedesco. La responsabilità che non si ripeta. Il modo di affrontare la storia è decisivo per il futuro. Sapere cosa è successo, per difendere la libertà e la dignità umana. Opporci ogni giorno al ritorno di odio, xenofobia, intolleranza. Eppure oggi ci sono ebrei che devono temere per la loro vita. Dobbiamo essere compatti contro la paura. Non farci contagiare dall’odio degli attentatori di Parigi. Difendere la dignità di tutti e la vita di ogni essere umano. In questo Parlamento, con grande serietà e impegno”.

E’ stata quindi la volta di Matteo Renzi. “Non si guida un semestre pensando all’interesse del tuo Paese, ma pensando al futuro dell’Europa. In questi sei mesi abbiamo fatto molto, ciò che serve all’Italia lo fanno gli italiani. E gli europei devono sapere che noi abbiamo dato più risosrse di quante ne abbiamo preso. L’Italia ha contribuito a salvare Stati e istituti di credito di altri Paesi, senza prendere un centesimo per i propri istituti, che hanno dovuto mettere nuovi capitali dopo gli stress test, ma perché crediamo nell’Europa. L’Italia se vuole stare nella competizione globale deve cambiare, in questi sei mesi abbiamo fatto molto. Noi italiani sappiamo che nostra sfida non è qui ma a casa nostra. Noi abbiamo dell’Europa l’idea di un luogo di speranza per le prossime generazioni. Abbiamo fatto le nostre riforme avendo esempi nella nostra storia di grandi europeisti. Vorrei ricordarne uno: Giorgio Napolitano, che in queste ore lascerà l’incarico”. E scatta l’applauso dell’Europarlamento.

“In questi sei mesi ci pare di aver visto un cambiamento profondo nella direzione. Ma ancora non nei fatti”.  Lo dice il presidente del consiglio ricordando l’importanza di una politica economica europea improntata alla crescita, nel discorso di chiusura del semestre europeo. E’ “incomprensibile”, secondo Renzi, che ci sia “resistenza, da parte di alcuni Paesi”, contro la messa a punto di norme europee di tutela del “made in”. Di qui il rammarico per il mancato raggiungimento di un accordo su questo punto strategico per l’Italia durante il semestre di presidenza Ue. “Siamo pronti a essere generosi con il fondo per gli investimenti strategici della Commissione europea. Il mondo reclama più Europa, non meno Europa – ribadisce il premier -. Ma dobbiamo dire la verità: questo tipo di Europa ha dato l’impressione di essere troppo spesso un modello basato sull’economia, sui parametri, sui vincoli. Al termine dei sei mesi possiamo dire che questo atteggiamento è stato un errore. Crescita e innovazione, al G20, sono risuonate ovunque. Noi dobbiamo essere alla guida di questo cambiamento”.

“Il cambiamento che la Commissione Juncker sta portando avanti andava immaginato negli ultimi sei anni, non negli ultimi sei mesi – sottolinea Renzi -. Dobbiamo essere guida di questo cambiamento. Lo saremo se faremo dell’Europa una superpotenza, non economica, ma contro la demagogia della paura” che “vorrebbe rinchiuderci in una fortezza”. La demagogia dei “nostri nemici” che “non potendo ucciderci puntano a cambiare il nostro modo di vivere: non possiamo consentirlo a nessuno. Il luogo dell’Europa non è la fortezza ma la piazza, non il conflitto e lo scontro ma il dialogo e l’incontro”.

In chiusura, Renzi riprende un concetto già espresso: “Il contrario di identità non è integrazione ma anonimato. E il contrario di integrazione è disintegrazione e distruzione”. E promette che “da uomo di governo e da uomo di sinistra dico che non lasceremo mai la parola identità a chi grida più forte. Io appartengo alla mia terra. Sono orgoglioso di essere europeo, italiano, fiorentino”. E cita le parole che Dante attribuisce a Ulisse nella Divina Commedia: “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”. Sulle ultime battute del discorso di Renzi, si sono levate sporadiche urla di disapprovazione. Era il leader della Lega Matteo Salvini, con frasi del tipo: “E’ il deserto, non ti ascoltano neppure i tuoi”. Renzi, citando l’Ulisse di Dante, replica: “Leggere più di due libri è difficile per alcuni di voi, lo capisco”.

“Questo semestre di presidenza italiana è stato il nulla: lo dimostra quest’aula deserta”. Così il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, ha commentato il discorso del premier intervenendo a Strasburgo. “Oggi la degna fine di sei mesi chiacchiere. Auguri alla Lettonia che farà certamente meglio di questo semestre drammatico”. “In questo semestre il debito è aumentato di 74 miliardi, la disoccupazione è quasi al 13,5%, in questo semestre i nostri titoli sono stati declassati a leggermente migliore di spazzatura, e questo è l’unico miglioramento. Ci manca che si abbassa l’aspettativa di vita e questo semestre è stato fantastico”. Così Beppe Grillo, dalle tribune dei visitatori del Parlamento europeo a Strasburgo.

Il Presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker ha riconosciuto alla presidenza italiana il merito di avere spinto per il cambiamento di passo dell’Unione europea. “La presidenza italiana ha fatto molto, a partire dall’accordo per il bilancio europeo 2014-2015: senza la volontà della presidenza non ci sarebbe stato un accordo, saremmo nel pieno di una crisi di bilancio di cui avremmo sofferto tutti”.

“Voglio fare un complimento al Governo italiano: ha lasciato l’immagine di governo molto competente. E’ stato un grande successo”. Così il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz nel corso di una conferenza stampa a Strasburgo insieme al presidente del Consiglio Matteo Renzi sul semestre di presidenza italiana dell’Ue.

In sede di replica, matteo Renzi ha avvertito proprio Salvini: “Quando ci sarà la campagna elettorale fra tre anni, sarà facile per gli elettori della Lega chiedere a Renzi cosa ha fatto in Europa. Ma sarà facile anche chiedere a Salvini cosa ha fatto per l’italia”. Renzi ha fatto poi riferimento alla richiesta, avanzata da Marine Le Pen e dallo stesso Salvini di sospendere il trattato di Schengen sulla libera circolazione in Ue. “Sarebbe la fine dell’Ue, l’Italia dovrebbe essere totalmente contraria. Anche l’ex ministro dell’interno, il leghista Roberto Maroni, ha ricordato Renzi, ha sostenuto la pericolosità per l’Europa e per il nostro Paese di una iniziativa del genere. Quanto a Grillo, “quando i parlamentari 5 Stelle sostengono che le famiglie italiane si stanno impoverendo”, ha ribattuto il premier, dicono una cosa “che cozza con la realtà dei fatti e dei numeri. I risparmi sono cresciuti. E’ molto difficile convincervi della realtà, ma a un certo punto la realtà si impone”.

Poi, in conferenza stampa, Renzi ha respinto l’idea di un rimpasto nella squadra di governo perché “attribuire ai ministri economici” la responsabilità di alcuni dati “è poco più di una barzelletta. La squadra è questa”. Il premier ha ulteriormente rivendicato il valore dell’iniziativa italiana per il passaggio in sede Ue da un approccio di austerità alla flessibilità. “Se quello che si e fatto in sei mesi per flessibilità e investimenti si fosse fatto nei sei anni precedenti l’Europa non sarebbe vicina alla deflazione”. In Italia “siamo convinti che quest’anno tornerà il segno più” sul Pil, ha aggiunto Renzi, “si è ridotta la distanza tra l’andamento della crescita in Italia e negli altri paesi Ue, anche se non ancora in modo soddisfacente”. Per Renzi,  costo del denaro, euro e prezzi petrolio bassi aiuteranno la crescita. Ma la grande sfida è “tornare a un clima di fiducia. Se saremo capaci di vincerla, l’Italia con la sua industria manifatturiera, il suo surplus primario che non ha nessuno, ha un grandissimo futuro davanti. Potrà avvenire, a patto che gli italiani tornino a crederci”.

“Obama: università gratis per tutti. Ma i repubblicani sono contrari”, di Massimo Gaggi – Corriere della Sera.it 12.01.15

Tre anni di università gratis per tutti i ragazzi americani che finiscono il liceo con risultati anche modesti ma sufficienti. Quella appena formulata da Barack Obama sembra una proposta ragionevole, almeno dal punto di un’Europa nella quale lo Stato pesa molto di più, rispetto agli Usa, nella formazione accademica. E, per gli Stati Uniti, appare anche una proposta di forte impatto sociale. In realtà il presidente punta soprattutto a eliminare gli squilibri fra Stati, molti dei quali, nei fatti, già garantiscono istruzione gratis agli studenti dei loro«college», e ad approfittare di questa riforma per responsabilizzare maggiormente gli istituti e imporre standard d’insegnamento più elevati.

La battaglia politica

Ma la riforma difficilmente decollerà, visto che deve essere varata da un Congresso ora completamente controllato dai repubblicani. Che hanno già detto di non essere interessati ad approvare la manovra di Obama che costerebbe 60 miliardi di dollari in dieci anni. Allo stato attuale quella di Obama sembra soprattutto una battaglia di bandiera: i democratici che si presentano alle elezioni presidenziali del 2016 col vessillo dell’investimento nell’istruzione, la formazione di capitale umano come leva dello sviluppo sociale oltre che economico. Sorprese non sono, però, da escludere: i repubblicani potrebbero anche convincersi che non è il caso di lasciare questo vessillo nelle mani degli avversari, tanto più che i costi della riforma, tutto considerato, sono modesti. E i momenti di confronto non mancheranno visto che, comunque, nei prossimi due anni il Congresso dovrà affrontare la revisione del sistema di finanziamento della scuola pubblica.

Un tessuto a macchia di leopardo

Del resto, come detto, più che una rivoluzione quello di Obama sembra il rammendo di un tessuto a macchie di leopardo: i college pubblici sono a pagamento, ma in molti Stati la retta è inferiore al sussidio federale, il Pell Grant, garantito a gran parte degli studenti. Ai figli delle famiglie con reddito basso e anche medio il governo federale garantisce un assegno annuo di 5730 dollari. Abbastanza per pagare le spese universitarie in Stati come Michigan e Florida nei quali la retta è molto bassa, attorno ai 3000 dollari, mentre in New Hampshire o in Vermont il costo dell’università è superiore al sussidio federale. Il presidente ha cercato di aggirare l’ostilità della destra al suo provvedimento modellando la sua proposta sulla riforma introdotta nel Tennessee dal governatore repubblicano Bill Haslam e andando a presentarla proprio in questo Stato. Per adesso non l’ha spuntata. E’ stato abbandonato anche dai parlamentari repubblicani da lui coinvolti perché in passato avevano sostenuto riforme di questo tipo: è vero, gli hanno risposto, ma preferiamo che ad attuarle siano i singoli Stati senza imposizioni da Washington.

Merito e giustizia sociale

Nel merito, poi, stavolta Obama non è stato criticato dalla destra per essersi comportato da «socialista» ma, al contrario, è stato paradossalmente accusato di non essersi preoccupato abbastanza di ridurre gli squilibri sociali. «Noi premiamo il merito, chi si impegna», ha spiegato Obama: per essere ammessi al college gratis, comunque, gli studenti non dovranno dimostrare di essere dei geni. Basterà l’aurea mediocrità di un punteggio di 2,5 su 5 nella media dei voti GPA (Grade Point Average): un voto che corrisponde a un 6+ italiano. Ma così, sono subito insorti alcuni parlamentari repubblicani, le differenze sociali aumentano anziché diminuire: si finanziano i ragazzi del ceto medio che al college andrebbero comunque, mentre le famiglie più povere, che in genere sono anche quelle coi ragazzi più problematici, restano ai margini. Il partito della meritocrazia che accusa il presidente di essere troppo meritocratico?

“La cultura si mangia e fa tanto bene. Ai conti”, di Paolo Conti – Corriere La Lettura 11.01.15

Raramente uno slogan coniato dalla politica si è rivelato più falso, fuorviante e avulso dalla concreta realtà economica del nostro Paese. L’idea che «con la cultura non si mangia» non solo è lontana dalla verità ma nega il nucleo più vitale e maggiormente rivolto al futuro della nostra imprenditoria. La recente ricerca Io sono cultura. L’Italia della qualità e della bellezza , realizzata da Symbola, la Fondazione per le qualità italiane, con Unioncamere in collaborazione con la Regione Marche dimostra il contrario.
Prendiamo le quote di turismo. Nel Nord-Est l’8,6% del flusso turistico ha una motivazione culturale, nel Nord-Ovest è dell’11,6%, al Centro siamo a quota 21,6% e al Sud al 14,8%. È chiaro che nel peso del Centro c’è Roma, con tutto ciò che rappresenta (prima tra tutte la presenza della Santa Sede, con Papa Bergoglio formidabile catalizzatore mediatico). Ma sono cifre importantissime. Prendiamo il caso dei turisti giapponesi: il 68,8% dei loro arrivi ha una motivazione culturale (proprio dal Paese che, nel dopoguerra, puntò tutto sulla tecnologia).
Altre cifre. Il sistema produttivo culturale vale 80 miliardi di euro (tra non profit e pubblica amministrazione), denaro che riesce ad attivare — si legge nella ricerca — 134 miliardi di euro arrivando così a costituire una filiera culturale, in senso lato, di 214 miliardi di euro. E così il sistema produttivo culturale passa dal 5,7%, come incidenza, al 5,3% , considerando l’intera filiera del resto dell’economia attivata. Insomma, con la cultura si mangia: e come. Ne sanno qualcosa i 289 mila occupati in Lombardia nel settore, i 160 mila del Lazio e del Veneto (cifre identiche), i 107 mila in Toscana, i 60 mila della Sicilia, così come lo sanno rispettivamente le 84.495 imprese culturali della Lombardia, le 53.482 del Lazio e le 38.136 del Veneto, le 34.729 della Toscana e le 26.828 della Sicilia. Interessante sottolineare come il settore dell’architettura piloti con il 34,1% l’intero settore delle imprese culturali nel comparto creativo, mentre l’audiovisivo si ferma ad appena il 2,7% e i videogiochi-software sono a quota 10,2%, superati (incredibilmente ancora) dal comparto libri e stampa, all’11,2%.
Nella ricerca si legge anche che, nonostante il clima recessivo, l’export legato alla cultura durante la crisi è cresciuto del 35%: era di 30,7 miliardi nel 2009, nel 2013 è arrivato a 41,6 miliardi, totalizzando il 10,7% di tutte le vendite oltre confine delle nostre imprese. Prima di inventare un altro slogan-scorciatoia sulla cultura, studiare le carte e le cifre.

 

Di seguito il link per scaricare il rapporto

http://www.symbola.net/assets/files/Io%20sono%20Cultura%202014%20Completa_1404117089.pdf

 

“Stage all’estero con Erasmus+, al via il bando per gli universitari dell’Emilia Romagna”, di Alessia Tripodi – Scuola24 12.01.15

 

Per gli universitari dell’Emilia Romagna in arrivo un ricco pacchetto di contributi per stage e e tirocini all’estero. E’ stato lanciato infatti il nuovo bando Erasmus+ Traineeship per il 2014-2015 promosso dal consorzio Con.C.E.R.T.O (CONsortium for Certified Emilia Romagna Traineeship Opportunities), il progetto nato dalla collaborazione tra gli atenei e gli istituti Afam emiliano-romagnoli insieme con l’università Iulm di Milano e finanziato nell’ambito del Programma Erasmus+ «Consortia».
La nuova tornata di selezione mette a disposizione contributi per 279 mensilità, che potranno essere utilizzati da studenti e laureati per frequentare un periodo di stage presso un’impresa, un ente, un libero professionista o un centro di ricerca o di formazione presenti in uno dei Paesi europei che partecipano a Erasmus+.
Le opportunità 
Il periodo di stage o tirocinio potrà avere una durata compresa tra i un minimo di 2 e un massimo di 12 mesi, durante i quali i giovani dovranno svolgere le attività approvate dal tutor didattico del corso di studi, così da permettere il riconoscimento dei relativi crediti formativi al termine dell’esperienza.
A seconda delle destinazione, i partecipanti riceveranno un contributo mensile variabile tra i 430 e i 480 euro.
Obiettivo dell’iniziativa è permettere ai giovani di acquisire competenze specifiche e una migliore comprensione della cultura socioeconomica del Paese ospitante.
Possono partecipare al bando gli studenti o i neolaureati degli atenei e istituti aderenti al consorzio Con.C.E.R.T.O: università di Ferrara, Parma, Modena e Reggio Emilia, Iulm di Milano, conservatori di Ferrara, Piacenza, Parma e Cesena e accademia di Belle Arti di Bologna.
Le candidature vanno inviate esclusivamente on line attraverso il modulo disponibile all’indirizzo http://www.unife.it/progetto/concerto/bando-e-candidatura/modulo-di-candidatura
Il termine per la presentazione scade alle ore 12.00 del 23 gennaio prossimo.

“La parola è potente e il segno lascia il segno”, di Michele Serra – La Repubblica 11.01.15

Quasi mi vergogno, adesso, del paio di querele per “vilipendio della religione” che meritai in quanto fondatore e direttore di Cuore, più di vent’anni fa. Scaramucce che mi parvero, ai tempi, grande battaglie. E non lo erano perché la civilizzazione ci ha portato, tra i suoi tanti vantaggi, quello della mediazione giuridica dell’offesa. Il massimo disturbo era cercarsi un buon avvocato. Il massimo rischio, perdere del tempo. Quanto alla “religione” vilipesa devo aggiungere subito, perché non è un dettaglio, che la maggior parte delle (poche) seccature giudiziarie che ci toccarono, a Cuore, scaturirono non dalla suscettibilità dei bigotti, ma da quella delle aziende. La sacralità del Prodotto e del Marchio, già vent’anni fa, era decisamente superiore non solamente a quella degli déi; anche a quella degli esseri umani. Con Grillo — quando lavoravo con lui — avevamo stabilito, in sintesi, che offendere Andreotti era molto meno rischioso che offendere Coccolino.
Uso il verbo “offendere” perché non è intelligente né leale defalcare la satira a semplice attività spiritosa, innocuo divertimento. Non erano simpatici pagliacci, i caduti di Charlie Hebdo. Erano artisti e intellettuali che sapevano di usare un linguaggio di confine, non facile da pronunciare e neppure da capire: il malinteso, ogni satirico lo sa, è pane quotidiano. Sapevano che la parola è potente e che il segno lascia il segno. E sapevano di rischiare la vita, perché la comunità degli offesi, nel loro caso, non riconosce la mediazione giudiziaria (che è dialettica per definizione). Conosce solo, per “lavare l’onta”, il sangue dell’altro. Ed è esattamente questo, per la nostra etica di civilizzati, l’aspetto mostruoso, rivoltante dell’accaduto: imbatterci nella risoluzione pre-civile, primitiva, di un contenzioso culturale.
Allora come oggi non ho mai condiviso, e neppure mai capito fino in fondo, che cosa intende dire chi dice che “la libertà d’espressione non può avere limiti”. Mi sembra una concezione davvero riduttiva della libertà, quasi una sua “neutralizzazione”. Un renderla — appunto — inoffensiva, comoda e facile per tutti, comprensibile a tutti. Invece la libertà (da sempre!) è uno scandalo. Disturba e offende. Urta certezze e conformismi, irrita i repressi, scompiglia convenzioni sociali sedimentate. Il suo “limite” è il cozzo, costante, con sensibilità e usanze altrui. Si pensi, per fare solo un esempio, alla ricaduta sociale della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e Settanta: non è forse per rimediare a quella “offesa” — l’offesa della libertà — che parecchi maschi patologici picchiano e uccidono le loro compagne quando queste scelgono di liberarsi di loro? Non sono forse, costoro, i lanciatori di acido, gli accoltellatori, artefici di un terrorismo diffuso contro l’autodeterminazione delle donne?
E per non parlare sempre degli altri: anche io che sono ateo, e non ho tabernacoli da difendere, mi offendo sovente, per esempio per l’arroganza con la quale i bigotti giudicano strano e divagante il mio punto di vista, come se non fosse strano e divagante, piuttosto, venerare il calcagno di San Vattelappesca. Ma considero l’offesa — come dire — parte del mestiere di vivere e soprattutto del vivere in società. È un urto gestibile, mediabile, a volte addirittura utile perché innesca (capita, mi è capitato) un processo di comprensione reciproca. E qualora non trovassi requie alla mia offesa, potrei sempre rivolgermi a un giudice. Perfino il duello — aggiungo — rientrava nella mediazione giuridica, sia pure in forma cruenta. Era ad armi pari e intriso, per i duellanti e i loro padrini, di un sentimento di lealtà tra chi si odia. Ripeto: lealtà tra chi si odia. Il contrario della vile esecuzione di inermi praticata, ormai su vasta scala, dagli assassini jihadisti.
Non è dunque l’offendersi di fanatici musulmani, siano essi pochi o tanti, il vero scandalo. Ogni essere umano e ogni comunità hanno pieno diritto di considerarsi offesi. Lo scandalo, di tale portata da configurarsi anche “tecnicamente” come una dichiarazione di guerra, è la totale incapacità di quegli offesi di accettare la loro offesa come parte integrante, inevitabile, vitale del confronto culturale e della mediazione giuridica. Vuol dire, tout court, negare alla radice il confronto culturale e la mediazione giuridica.
Ai tempi di Tango ( predecessore di Cuore) Sergio Staino sintetizzò in una vignetta-manifesto la questione satirica, che è poi un sunto “specializzato”, ma molto rappresentativo, della questione della libertà. Un Bobo guerriero, con lo spadone sguainato, lanciava il suo urlo di guerra. “Chi si incazza è perduto”. Sapeva bene, Bobo, che la satira è una spada, metaforica ma tagliente quanto basta a produrre ferite. E sapeva che può anche fare “incazzare”, che anche una matita può essere così ben temperata da diventare acuminata. Ma assegnava giustamente agli offesi il compito di gestire l’offesa. All’epoca non potevamo immaginare che la gestione dell’offesa (la sua elaborazione, direbbe uno psicanalista) sarebbe diventata una questione di vita e di morte; nonché una questione di civiltà. Di vita e di morte della civiltà. Non “la nostra” civiltà: quella di chiunque riconosce la mediazione dei conflitti, ovvero la democrazia, come base della convivenza.
Ci consola e ci illumina considerare che, nel vecchio slogan di Staino, “perduto” è chi si incazza. Chi perde il lume della ragione e del rispetto perde prima di tutto se stesso. Il fanatico è sempre perduto in partenza. Ha sempre perduto in partenza.

“L’Islam che non ci sta”, di Nicholas Kristof – La Repubblica 09.01.15

Il giornale satirico francese Charlie Hebdo mette alla berlina gente di tutte le religioni e le provenienze. In passato in una vignetta si sono visti rotoli di carta igienica con scritte come “Bibbia”, “Torah”, “Corano” e la spiegazione: “Nel gabinetto, tutte le religioni”. Eppure, quando gli uomini armati di mitra AK-47 mercoledì hanno fatto irruzione negli uffici parigini di Charlie Hebdo, assassinando 12 persone nel peggiore attentato terroristico su suolo francese da decenni, molti di noi hanno presunto che gli attentatori non fossero fanatici cristiani o ebrei, ma più probabilmente estremisti islamici. Cristiani, ebrei e atei indignati sfogheranno le loro frustrazioni su Facebook o Twitter. Ma si presume che siano gli estremisti islamici ad aver manifestato la loro collera a colpi di pallottole.
Molti si chiedono: «L’Islam conduce ineluttabilmente alla violenza, al terrorismo, a sottomettere le donne?». La domanda sorge spontanea perché spesso è sembrato che i fanatici musulmani uccidessero in nome di Dio, dagli attentati di Madrid nel 2004, che provocarono la morte di 191 persone, all’assassinio il mese scorso degli ostaggi in un caffè di Sydney in Australia. Un anno fa — dopo che un amico pachistano, Rashid Rehman, coraggioso avvocato, era stato ammazzato per aver difeso un docente universitario erroneamente accusato di aver insultato il Profeta Maometto — scrissi un articolo nel quale parlai di una sempre più grande vena di intolleranza nel mondo islamico. Una delle forme di terrorismo nel mondo islamico è la persecuzione quotidiana di cristiani e di minoranze religiose. E poi c’è l’oppressione femminile: nei dieci Paesi in fondo alla classifica del rapporto sulle disparità di genere del World Economic Forum ne ho contati nove a maggioranza musulmana. Quindi sì, certo, c’è una vena di intolleranza ed estremismo islamico dietro l’attentato a Charlie Hebdo. La redazione era stata colpita da un attentato già nel 2011, dopo aver pubblicato una vignetta di Maometto che dice: «Cento colpi di frusta se non morite dalle risate». Ancora prima, ne pubblicò una con un Maometto piagnucolante che dice: «È difficile essere amato da idioti».
Gli episodi di terrorismo possono indurre molti occidentali a ritenere l’Islam estremista per sua natura, ma questa conclusione è impulsiva e superficiale. Un esiguo numero di terroristi non rappresenta una religione complessa e variegata con oltre 1,6 miliardi di seguaci. Sono stato subissato di messaggi su Twitter da parte di musulmani che disapprovano l’attentato e fanno notare che i fanatici musulmani nuocciono all’immagine di Maometto molto più dei disegnatori di vignette. La maggioranza dei musulmani non ha niente a che spartire con la follia degli attentati, è vittima essa stessa del terrorismo. In verità, quello di Charlie Hebdo non è stato l’attentato terroristico più letale mercoledì: un’autobomba fatta esplodere davanti a un istituto scolastico in Yemen, forse da affiliati ad al Qaeda, ha provocato almeno 37 morti.
Il giornalismo mi ha insegnato a diffidare da semplici dicerie, perché a quel punto nuove notizie si insinuano e le amplificano o distorcono. Nei miei viaggi i musulmani estremisti mi hanno parlato di false visioni, nelle quali loro credono, di un’America oppressiva, controllata dai sionisti e determinata a calpestare l’Islam. Si tratta di una deformazione assurda, e dovremmo stare attenti a non fraintendere una religione così diversa come l’Islam.
Cerchiamo di evitare le etichette religiose. Il cristiano comune non ebbe nulla di cui sentirsi colpevole quando nell’ex Jugoslavia i fanatici cristiani sterminarono i musulmani. Chi critica l’Islam non è da biasimare perché nel 2011 un fanatico anti- musulmano ha assassinato 77 persone in Norvegia. Cerchiamo anche di renderci conto che il popolo più impavido e amante della pace in Medio Oriente, che si erge contro i fanatici musulmani, è proprio quello dei devoti musulmani. Alcuni leggono il Corano e vanno a far saltare in aria una scuola femminile, ma molti di più leggono il Corano e costruiscono scuole femminili. I Taliban rappresentano una varietà di Islam; la vincitrice del Premio Nobel per la Pace Malala Yousafzai ne rappresenta una diametralmente opposta. Ricordo un episodio demoralizzante, forse apocrifo. Riguarda Gandhi, al quale chiesero: «Cosa ne pensa della civiltà occidentale?». Pare abbia risposto: «Penso che sarebbe una buona idea».
Il divario più grande non è quello tra le religioni, ma tra terroristi e moderati, tra chi è tollerante e chi considera “l’altro” un diverso. Dopo la crisi degli ostaggi, in Australia, alcuni musulmani paventavano attentati di ritorsione. Una marea di australiani non musulmani si è offerta di scortare i musulmani e garantirne l’incolumità, con l’hashtag #IllRideWithYou (#TiAccompagnoIo) su Twitter. Sono stati oltre 250mila i tweet, esempio di altruistica compassione dopo un attentato. Bravi! È questo lo spirito che ci deve animare. Schieriamoci quindi con Charlie Hebdo, perché la solidarietà dimostrata a livello globale è ispirante. Denunciamo il terrorismo, l’oppressione e la misoginia nel mondo islamico, e in qualsiasi altro luogo. Ma cerchiamo di stare attenti a non rispondere all’intolleranza dei terroristi con la nostra. Traduzione di Anna Bissanti © 2-015, The New York Times

“Le mille matite della libertà”, di Aldo Cazzullo – Corriere della Sera 09.01.15

I giornali latini ripubblicano le vignette di Charlie Hebdo. I giornali anglosassoni tendono a nasconderle, talvolta a condannarle. Non sono soltanto diverse scelte editoriali; corrispondono a una diversa lettura della tragedia di Parigi, e del passaggio storico che stiamo vivendo. Atto di guerra o terrorismo? Scontro tra culture o attacchi di una minoranza nemica della sua stessa comunità?

Alcune di quelle vignette sono efficaci. Altre non fanno ridere. Altre ancora appaiono inopportune. Si possono criticare. Ma sarebbe un errore grave dividersi oggi sulla libertà d’espressione, che va difesa sempre, anche quando diventa libertà di dissacrazione. Il contrasto tra il riso e l’integralismo religioso è antico di secoli. Umberto Eco ne ha tratto un best seller mondiale, sostenendo che l’uomo è l’unico animale che ride, ed è l’unico animale che sa che deve morire; se il riso è l’antidoto alla paura della morte, è logico che il nichilismo islamista ne abbia orrore. Ogni terrorista ha trovato giustificazioni e alibi, pure nel recente passato italiano. Questa volta non ne dovrà trovare. Non ci sono provocatori e provocati; ci sono vittime e carnefici.

Dissacrare però non basta. È anche il momento di costruire: valori, regole, convivenza basata sul rispetto reciproco e sulla legalità. Negare che sia in corso una guerra, che l’altra sponda del nostro mare sia il campo di battaglia e l’Europa la retrovia in cui l’esercito islamico tenta di reclutare o infiltrare i suoi combattenti, sarebbe negare la realtà. Ma il confronto con l’Islam non può essere ridotto alla guerra. È un tema cruciale della modernità, del nostro tempo segnato dalle migrazioni e dal mondo globale. I l confronto con l’Islam è un tema che attraverserà le nostre vite. Chiama in causa non soltanto le capacità militari e di intelligence dell’Europa; ne sollecita l’identità culturale, la coesione sociale. Contrapporre violenza a violenza, uniformare tutti i musulmani in un’unica condanna farebbe il gioco degli assassini di Parigi; che sperano di suscitare l’intolleranza proprio nella terra di Voltaire, che contano di seminare l’odio tra popoli che la storia ha condannato a combattersi, come nell’Algeria degli Anni Cinquanta, ma anche a convivere, attorno a un unico mare e talora nella stessa terra.

La Francia è il Paese più esposto, non solo perché ha avuto un impero coloniale; è il Paese del velo vietato per legge, della Repubblica laica in piena crisi identitaria. Ma anche l’Inghilterra multiculturale ha generato terroristi e tagliagole. L’Italia il suo Islam lo sta importando, ed è cruciale costruire argini più efficaci all’immigrazione senza controllo. Possiamo essere orgogliosi delle vite salvate in mare, e nello stesso tempo agire contro gli scafisti e impedire atti di aperta ostilità, come le imbarcazioni lanciate con il pilota automatico contro le nostre coste. È importante tenere alta la guardia, rafforzare la prevenzione e la sicurezza. Ma non è meno importante costruire – con la scuola, con la politica, anche con la discussione pubblica che passa attraverso i media – un sistema di princìpi condivisi da trasmettere ai nostri figli e ai nuovi italiani.

A maggior ragione ora che il disagio legato alla distruzione del lavoro tradizionale rende più difficile accogliere profughi e immigrati, il confronto con l’Islam va affrontato sapendo chi siamo e in cosa crediamo. La risposta migliore all’offensiva fondamentalista è consolidare la nostra democrazia, riaffermare i nostri valori. Tra questi, oltre alla laicità dello Stato e al rispetto della donna, c’è anche il diritto a criticare e, se si vuole, a ridere del fanatico il quale «vi diceva che la verità ha il sapore della morte; e voi non credevate alla sua parola, ma alla sua tetraggine».