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Agli atenei arrivano i primi finanziamenti per affrontare la novità della no tax area

Nella legge di bilancio per il 2017 sono state introdotte alcune misure a sostegno dell’accesso all’università: tra questa, la più innovativa dispone l’esenzione dalle tasse universitarie per gli studenti a basso reddito (fino a 13.000 euro di ISEE) ed il calmieramento per quelli con un ISEE compreso tra il 13.001 e i 30.000 euro. Per compensare gli atenei dei mancati “introiti” dovuti agli esoneri e al contenimento degli importi delle tasse, sono stati previsti 55 milioni per l’anno in corso (dato che la misura entra in vigore da questo anno accademico, quindi per il 2017 c’è necessità di compensare gli atenei per la sola prima rata delle tasse, che si assolve tra settembre e ottobre) e 110 milioni a regime dal 2018. E’ presto per dire se la misura messa in campo per volontà del PD raggiungerà l’obiettivo, avvicinando all’università i giovani provenienti da strati sociali deboli, ma i primissimi dati provenienti da alcune regioni (Toscana e Piemonte) rispetto alla richiesta di borsa di studio paiono andare in questo senso. Oggi il Miur ha ripartito “la prima rata” di finanziamento agli atenei di 55 milioni: “di questi, 20,73 milioni (37,7%) vanno al Nord, 13,2 milioni (24%) al Centro e 21,07 milioni (38,3%) al Sud. Il riparto tra gli atenei è avvenuto in proporzione alla percentuale di studenti attualmente esonerati dalle tasse moltiplicati per il costo standard per studente in corso del rispettivo ateneo.
A questo link trovate il riparto delle risorse, ateneo per ateneo:http://www.miur.gov.it/documents/20182/226551/Tabella+6+-+FFO+2017+-+intervento+no+tax+area.pdf/108fa440-7c42-4377-a4c2-7781c2073224?version=1.0
A titolo di esempio, Modena ha avuto 900.564 euro, Bologna 3.706.125 euro, Ferrara 542.706 euro e Parma 1.036.218 euro

L’apologia del fascismo è reato: che lo dica Scelba o Fiano, questo è un principio costituzionale


Solleviamo il velo dell’ipocrisia: il fascismo non è una opinione, è un’ideologia che punta a scardinare il sistema democratico e quindi la sua apologia è reato. Dal 1952, la legge Scelba – che ha dato attuazione alla XII disposizione transitoria della Costituzione – ha disciplinato il divieto di riorganizzare il disciolto partito fascista e il reato di apologia del fascismo. Contro la legge Scelba – in linea di principio – nessuna forza politica obietta. Negli ultimi anni, però, assistiamo a due fenomeni, facce della stessa medaglia, cioè l’inefficacia della legge Scelba: un rigurgito neofascista, pubblicamente propagandato e, di converso, sempre più rare condanne di apologia del fascismo. E’ per questi motivi che il collega Fiano ho presentato nell’ottobre del 2015 una proposta di legge, che anche io ho convintamente sottoscritto, per introdurre nel Codice Penale il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista punibile con la reclusione da 6 mesi a 2 anni, con l’aggravante dell’uso distorto del web. Questa proposta è stata oggi votata alla Camera. Molte le accuse sollevate dai banchi della destra: di voler dettare quali movimenti del corpo siano più o meno legittimi (il saluto romano non è un semplice sollevamento del braccio destro… dai, non scherziamo!), di non occuparci dei problemi reali del Paese e di promuovere norme inutili (ma se davvero così fosse, perché innestare un vibrante ed estenuante dibattito che in un’ora ha permesso di svolgere un solo voto?), di colpire un’area di pensiero (se ci si riferisce al pensiero che promosse la Marcia su Roma e impose un Ventennio di dittatura, esso ha già ricevuto l’inappellabile giudizio dalla Storia ma quel ventre è ancora fecondo, come possono ad esempio testimoniare i corpi martoriati dei 69 ragazzi trucidati nell’isola di Utoya nel 2012 da un fanatico simpatizzante filonazista che affermò di avere compiuto gli atti per mandare un “messaggio forte al popolo, per fermare i danni del partito laburista” e per fermare “una decostruzione della cultura norvegese per via dell’immigrazione in massa dei musulmani”). Ma perché tanta opposizione alla proposta Fiano e non alla Scelba? Questo è il punto del ragionamento (ideologico) animato da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia in Aula: si preferisce una legge inefficace che non persegue realmente il reato di apologia del fascismo e quindi ci si oppone a qualsiasi iniziativa che possa invece ottenere un risultato più coerente con il dettato Costituzionale.
Sulla proposta Fiano, il M5S ha cambiato atteggiamento: se durante l’esame in commissione ci ha bollati come liberticidi – dimenticando che liberticida è stata la dittatura fascista e liberticida è chi cerca attenuanti alla Storia rinverdendo la teoria del cosiddetto “fascismo sociale” – nell’esame in Aula ha proposto, in sintesi, una norma identica a quella di Fiano, con due modifiche: essa interviene non sul Codice Penale bensì sulla legge Scelba, e si specifica che la norma “non si applica quando le immagini, i contenuti o i beni abbiano, unicamente, carattere storico-culturale, artistico o architettonico”. Questa precisazione è pleonastica, poiché il nuovo reato persegue la condotta di “propaganda”: in assenza di essa – si pensi, ad esempio, alla vendita di un oggetto di mero valore storico-artistico o antiquariato – non vi è reato. Per il mancato accoglimento del loro emendamento, anche se nei fatti uguale al testo della legge, i 5 stelle hanno votato contro. Noi non abbiamo votato l’emendamento M5S soprattutto perché si ritiene più utile modificare il Codice Penale, dato che molte sono state le sentenze favorevoli alle condotte di apologia in quanto i giudici non potevano strettamente ricondurle al principio della XII disposizione transitoria della Costituzione su cui si basa la Legge Scelba, cioè il divieto di riorganizzazione del Partito Fascista. Come si vede, non stiamo parlando di realtà del passato, ma di fatti vivi e attuali su cui il Parlamento non può non legiferare.

La notte in cui la guerra si fermò

L’uomo non è solo “homo hominis lupus”. Nel dicembre del 1914, all’inizio della prima Guerra Mondiale, nelle trincee delle Fiandre, i soldati inglesi e quelli tedeschi, spontaneamente, sospesero le ostilità per il giorno di Natale, si scambiarono piccoli doni e, incontrandosi nella terra di nessuno, giocarono a pallone. Episodi malvisti dai comandi superiori che si affrettarono a impedirli per le festività successive perché “fraternizzare con il nemico” privava la guerra del suo senso, perverso e immorale, a cui i soldati dovevano sottostare. Ma questo episodi raccontano di una umanità non ancora perduta nell’odio e nella brutalità. Domani sera, a Carpi, quella tregua natalizia verrà ricordata in una pubblica lettura e insieme ad altri presterò la mia voce alle parole scritte dai soldati britannici su quell’inconsueto momento di respiro dalla guerra. L’appuntamento è per domani, domenica 10 settembre, alle ore 21.30, nel cortile delle stele del Museo monumento al deportato, a Carpi (o nella Sala dei Nomi in caso di maltempo).

Scuola24: Non si lasci alla tecnica la politica universitaria

In Italia ci sono pochi laureati. Siamo al penultimo posto in Europa. In particolare, è laureato il 24,8% dei giovani tra i 25 e i 34 anni, il 10,2% in meno rispetto alla media europea. In termini assoluti, rispetto all’Europa, mancano all’appello ben 700.000 giovani laureati italiani. Su questi dati, già sconfortanti, pesa poi il background economico e sociale della famiglia di provenienza che influisce, più che in altri paesi, sulla possibilità dello studente di intraprendere e concludere una soddisfacente carriera universitaria. Eppure la laurea conviene. I dati del Consorzio Almalaurea mostrano che è comunque più facile trovare lavoro e avere una retribuzione più adeguata (pur essendo gli stipendi italiani mediamente bassi) se, oltre al diploma, si possiede una laurea. Meglio ancora se magistrale e non solo triennale. E’ in questo contesto che si inserisce il dibattito sugli sbarramenti posti all’iscrizione all’università, quel “numero chiuso” sempre più spesso esteso dagli atenei anche ai corsi di laurea per i quali non è previsto per legge (Medicina, Odontoiatria, Veterinaria, Professioni sanitarie, Architettura e Scienze della Formazione). Dibattito rinfocolato in questi giorni dalla decisione del TAR Lazio, a seguito di un ricorso dell’associazione studentesca UDU, di sospendere il provvedimento dell’Università di Milano che aveva istituito il numero chiuso in diversi corsi di laurea di area umanistica (Filosofia, Lettere, Scienze dei beni Culturali, Scienze umane, dell’ambiente, del territorio e del paesaggio, Storia, Lingue e letterature straniere).
Siamo insomma di fronte ad una contraddizione tutta italiana: abbiamo pochi laureati – cioè poche persone con formazione terziaria in grado di affrontare con le necessarie competenze culturali e professionali le sfide della modernizzazione e della globalizzazione – e, contemporaneamente, restringiamo l’accesso ai corsi di laurea. Da dove nasce questa contraddizione? Come risolverla? Innanzitutto è necessario portare all’università anche i giovani che provengono da famiglie poco abbienti, superando quegli ostacoli di natura sociale ed economica che, soprattutto nell’ultimo decennio di crisi economica, li hanno allontanati dal percorso universitario. L’ultima legge di bilancio ha così introdotto un pacchetto di misure, il cosiddetto “Student Act”, che dall’anno accademico 2017/18 consentiranno l’iscrizione gratuita ai giovani a basso reddito e calmiereranno le tasse universitarie per quelli a medio reddito. Inoltre, sul versante delle borse di studio, si è intervenuti sia sugli stanziamenti che sulle regole di assegnazione, di modo che esse saranno più numerose e, soprattutto, più coerenti con i fabbisogni territoriali.
Ora però è altrettanto necessario intervenire sulle cause che hanno portato a far diffondere sempre più nel tempo i corsi di laurea a numero chiuso. Per la verità, non vi sono singole cause ma una serie di concause o, se si preferisce, il “combinato disposto” di varie norme introdotte dal 2008 e, in particolare, in attuazione alla legge 240/2010, nota come Legge Gelmini. Il blocco parziale del turn over del personale, che agisce dal 2008, sia pure con quote decrescenti anno dopo anno, ha comunque prodotto l’uscita per pensionamento dal sistema universitario, senza rimpiazzo, di oltre un quinto dei docenti universitari. Poco meno di dodicimila posti sono rimasti scoperti e tali rimarranno perché, se non si interverrà con nuove norme, dal 2018 in poi le università potranno assumere ma in misura non superiore alle cessazioni. E senza professori, si sa, non si fa università. Serve assolutamente, quindi, un piano straordinario di nuovi ingressi nel corpo docente, rispondendo alle attese delle università, degli studenti e dell’enorme fascia di precariato giovane e competente che si è accumulata in questi anni. La cura dimagrante ha avuto effetti ancora più gravi (e distorsivi) perché è stata accompagnata dal meccanismo dei “punti organico”. Senza attardarsi in tecnicismi, si può dire che è il Ministero a determinare direttamente ogni anno le possibilità assunzionali di ciascun ateneo, sulla base di alcuni parametri di varia natura che solo in parte tengono conto delle risorse finanziariamente disponibili. Il risultato è che si interviene pesantemente nella programmazione autonoma dei singoli atenei e, non di rado, si impedisce ad alcuni di poter assumere docenti pur avendo questi a disposizione le risorse sui propri bilanci per retribuirli, ma non dispongono dei punti organico necessari. E’ un problema che va affrontato alla radice, restituendo agli atenei l’autonomia finanziaria e budgetaria che fu loro concessa nel 1993 e mai abrogata e che, tra l’altro, non rappresenterebbe alcun aggravio per le casse dello Stato. Peraltro, il decreto legislativo n. 49/2012, che disciplina la programmazione, il monitoraggio e la valutazione delle politiche di bilancio e di reclutamento degli atenei, contempla già una serie di strumenti di controllo e di sanzioni utili a far rispettare da parte degli atenei l’equilibrio dei bilanci.
Alla forte contrazione della platea di docenti molte università hanno risposto cercando di limitare il numero di studenti che si possono iscrivere, in modo da non aumentare eccessivamente il rapporto studenti/docenti e il carico di lavoro dei docenti, a scapito della qualità della formazione e della ricerca. Ma è scattata anche un’imprevista conseguenza dell’introduzione del “costo standard per studente”, che serve a ripartire una parte cospicua del fondo di finanziamento ordinario delle università statali (per l’esattezza, nel 2017, 1 miliardo e 285 milioni di euro sui 7 miliardi complessivi del fondo), combinata con i cosiddetti “requisiti minimi di docenza” in rapporto alla “numerosità di riferimento e massima degli studenti” per corso di studi (differenziati per i raggruppamenti disciplinari di area medico sanitaria, scientifico-tecnologica e umanistico-sociale), definiti dal decreto ministeriale sull’accreditamento dei corsi di laurea (n. 987 del 12 dicembre 2016), uno degli ultimi firmato dalla Ministra Giannini.
Sia il costo standard sia i requisiti minimi e le numerosità degli studenti sono meccanismi giusti e necessari ma non possono essere applicati sulla base di valutazioni puramente tecniche, poiché i loro effetti sono immediatamente e eminentemente politici. Con gli attuali meccanismi può capitare che un corso di laurea non possa essere accreditato e debba essere soppresso, non perché si sia dimostrato di scarsa qualità ma perché, ad esempio, ha un docente di ruolo in meno rispetto ai numerosità di riferimento degli studenti a causa del blocco del turn over. E, si badi, i parametri sono eguali in tutta Italia, in un grande ateneo al centro di territori popolosi e ben infrastrutturati come in un piccolo ateneo ubicato in territori marginali e svantaggiati!
Con un decreto-legge del giugno scorso, la Ministra Fedeli è riuscita a correggere alcuni aspetti del costo standard, ovviando ai diversi problemi emersi nei primi anni di applicazione, determinati proprio dall’algoritmo di calcolo (di nuovo la tecnica!). In particolare si è intervenuti per evitare che un ateneo riceva, in termini di costo della docenza, un finanziamento maggiore per ogni studente di area scientifico-tecnologica rispetto a quello che riceve per lo studente di area umanistica, sebbene il numero di docenti necessari per ottenere l’accreditamento sia il medesimo. Come conseguenza di questo algoritmo, non certo di una scelta politica, si indirizzano inevitabilmente gli atenei a dedicare maggiore attenzione verso i corsi di laurea di carattere scientifico-tecnologico. Certo, sappiamo che l’attuale sistema produttivo e l’innovazione tecnologica richiedono un maggior numero di giovani con ottime competenze scientifiche e tecnologiche, ma questo obiettivo dev’essere raggiunto con una specifica strategia politica e, soprattutto, con investimenti mirati, non semplicemente spostando risorse a danno dei saperi umanistici e di chi vi si dedica. Occorrono quindi investimenti maggiori di quelli inseriti nella legge di bilancio per il 2017, che pure ha sostenuto finanziariamente le attività di orientamento pre-universitario in modo che ciascun diplomato possa scegliere il corso di laurea più adatto alla propria preparazione e più in sintonia con le proprie aspettative.
Resta ora da intervenire sui requisiti minimi di docenza e sulle numerosità di riferimento degli studenti, nonché su alcune delle novità introdotte dal citato decreto Giannini. Tra di esse vi è quella che, probabilmente, ha maggiormente influito sulla scelta – a mio avviso comunque sbagliata – dell’ateneo ambrosiano. Cioè il divieto di attivare nuovi corsi di studio, in qualunque disciplina, se prima non si è ottemperato a rispettare i requisiti minimi di docenza per tutti gli altri corsi. Traduco: superata la numerosità massima di studenti iscritti prevista dal decreto, occorre aumentare in proporzione anche i docenti assegnati a quel corso. La norma ha una sua logica, tesa a garantire agli studenti una didattica adeguata anche nel numero di docenti. Ma, se si scende dalla teoria alla pratica, emergono alcune conseguenze perverse. Ad esempio, se al corso di laurea in Storia si iscrivono troppi studenti rispetto alla numerosità massima fissata dal decreto, l’ateneo interessato deve destinarvi o assumere nuovi docenti di ruolo da assegnare al corso di Storia. Se non li ha a disposizione e se non li può assumere – perché ha pochi “punti organico” o ha già deciso di destinarli ad altri settori disciplinari, magari di carattere scientifico, per i quali riceve(va) un finanziamento per studente maggiore in base al costo standard – la sanzione è che quest’ateneo non può attivare nessun nuovo corso di laurea. Per non impantanarsi, non gli resta altra scelta che bloccare le iscrizioni a Storia.
Riassumendo, sono certamente necessari e urgenti nuovi investimenti nel settore universitario, a partire dalla prossima legge di bilancio. Ma è altrettanto urgente e necessario valutare attentamente gli effetti degli atti amministrativi emanati nel tempo in ottemperanza della legge Gelmini o di altre leggi e “raddrizzarli” là dove hanno avuto come effetto di indebolire l’offerta formativa delle università, di limitare la loro autonomia, di allontanare studenti desiderosi di alta formazione. A cominciare dai vari, successivi e intricati decreti sull’accreditamento. Come accaduto recentemente per il costo standard, non si tratta certo di scardinare i meccanismi di valutazione della qualità del sistema e di verifica del buon uso dei finanziamenti pubblici, bensì di analizzarne tecnicamente la reale efficacia e, soprattutto, di valutarne politicamente gli esiti effettivi. Così come si è fatto con lo Student Act, occorre rimuovere tutto ciò che concretamente impedisce l’accesso, la frequenza e il successo degli studenti universitari. E’ questa la nuova sfida di politica universitaria che deve essere affrontata e vinta nei prossimi mesi.

Ecco il link all’articolo pubblicato oggi su Scuola24 (link)

 

Gap stipendiale e sessimo

Il lavoro delle donne tra sessismo e gap stipendiale


Per fare girare un’azienda ci vuole un uomo, non importa se solo virtuale, i clienti si rassicurano e gli affari decollano. E’ la paradossale, ma anche emblematica, conclusione a cui sono arrivate due giovani intraprendenti americane fondatrici di un sito di e-commerce. Facendo firmare e-mail e proposte da un fantomatico Keith, le risposte fioccavano veloci e nessuno si permetteva battute su inviti a cena o il benevolo appellativo di “ragazzo”. Il sessismo nel mondo del lavoro continua a essere una pratica consolidata, nonostante le battaglie condotte dalle donne e gli indubbi passi avanti compiuti negli ultimi decenni. Complice anche la crisi economica globale che ha reso più precarie le vite nelle fabbriche come negli uffici, il gap di genere nel mondo del lavoro si è allargato e l’Italia non fa eccezione. Secondo il World Economic Forum, che ha steso l’ennesimo “Gender gap index”, nel 2016, l’Italia è scivolata al 50esimo posto (su 144 Paesi presi in considerazione) per le disparità di genere in senso lato, ma nello specifico del mondo del lavoro rotoliamo al 117esimo posto al capitolo “opportunità economiche” e siamo addirittura 127esimi per la differenza retributiva a parità di mansioni. Detto in soldoni (o meglio in soldi), la disparità si traduce in 3mila euro l’anno di meno guadagnati dalle donne, pur facendo lo stesso lavoro degli uomini, 11mila a livello dirigenziale (tra la minoranza di donne che riescono a salire i gradini delle gerarchie aziendali, si intende). Eppure tutti gli studi macroeconomici ci dicono che una delle leve per far ripartire l’economia è proprio quella di una presenza massiccia delle donne nel mondo del lavoro: crescono i redditi delle famiglie, si allargano i consumi e il bisogno di servizi. Questo se vogliamo quantificare solo gli aspetti economici, perché è difficilmente misurabile, praticamente incommensurabile, l’altro grande obiettivo che verrebbe raggiunto: la possibilità per ogni donna di realizzarsi compiutamente come persona, non solo capace di cura, ma soggetto attivo della società a cui apporta competenze, energie e possibilità di ulteriore sviluppo.

Libri e archivi, bene l’avvio della libera riproducibilità

Questi primissimi giorni di applicazione della norma sembrano andare nella giusta direzione: al momento è stato segnalato solo un caso – già comunicato al Ministero per i beni culturali – di un grande istituto nazionale che ha impedito la riproduzione di un bene librario secondo le nuove regole. Da martedì, 29 agosto, infatti, è entrata in vigore la norma del Decreto concorrenza che consente la libera riproduzione, gratuita e senza necessità di autorizzazioni preventive, di documenti e contenuti di libri conservati in Biblioteche e Archivi, se eseguita per finalità di studio e ricerca – e, comunque, non per fini di lucro – nel rispetto della normativa sul diritto d’autore e della riservatezza dei dati sensibili (ecco il link). Per riprodurre un documento, infatti, basta ora utilizzare uno smartphone o una macchina digitale, avere cura di non appoggiare l’apparecchio al documento e non usare flash, treppiedi o scanner. Libera è divenuta anche la divulgazione del materiale raccolto con queste modalità. Non sarà quindi più richiesto un canone di riproduzione e non si dovrà più ricorrere ai servizi di ditte private, con evidente risparmio di tempo e denaro. Se si avesse notizia che in qualche istituto pubblico la liberalizzazione non viene applicata si prega di darne avviso, al fine di sollecitare l’attuazione della nuova norma, attesa da anni dai ricercatori e dagli studenti, poiché ne semplifica di molto l’attività. Ora che la liberalizzazione delle riproduzioni è legge dopo un lungo iter parlamentare, grazie anche alla mobilitazione del movimento Foto libere per i beni culturali, occorre vigilare affinché il provvedimento venga applicato uniformemente negli archivi e nelle biblioteche pubblici e in modo da non ostacolare inutilmente il lavoro di studiosi e ricercatori. A questo scopo, sarebbe utile trasferire i contenuti della mozione del Consiglio Superiore del 16 giugno 2016 sulla riproduzione dei beni bibliografici e archivistici in un atto amministrativo del Ministero per i beni culturali. La mozione, infatti, sancisce inequivocabilmente l’equivalenza tra consultazione e riproduzione nei casi ammessi dalla legge, sollecita il rilascio gratuito di riproduzioni digitali di un bene se già disponibili presso l’istituto, promuove forme di scambio tra gli studiosi di informazioni e riproduzioni utili all’attività di ricerca attraverso i canali della rete, ma soprattutto individua importanti facilitazioni nella pubblicazione di immagini di beni culturali nell’ambito dell’editoria scientifica. Proposte che agevolerebbero la ricerca e sosterrebbero concretamente l’idea di “bene comune” del nostro patrimonio culturale

La bufala della patente regalata agli immigrati e le “notizie” a senso unico dei social

La “notizia” (non a caso tra virgolette) è vecchia di molti mesi, eppure, nonostante evidenti e pacchiane mistificazioni, nel carpigiano sta circolando con virulenza e semina dubbi anche nelle persone più avvedute. La patente regalata agli immigrati, con tanto di bonus punti aggiuntivi rispetto agli automobilisti italiani, è una bufala. Molte le prove (non indizi!) che lo attestano e una assenza “sospetta”: nessun riferimento al numero del provvedimento che dovrebbe contenere la norma. Eh, in questo modo sarebbe troppo facile smascherare la bufala, dato che non esiste alcun atto legislativo di questo tipo! Ma torniamo alle “prove”. Non è vero che il Senato ha approvato un tale provvedimento approfittando del clamore per il sisma: se si trattasse di quello di Ischia, è noto che il Senato è chiuso per tutto il mese di agosto. Ma poiché questa bufala è del gennaio scorso, forse ci si riferisce all’ultima scossa che ha devastato il Centro Italia; ad ogni modo, ogni seduta del Senato è pubblica mediante ripresa TV e ogni parola pronunciata è stenografata e riportata nel verbale, pertanto quanto accade in quell’assemblea (al pari della Camera) non può avvenire in “camuffa”. I senatori (del Senato non modificato dal voto sul referendum costituzionale) sono 315 in totale, a cui si aggiungono i senatori a vita: quindi come avrebbero potuto, secondo voi, votare a favore in ben 303 e 116 contro? Il Codice della strada non prevede alcun articolo 126 ter (la verifica è molto facile da fare in rete). La norma, poi, non è neanche verosimile: chi si assumerebbe i costi di un provvedimento così illimitato? E come mai non si è levato un grido di protesta da parte delle autoscuole? E poi perché assegnare più punti? Domande che non possono trovare risposta perché “il fatto non sussiste”. Ma un’altra domanda, nel frattempo, sorge spontanea: perché in tanti sono disposti a credere l’inverosimile o perlomeno a farsi prendere dal dubbio che l’inverosimile accada? Sicuramente il discredito di cui gode la politica ha un peso determinante, ma non può giustificare l’adesione incondizionata ad una bufala, fatta di una accozzaglia di imprecisioni e distorsioni della realtà. Emblematico il caso recentissimo della foto taroccata con due miliardari come il campione sportivo Magic Johnson e l’attore americano Samuel L. Jackson, seduti su una panchina a Forte dei Marmi, fatti passare per migranti, con vestiti firmati a spese dello Stato italiano. Una responsabilità nel costruire mentalità a senso unico ce l’hanno anche i social i cui algoritmi, pensati per uno scopo commerciale (ti faccio vedere proprio il paio di scarpe di tuo gusto, simili a quelle che hai cercato in rete la settimana scorsa), propongono a chi la pensa in un certo modo solo informazioni o notizie (verificate o meno, poco importa) che ti confermano nelle tue convinzioni. Occorre sottrarsi a queste trappole, occorre aprire la mente, occorre coltivare il dubbio e la curiosità di capire come davvero stanno le cose, magari spendendo qualche minuto del proprio tempo per fare qualche ricerca (sarebbe bastata.una verifica in rete sul Codice della Strada o sul numero dei senatori…). Ne va dalle nostra democrazia e del nostro vivere in comunità. Se no, a breve, crederemo che gli asini volano e che la Terra è piatta e il Sole gira intorno ad essa. Giuro, l”ho letto su Facebook!