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“La memoria chimica di Levi”, di Domenico Scarpa – Il Sole 24 Ore 25.01.15

primo levi
L’elenco inedito dei deportati del primo convoglio per Auschwitz e le analisi dello Zyklon B, il veleno usato nelle camere a gas
Settantasei su novantacinque significa l’ottanta per cento: un elenco dattiloscritto di settantasei nomi, ciascuno accompagnato da una lettera dell’alfabeto a indicarne il destino. Era il 3 maggio 1971 quando Primo Levi consegnò quel foglio – completo di conteggi e di legenda esplicativa – al pubblico ministero Dietrich Hölzner del tribunale di Berlino Ovest, giunto a Torino per raccogliere la sua testimonianza. Si chiudeva la fase istruttoria del processo contro l’ex colonnello delle SS Friedrich Bosshammer, collaboratore diretto di Eichmann, accusato della deportazione di 3.500 ebrei italiani. Tra i luoghi di partenza di quei deportati c’era il campo di raccolta di Fossoli-Carpi: il primo convoglio prese la via di Auschwitz il 22 febbraio 1944, viaggiando cinque giorni e quattro notti. I dodici vagoni contenevano 650 persone, tra cui l’allora ventiquattrenne Levi; il più giovane, Leo Mariani, aveva due mesi, la più anziana, Anna Jona, ottantotto anni.
La sera del 26 febbraio, all’arrivo, meno di un quinto dei deportati furono selezionati per il lavoro forzato in Lager: novantacinque uomini più ventinove donne. Tutti gli altri furono condotti alle camere a gas.
A un quarto di secolo dai fatti, Primo Levi riuscì dunque a ricostruire l’identità e la sorte di settantasei uomini sui novantacinque che insieme con lui entrarono vivi in Auschwitz. «La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace», avrebbe scritto nel suo ultimo libro I sommersi e i salvati. E quell’ottanta per cento fu realmente un risultato straordinario, una vittoria in una prolungata battaglia contro l’oblio, a favore dell’esattezza dei fatti. Eppure, sarebbe sbagliato considerare un semplice exploit di mnemotecnica il documento inedito riprodotto in questa pagina.
Le cronache apparse nel maggio ’71 sui quotidiani torinesi riportano che Hölzner ricevette in dono da Levi una copia della versione tedesca di Se questo è un uomo, e che la allegò agli atti del processo Bosshammer. Fu un gesto giuridicamente pertinente; quel libro non era un semplice referto: era un’indagine sulla struttura e l’antropologia del Lager, radicata nel terreno dei fatti: al neutro orrore dei numeri davano senso i nomi delle persone, i loro comportamenti, i loro destini. Proprio come in Se questo è un uomo, sul foglio consegnato a Hölzner Levi restituiva il nome a 76 persone già declassate a numeri di matricola.
Il libro pubblicato da Einaudi che oggi raccoglie l’elenco del 1971 s’intitola Così fu Auschwitz. Gli autori in copertina sono due: a Levi si affianca Leonardo De Benedetti, il medico torinese nato nel 1898 che fu con lui durante il ritorno narrato nella Tregua: l’amico o fratello maggiore, l’«uomo buono», la persona dotata di «coraggio silenzioso» con cui Levi scrisse a Katowice, già nella primavera 1945, un rapporto sulle condizioni igienico-sanitarie di Auschwitz che rappresenta la prima testimonianza di carattere scientifico sui Lager resa da ex deportati italiani. Nei decenni successivi, Leonardo e Primo non avrebbero smesso di testimoniare: e più d’una volta, come in occasione del processo Bosshammer, l’uno accanto all’altro.
Così fu Auschwitz è una raccolta di scritti, in gran parte inediti o dispersi, che da oggi si colloca accanto a I sommersi e i salvati: non come un semplice retroscena di quel libro definitivo, ma come un’opera nuova, anzi innovativa e autonoma. Come un libro che porta alla piena evidenza una lezione di metodo: il metodo di Primo Levi, rispetto al quale persino parole come «testimonianza» e «memoria» finiscono per apparire insufficienti: o meglio, monche, perché non rendono giustizia ai modi in cui Levi seppe indagare per oltre quarant’anni i fatti di Auschwitz.
Un esempio concreto: soltanto oggi apprendiamo, grazie a due tra i documenti più remoti (risalgono al 1946-47), che Levi volle materialmente analizzare lo Zyklon B, il gas dello sterminio: «ricerche mie personali» afferma nella prima testimonianza, per poi specificare nella seconda, senza possibilità di equivoco, che «il veleno usato nelle camere a gas di Auschwitz, e da me esaminato», era una sostanza composta «da acido prussico, addizionato di sostanze irritanti e lacrimogene allo scopo di rendere più sensibile la presenza in caso di fughe o rotture degli imballaggi in cui veniva contenuta». Non dovette essere troppo difficile, nell’immediato dopoguerra e per un chimico reduce da Auschwitz, procurarsi una confezione di quella «preparazione chimica in forma di polvere grossolana, di colore grigio-azzurro, contenuta in scatole di latta». Più difficile per noi misurare la forza d’animo necessaria a eseguire l’analisi e a non farne parola, eccetto che in referti destinati alle aule dei tribunali, che solo oggi riemergono.
L’episodio dello Zyklon B rivela che il Levi analista di Auschwitz non fu solo un testimone, ma assunse il ruolo del ricercatore. La differenza è essenziale. Levi ha ricordato più volte che, subito dopo il ritorno a Torino, avvenuto il 19 ottobre 1945, cominciò a raccontare la propria storia spinto da una febbre di necessità: la imponeva a chiunque, anche durante un breve tragitto in tram. Tutto questo è vero ed è all’origine di Se questo è un uomo, ma è solo metà del vero. Dopo la liberazione, Levi non si limitò a consegnare una vicenda a chi fosse disposto ad ascoltarla: impiegò sistematicamente il suo tempo a raccogliere notizie sui compagni di deportazione, dedicandosi a salvare nomi e destini.
Così si spiega, molto prima di quel foglio datato 3 maggio 1971 per il processo Bosshammer, il contenuto della prima testimonianza che rese dopo il ritorno. Ritrovata qualche mese fa nell’Archivio Ebraico Terracini di Torino, la «Relazione del dott. Primo Levi n. di matricola 174517 reduce da Monowitz-Buna» consiste in un elenco di trenta persone coinvolte nella micidiale marcia di evacuazione da Auschwitz decisa dai tedeschi il 17 gennaio 1945.
Quando Levi lo scrisse, tra metà novembre e metà dicembre del ’45, ancora non si conosceva l’esito disastroso della marcia, cui sopravvisse appena un quinto dei prigionieri. Ma la «Relazione» appare sbalorditiva perché è il frutto di un lavoro di ricerca dei fatti, e di deduzione logica a partire dai fatti stessi, che si appoggia a sua volta sull’esame critico di informazioni raccolte da Levi in momenti e in ambienti diversi: ad Auschwitz dopo la liberazione del Lager, durante l’avventura del ritorno attraverso l’Europa, nella città di Torino poco dopo il rientro, da precoci scambi di lettere con ex compagni di deportazione come lui sopravvissuti.
Tutto questo si trova nella «Relazione» del ’45. Più un pudico calore umano che circola in ogni nome, in ogni informazione incolonnata su quei fogli, battuti a macchina con lo scrupolo di ordine connaturato in Levi. Il segno del suo stile si coglie in un colpo di barra spaziatrice: quello che separa il primo nome dell’elenco, «ABENAIM toscano» – un cognome, una provenienza: per chi andasse in cerca di lui – dalle parole «sapeva fare l’orologiaio». Non: orologiaio, oppure: era orologiaio, ma: sapeva fare. Un ricordo che è già un ritratto stagliato su uno spezzone di rigo: una qualità e un fatto umano, un’apposizione concreta, un segno particolare su un documento d’identità morale, un mestiere praticato bene per buona volontà.
Qui il Primo Levi testimone diventa, fin dal principio, il Primo Levi che sa fare mestieri più complessi: che non si limita ad accumulare dati ma li interroga, li incrocia, ne trae un aumento di empatia oltre che di conoscenza. È qui che Levi diventa, fin dal principio, il Levi che conosciamo: un uomo animato da raro interesse per ciò che gli uomini sono e sanno fare, un testimone e uno scrittore che «sapeva fare» anche lo storico .

“I professori più vecchi d’Europa Più della metà sono «over 50»”, di Gian Antonio Stella – Corriere della Sera 24.01.15

«Mi mandano un ragazzino quando ho bisogno di un uomo con grinta, baffi e barba da Mangiafoco…»: così si lagnò corrucciato il direttore scolastico accogliendo tanti anni fa il maestro Giovanni Mosca, che «aveva vent’anni ma ne dimostrava sedici». Il quale proprio grazie all’età riuscì a impadronirsi della sua classe abbattendo in volo un moscone con la fionda. Oggi non c’è pericolo che accada: dicono i recentissimi dati Ocse che nella scuola primaria (le elementari) gli insegnanti sotto i trent’anni sono talmente pochi da essere percentualmente irrilevanti. E così nelle medie e nelle superiori. Quelli sotto la quarantina sono il 12% alle elementari, il 13 alle medie, l’8 alle superiori. Sono dati immensamente diversi da quelli del resto del mondo. Basti dire che maestri e professori sotto i cinquant’anni («in due occasioni di compleanno ci si sente improvvisamente decrepiti: a diciannove anni e a cinquanta», ha scritto Gesualdo Bufalino) non arrivano ad essere secondo l’Ocse, nel complesso della nostra scuola, neppure la metà: il 48%. Tutti gli altri stanno sopra. E quelli sopra la sessantina sono addirittura l’11% alle elementari, il 13% alle superiori e il 15% alle medie. Tanto per capirci: 6 punti sopra la media dei Paesi Ocse e 7 (quasi il doppio) sopra la media delle altre nazioni europee. Per non dire della Spagna, del Giappone, dell’Irlanda, del Canada o del Belgio: i nostri «vecchi» sono il quadruplo.
L’«Annuario scienze società» 2015 di Observa curato da Giuseppe Pellegrini e Barbara Saracino, che uscirà a metà febbraio per il Mulino, ha una tabella su dati Eurostat-Teaching staff che mette i brividi. È sugli insegnanti con meno di quarant’anni nelle scuole secondarie di primo e secondo grado (tradotto nel linguaggio comune: medie e superiori) in tutta Europa. Con un umiliante 10,3% siamo ultimissimi. Austria e Germania ne hanno due volte e mezzo più di noi, Spagna e Francia il triplo abbondante, il Belgio il quadruplo, la Gran Bretagna il quintuplo.
«La struttura per età», spiega l’associazione TreeLLLe presieduta da Attilio Oliva, «ci racconta la storia delle politiche di reclutamento del corpo insegnante. I dati mostrano una più ampia incidenza della quota dei 50-59enni evidentemente entrati negli anni ‘80, che “schiaccia” gli ingressi delle corti più giovani, costituite dai neolaureati. Stupisce che anche la scuola primaria, in passato luogo d’ingresso di giovani insegnanti meno che trentenni, oggi a seguito dell’introduzione dell’obbligo di possesso di un titolo universitario in combinazione con la mancata apertura dei canali di reclutamento, vede la scomparsa di insegnanti giovani».
Nel decennio dal 1998 al 2009 i maestri britannici e francesi sono «ringiovaniti» da un’età media di 41 anni e mezzo a 40 e mezzo, i nostri invecchiati da 44,5 a 47,5. E dal 2009 a oggi questa età media è salita ancora fino a 53 anni e 3 mesi nella scuola primaria e addirittura a 54 in quella dell’infanzia. Il che significa un gran numero di «nonne» sessantenni, magari con le caviglie gonfie e il fiatone, chiamate ciascuna per ore a gestire venti «nipotini». A volte, un inferno.
La rivista Tuttoscuola ha messo a confronto le fasce d’età negli ultimi tre lustri. Nel 1997/98, spiega il direttore Giovanni Vinciguerra, «oltre un quarto degli insegnanti, esattamente il 26,2%, aveva un’età inferiore ai 40 anni. E solo il 2,4% passava i sessanta: uno su venti. Da allora si sono succedute varie riforme previdenziali che hanno avuto effetti determinanti sul turn over del pubblico impiego e del personale della scuola». Prima conseguenza, appunto, l’invecchiamento dei docenti. Vistosissimo nel 2014, quando il documento governativo sulla «Buona Scuola» confermava che l’età media degli insegnanti statali era 51 anni: «Un invecchiamento medio di quasi 6 anni, che è come dire che ogni anno l’età media si è andata innalzando di cinque-sei mesi». Tanto più che «nello stesso periodo delle riforme previdenziali la mancanza di concorsi, congelati per oltre un quinquennio, non consentiva di attingere a nuove leve più giovani e le chiamate dalle graduatorie ad esaurimento privilegiavano i precari più anziani».
Esattamente quello che accadrà anche quest’anno con l’assunzione promessa da Renzi di 154.561 precari che, come spiegava qualche settimana fa Orsola Riva, tutto saranno fuorché «insegnanti freschi di laurea e abilitazione perché le graduatorie sono chiuse dal 2007. I più giovani sono i maestri laureati in Scienze della formazione primaria, ma il grosso è rappresentato dai vincitori del penultimo concorso (parliamo del 1999!) e dagli abilitati di vecchio conio (Ssis e abilitazioni riservate)».
L’età media, dice «La buona scuola», è di 41 anni e «diventa chiaro che la loro assunzione consentirà di ringiovanire sensibilmente il corpo docente». E anche di renderlo, viste le percentuali di donne, ancora più femminile. Difficile definirla però, come ricordava il Corriere , «un’iniezione di giovinezza». Lo dice lo stesso grafico del documento governativo, dove spiccano le assunzioni anche di precari sessantacinquenni… Persone che sono certamente in credito con lo Stato chiamato a saldare il suo debito, come ci ha ricordato l’Europa, dopo decenni di caos, rattoppi e sanatorie. Ma anche, stando alle denunce del sito voglioilruolo.it , maestri e professori che ormai se l’erano messa via e magari hanno perduto da anni la confidenza con le aule, la lavagna, il rapporto con gli allievi. Si sono aggiornati? Possiedono le competenze d’inglese e informatica richieste dalla legge Profumo? Hanno continuato incessantemente a studiare o hanno buttato rabbiosamente i libri in un angolo?
E proprio qui è il nodo: fermi restando i torti dello Stato e la legittimità delle aspettative di centinaia di migliaia di insegnanti precari, hanno diritto o no, i nostri bambini e i nostri ragazzi, a una scuola che dia la precedenza a loro, gli utenti? E cioè una scuola che offra loro un corpo docente ricco di entusiasmo e che sia il meglio del meglio in modo che poi quei giovani possano affrontare ad armi pari i «concorrenti» stranieri in un mondo sempre più competitivo? Questo è il tema. E se non viene affrontato di petto, subito, sono guai seri…

“Tutto il mondo (Italia esclusa) canta in piazza “Bella ciao”, di Francesco Merlo – La Repubblica 24.01.15

AParigi l’emozione di Bella Ciao è la resistenza della libertà d’espressione alla barbarie dei kalashnikov, ad Atene accompagna l’utopia populista di Tsipras, a Hong Kong scandisce l’opposizione alla Cina comunista, a Istanbul canta la rivolta contro l’Islam autoritario di Erdogan. Solo in Italia Bella Ciao è all’indice, confusa con Bandiera rossa e L’Internazionale , e mai cantata, come si dovrebbe, con l’alzabandiera del 25 aprile, ma trattata come un inno comunista, degradata da canto laico della liberazione e della concordia repubblicana a ballata dei trinariciuti, a manifesto del Soviet italiano.
E invece, nel mondo, la canzone della Resistenza ha fatto la sua resistenza, e ha vinto, anche contro se stessa. È infatti evasa dalla gabbia del braccio armato e del pugno chiuso con la forza della melodia tradizionale, con quelle due parole “ciao” e “bella” che sono le password della nostra identità, con i timbri e i toni che sono il meglio della leggerezza di Sanremo, con la dolce malinconia del bel fiore sulla tomba, e ovviamente con il partigiano morto per la libertà e non per “la rossa primavera” della falce e martello e neppure per il sol dell’avvenire della filosofia classica tedesca.
Insomma Bella ciao ce l’ha fatta a riaccendere le emozioni originarie che la resero colonna sonora della guerra partigiana al nazifascismo, quando fu preferita a Fischia il vento , proprio perché, «era più ecumenica ». E la sua storia e la sua memoria «la accreditano come la canzone che unifica le speranze e le attese della democrazia» ha scritto Stefano Pivato in Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia ( Laterza, 2005). Fu insomma la canzone delle forze politiche costituenti, tutte laburiste antifasciste e repubblicane, anche se in modi diversi e tra loro conflittuali, ma tutte Bella ciao: un fiore di montagna come educazione civica.
E per capire che è tornata ad essere un inno internazionale di libertà basta rivedere su Repubblica.it tutte quelle labbra che a Parigi scandiscono «Una mattina / mi son svegliato / e ho trovato l’invasor». Nessun professore comunista li dirige, nessun libro marxista li ispira quando fondono Bella ciao e La Marsigliese dondolando e mixando «sotto l’ombra di un bel fior» con gli evviva alla memoria degli artisti di Charlie Hebdo, e senza mai andare né fuori tempo né fuori moda. Ed è emozionante la compostezza del coro un po’ stonato di Istanbul con tutti quei turchi che battono il tempo con le mani: «E se io muoio / da partigiano / tu mi devi seppellir » diventa resistenza al martirio di Kobane, agli arresti dei giornalisti, all’oscurantismo religioso. È un contagio che arriva sino ad Atene, si diffonde senza radio e senza Ipod, ricorda l’epoca euforica degli anni Sessanta: Bella ciao come i Beatles, il vecchio canto della libertà italiana come la musica dei progetti, delle illusioni e degli azzardi, il nostro fiore di montagna contro il terrorismo in Europa, contro la mortificazione delle donne in Turchia. E sorprende e diverte a Hong Kong la voce di un italiano contro la violenza di quel terribile mondo arcaico che è la Cina.
Certo, la storia di Bella ciao era già una specie di leggenda. Agli inizi del Novecento fu il canto delle mondine nelle umide risaie attossicate: «Oh mamma che tormento / io mi sento di morir». E ci sarebbe persino una versione Yiddish incisa a New York nel 1919. Mille ricerche sono state fatte sul giro del mondo di questa canzone che è stata folk, ebrea, swing e tradotta anche in giapponese Ma, come accade talvolta in filologia, le ricerche riportano sempre al punto di partenza: Reggio Emilia, 1940. Nella geografia della memoria Bella ciao è infatti il luogo della Resistenza condivisa, il ritmo della lotta antifascista che fu comunista, cattolica e azionista, come la Costituzione.
Ed è, Bella ciao, come “la ballatetta” di Guido Cavalcanti, che «va leggera e piana» e «porterà novelle di sospiri … quando uscirà dal core ». Il dolce stil novo sapeva già, prima del pop, che la canzonetta è una febbre musicale, e come l’acqua fresca sembra niente ma è tutto, e se c’è nebbia fa vedere il sole, e dà coraggio a chi ha paura. E, infatti, fischiettata o cantata in coro, Bella ciao ha sconfitto quell’altra Bella Ciao , spacciata per eversione e per rivoluzione. Insomma il fiore del partigiano fu, a torto, classificato, non come uno dei pochi canti della democrazia , ma come politica cantata, accanto agli inni del movimento operaio, «Su fratelli su compagni / su venite in fitta schiera», e alle canzoni dolenti degli anarchici, «Addio Lugano bella / o dolce terra mia», e all’orrendo inno che la Dc fece suo: «O bianco fiore / simbolo d’amore / con te la pace / che sospira il core». I comunisti risposero: «Il 25 aprile / è nata una puttana / e le hanno messo nome / Democrazia cristiana ».
Ecco, Bella ciao è un’altra storia, e sembrava che lo avessero capito tutti. La cantarono infatti Claudio Villa e Yves Montand, Gigliola Cinquetti, Francesco De Gregori e Giorgio Gaber, canzone impegnata e canzone scanzonata. Finché i leghisti al governo di alcune città del Nord (Treviso, Pordenone …) proibirono di suonarla il 25 aprile. E Berlusconi, più potente, tentò di abolire la festa della liberazione dal nazifascismo sostituendola con la festa della liberazione da tutte le dittature. E gli pareva che «Forza Italia/ perché siamo tantissimi » fosse più nazionalpopolare di «È questo il fiore / del partigiano / morto per la libertà».
Le ha proprio viste tutte, la nostra Bella ciao . È stata persino stonata in tv da Michele Santoro dopo l’editto bulgaro che lo cacciava dalla Rai con Biagi e Luttazzi. In quell’Italia pazza la solita serva Rai arrivò persino al tentativo di festeggiare i 150 anni dell’Unità suonando a Sanremo sia Bella ciao sia Giovinezza, e di nuovo la canzone della Repubblica fu spacciata per inno comunista attraverso il gioco della somiglianza- contrapposizione con l’apologia del fascismo, suonata per par condicio… Ebbene Bella ciao ha superato anche quell’oltraggio. E adesso che ha conquistato il mondo, forse riconquisterà anche l’Italia.

“Oltre i luoghi comuni Il video sulla vera Italia”, di Beppe Severgnini – Corriere della Sera 24.01.15

Ieri è accaduta una cosa strana. Al secondo posto tra i video più visti di Corriere.it , subito dopo una scenata isterica su un traghetto canadese, un filmato del governo italiano, mostrato al World Economic Forum di Davos per smontare i luoghi comuni sul Paese, e spiegare in cosa siamo bravi. Un ottimo video promozionale? Del governo italiano? In inglese?! Ci dev’essere un errore. L’ho subito guardato: mi è piaciuto. L’ho twittato («Per raccontare l’Italia un ministero produce video impeccabile: sogno o son desto?»). In mezz’ora cento persone l’hanno messo tra i preferiti e molte altre l’hanno commentato per tutta la giornata.
Di cosa si tratta? Di un’operazione intelligente, che parte da una riflessione: inutile negare gli stereotipi sull’Italia, meglio rovesciarli (con sottofondo pianistico). Pizzaioli? «L’Italia è un leader mondiale nella creazione di grandi infrastrutture — 1.000 costruzioni in 90 Paesi». Latin lover? «L’Italia ha il 5° surplus commerciale di prodotti manifatturieri». Amanti della dolce vita? «L’Italia è il leader indiscusso nella produzione di super-yacht, con il 40% degli ordini mondiali». E così via. Per chiudere: «Italy the extraordinary commonplace», Italia il luogo comune straordinario. L’inglese è modellato sull’italiano — «gesticulators» esiste, c’è però un modo migliore per dire che sappiamo parlare con le mani — ma l’approvazione resta. Lo stupore, pure.
I nostri governi, quando hanno tentato di promuovere l’Italia all’estero, hanno prodotto piccole catastrofi. Memorabile fu www.italia.it , costosissimo e anacronistico portale, impreziosito dal linguaggio psichedelico di Francesco Rutelli («Pliz vizit the uebsàit but, pliz, vizit Italy!»). Altri esempi? Quanti ne volete: dalle esternazioni di Silvio Berlusconi all’impotenza dell’Enit, dall’assenza di un ministero del turismo alle goffaggini comunicative del Semestre europeo, fino all’inglese di Matteo Renzi. Adeguato (e lodevole) se si tratta di parlare con altri capi di governo; insufficiente nelle occasioni ufficiali, quando il nostro giovane premier, per evitare infortuni (http://bit.ly/1CuDuDk ), dovrebbe attenersi alla lingua dei concittadini Dante e Petrarca.
Stavolta, invece, bingo (istituzionale)! Cos’è successo al ministero dello Sviluppo economico? I soliti esperti si sono distratti, e un bravo stagista ha preso in mano la situazione? Di certo qualcuno — sarebbe bello sapere chi — ha capito, come dicevamo, che gli stereotipi esistono su tutti i popoli (su di noi, che siamo antichi e fantasiosi, ce n’è di più). Non serve piagnucolare e negarli: bisogna smentirli con i fatti e i comportamenti. E magari con l’ironia.
Non è facile promuovere un Paese. Tutti i popoli hanno torto, almeno in parte; e noi italiani sappiamo combinare pasticci spettacolari, piazzando scandali nei luoghi più belli del mondo. Quale notiziario rinuncia a raccontare le ruberie intorno al Mose, quando c’è la possibilità di mostrare Venezia? Quale sito d’informazione dimentica Mafia Capitale, se nella capitale in questione sono passati imperatori, papi e Anita Ekberg?
Molti diplomatici — non tutti, per fortuna — pensano sia giusto difendere l’indifendibile e negare l’innegabile. Ingenui ed illusi strillano «I panni sporchi si lavano in famiglia!». Non avviene mai: le nazioni che adottano questo motto girano con abiti mentali che mandano cattivo odore. Alcuni patrioti da strapazzo, infine, chiedono a noi giornalisti di tacere sugli infortuni italiani «per carità di patria». Dimenticando, come scriveva Luigi Barzini Jr, che «la miglior forma di amor di patria è essere onesti con se stessi».
A questo proposito ricordino una cosa, Matteo Renzi e i suoi ministri. Noi italiani siamo pieni di talento e tenacia, è vero. Ma per ogni ingegnere che costruisce ponti in Cina, cinque lavorano gratis in Italia con la scusa dello stage. Per ogni astronauta che mandiamo nello spazio, costringiamo centomila ragazzi a emigrare. Per ogni yacht di lusso che variamo, tolleriamo cento milioni di evasione fiscale. È vero, come ricorda il video, che «quest’anno invitiamo 140 Paesi a Expo per discutere come nutrire il pianeta». Ma è anche vero che, a Milano, non siamo stati capaci di tenere le volpi fuori dal pollaio, e la fascinosa Darsena è ancora un buco circondato da pannelli imbrattati.
Ecco: nessuno chiede di produrre un video istituzionale per raccontare al mondo tutto ciò. Ma tra noi italiani dobbiamo dircele, certe cose.
Guarda il video

Editoria, on. Ghizzoni “Stanziare contributi in attesa della riforma” – comunicato stampa 24.01.15

 

 

La parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni è firmataria di un emendamento al dl Milleproroghe che stanzia oltre 50 milioni di euro per il 2015 per rifinanziare il Fondo per l’editoria, in modo da garantire, in attesa della riforma complessiva del settore, una boccata d’ossigeno alle tante testate, locali e nazionali, che si trovano sull’orlo della chiusura.

 

Una boccata d’ossigeno per le imprese editoriali, sia locali che nazionali, in attesa che la riforma complessiva del sistema possa garantire un sostegno, da parte dello Stato, con criteri trasparenti ed equi, al pluralismo informativo: la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni è firmataria, assieme ai colleghi della Commissione Cultura della Camera, di uno specifico emendamento al dl Milleproroghe che punta a stanziare poco più di 50 milioni di euro per rifinanziare, per l’anno in corso, il Fondo per l’editoria. “Sono risorse fondamentali per garantire un po’ di respiro a tante piccole aziende editoriali che, in questo momento, sono sull’orlo della chiusura – spiega Manuela Ghizzoni – Infatti, dopo anni di gestione scandalosa dei fondi, si è decisa una stretta improvvisa e draconiana tanto che, ad esempio, nel 2013 sono stati tagliati fondi che le aziende avevano già messo a bilancio”. La situazione – soprattutto tra le piccole imprese editoriali cooperative, diocesane e del terzo settore – è drammatica: solo l’anno scorso, hanno chiuso una quarantina di testate e altre sono sull’orlo del baratro. “Con questo emendamento – continua Manuela Ghizzoni – cerchiamo di garantire risorse per il 2015 in modo da poter giungere alla riforma complessiva del sistema sulla quale, da mesi, come Commissione Cultura, siamo impegnati in audizioni e confronti. In tutta Europa, pur con modalità diverse, il pubblico sostiene il pluralismo dell’informazione, da considerarsi un bene prioritario alla stregua dei servizi sociali o del trasporto pubblico. Non crediamo, come i fautori del liberismo sfrenato sostengono, che il mercato da solo possa determinare la sopravvivenza delle testate più meritevoli. L’informazione plurale – conclude Manuela Ghizzoni – non è un prodotto qualsiasi del mercato globale, ma un bene da tutelare. E’ sul come che dobbiamo interrogarci e decidere, per garantire equità, trasparenza e tutela di chi garantisce un servizio ai propri lettori”.

Imu agricola, parlamentari Pd “Bene il decreto del Governo” – comunicato stampa 23.01.15

 

Il Consiglio dei ministri, sollecitato anche dalle pressioni che sono arrivate in questi giorni da parlamentari e amministratori del Pd, oggi ha varato misure urgenti in materia di esenzione dell’Imu. In particolare ha ampliato la platea delle aree e dei soggetti che sono esentati dal pagamento dell’Imu sui terreni montani e ha spostato il termine per il versamento dell’imposta per chi ne è ancora soggetto al 10 febbraio (originariamente era lunedì prossimo). Grande soddisfazione per la decisione del Governo viene espressa dai parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra, Edoardo Patriarca, Matteo Richetti e Stefano Vaccari che, in queste settimane, si erano fatti portavoce delle proteste del nostro territorio. Ecco la loro dichiarazione:

Ancora una volta, il lavoro di squadra, concertato tra gli amministratori e le associazioni di categoria sul territorio e, noi, in qualità di rappresentanti a Roma, è riuscito a conseguire il risultato atteso. Il Consiglio dei ministri, in via straordinaria, si è riunito nel pomeriggio di oggi, dopo che in mattinata si era tenuta una riunione, risultata poi decisiva, tra il ministro dell’Economia Padoan e quello dell’Agricoltura Martina. Il Governo, sollecitato a più riprese da noi e dai nostri colleghi del Pd in rappresentanza di tutti i territori italiani, ha trovato una buona soluzione a un problema che, dopo la sentenza del Tar del Lazio, rischiava di cadere nel caos. Il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge che va a ridefinire i parametri precedentemente fissati, ampliando la platea dei soggetti esenti dal pagamento della tassa. L’esenzione totale, infatti, è prevista per 3.456 Comuni montani: prima erano 1.498. Insomma, nuovi criteri adottati e le molte esenzioni previste vengono incontro alla giusta esigenza di non penalizzare i terreni montani e le loro attività agricole, e determinano una significativa riduzione della platea dei Comuni e dei contribuenti interessati”.

“Brevetti di enti e atenei all’Iit, prime critiche e una promessa dal Pd: «La norma sarà corretta», di Marzio Bartoloni – Scuola 24 23.01.14

Prima levata di scudi contro la norma comparsa nel decreto su banche e investimenti, anticipata da Scuola 24 , che di fatto affida all’Istituto italiano di tecnologia di Genova la gestione dei brevetti di enti di ricerca e università. Ieri sono arrivate le prime critiche a una norma che, promettono dalla sponda Pd ,«sarà corretta» durante l’iter di conversione del decreto in Parlamento.

Il Pd pronto a correggere la norma
Il decreto approvato martedì scorso prevede che l’Iit provveda a «sistematizzare a scopi informativi e di vendita i risultati della ricerca scientifica e tecnologica svolta negli enti pubblici di ricerca, le competenze scientifico-tecnologiche e le infrastrutture di ricerca presenti negli enti stessi». Viene poi prevista l’istituzione – questo il punto più contestato – di un «sistema per la commercializzazione dei brevetti registrati da università, enti di ricerca e ricercatori del sistema pubblico e disponibili – si legge nel decreto – per l’utilizzazione da parte delle imprese». Un affidamento di fatto alla fondazione di Genova di tutto il patrimonio brevettuale della ricerca pubblica italiana. «La norma sarà corretta», è la promessa della senatrice Pd Francesca Puglisi, responsabile scuola nella segreteria di Matteo Renzi, che ieri ha risposto così su twitter all’allarme lanciato da Bologna dal candidato rettore dell’Alma mater, Maurizio Sobrero che aveva parlato subito di tentativo del Governo di privatizzare i brevetti. Sulla stessa scia di Puglisi anche la collega di partito, la deputata Manuela Ghizzoni: «Scelta incomprensibile – ha scritto anche lei su twitter – grave se la norma venisse confermata nel testo in Gazzetta Ufficiale. Impegnamoci perché venga stralciata prima».

Contrari anche dentro l’Iit
La norma a quanto si apprende avrebbe preso in contropiede tutti gli uffici tecnici dei ministeri interessati (Mise, Miur, Mef), in particolare il ministero dello Sviluppo economico che aveva proposto solo un intervento che favorisse il decollo delle strat up nell’orbita dell’Iit di Genova. La norma sarebbe stata inserita – probabilmente dall’Economia – domenica, ma la paternità è ancora sconosciuta. Per ora sembra confermato che resti nel testo che sarà pubblicato a giorni in Gazzetta. Ma non dovrebbe avere lunga vita anche perché è lo stesso Istituto italiano di tecnologia che non sarebbe favorevole a queste norme che gli affiderebbero compiti difficili se non impossibili da maneggiare. Qualcuno parla anche di “polpetta avvelenata”. Si capirà nei prossimi giorni se si è trattato solo di una svista o se invece dietro c’è una regìa precisa.