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E’ l’”unità” il grande valore che ci ha lasciato in eredità la lotta per la Liberazione

A distanza dal 25 aprile 1945, non c’è anniversario in cui qualcuno non si interroghi sul significato di celebrare ancora la Liberazione del Paese dal dominio nazi-fascista, paventando il rischio di una rievocazione che sfuma nella nostalgia e nella retorica oppure nell’ideologia. E ogni anno, la cronaca e il dibattito politico ci offrono nuovi spunti di riflessione che, a mio avviso, confermano la necessità della celebrazione del 25 Aprile, per onorare pubblicamente il valore etico della sua eredità, che può condensarsi una parola: l’unità. Una unità non di facciata ma di sostanza, che a dispetto delle differenti sensibilità e opinioni, nei momenti più difficili della nostra storia Repubblicana – dalla guerra fredda al terrorismo e ai tentativi più recenti di revisionismo – ha rappresentato l’ideale a cui tendere e a cui rimanere saldamente ancorati. Auspico, anzi sono quasi certa, che è quello che ci ricorderà e verso cui ci esorterà il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, domani, a Carpi, in occasione delle celebrazioni per il 72esimo anniversario della Liberazione. Il grande insegnamento della Resistenza e della lotta di Liberazione è proprio questo, l’aver saputo mettere da parte i motivi di divisione per far prevalere le ragioni dello stare insieme per costruire una comunità libera, democratica e più giusta.
PS: Dimenticarlo, come mi pare sia accaduto a Roma, da parte dell’ANPI e del PD, è un errore al quale si può ancora rimediare.

Vandali Carpi, l’alto costo sociale di comportamenti “da videogioco”


Venerdì mattina, quando andai al Meucci appena appresa la notizia dell’atto vandalico cui era stato oggetto l’istituto, negli sguardi dei docenti e degli studenti che si aggiravano nei pressi dello stabile colsi lo stesso sgomento che mi colpì nel vedere tanta devastazione inferta volontariamente. Uno sgomento dovuto alla impossibilità di comprendere le ragioni che possono spingere qualcuno a generare una tale distruzione fine a se stessa (i danni alla scuola ammontano a 70mila euro circa). Lo sgomento aumenta, oggi, nell’apprendere le motivazioni che gli autori di questo scellerato gesto – tutti giovanissimi, figli di famiglie di immigrati, studenti di istituti di carpigiani – avrebbero rappresentato agli inquirenti: sarebbero stati spinti dal tentativo di ricreare, dal vivo, un videogioco popolare (che spopola da anni tra i giovanissimi e sulla cui opportunità di commercializzazione forse dovremmo cominciare a ragionare) che prevede siano rubati degli automezzi a caso, si facciano quanti più danni possibili cercando di sfuggire alla polizia per poi vantarsi delle “prodezze” compiute. Nella realtà, le forze dell’ordine con celerità (anche grazie alle numerose telecamere che hanno permesse di seguire puntigliosamente tutto il percorso di questa “notte brava”) hanno portato avanti il lavoro investigativo e hanno individuato i responsabili; i 5 mezzi rubati sono quelli del trasporto pubblico e sono stati pesantemente danneggiati (tanto da dover essere tutti sostituiti); quanto scritto dai ragazzi sui social sarà usato a supporto dell’accusa. Come è possibile che a 15/16 anni qualcuno non riesca a distinguere, come direbbe Ligabue, tra “palco e realtà”? Non voglio avventurarmi nel campo della psicologia d’accatto e della generalizzazione: ci sono coetanei, italiani e non, dei ragazzi arrestati che hanno ben chiaro il senso di responsabilità e il limite delle proprie azioni, senza rinunciare all’esuberanza giovanile e senza confondere la lotta alle convenzioni con il sovvertimento delle regole della convivenza. Non possiamo comunque restare indifferenti al fatto che sfidare la noia come se si fosse dentro un videogioco sta causando morti e feriti in Italia e in Europa: quelli che si fanno i selfie con i treni in corsa, quelli che si lanciano da balcone a balcone, quelli che si arrampicano ad altezze pericolose… per non parlare degli orrori estremi, come quelli che sterminano la famiglia per una misera eredità (è accaduto anche di recente nel ferrarese). Da appartenente alla “comunità educante” (poco importa che io non abbia figli: quanto accaduto interpella tutti!) mi chiedo cosa possiamo fare, a partire anche da una sanzione che sia sì esemplare, ma anche riabilitativa e realmente rieducativa, perché tutti, dall’età adolescenziale abbiano piena consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni, poiché è altissimo il costo sociale di comportamenti “inconsapevoli”. C’è evidentemente molto da fare, nella scuola e nelle famiglie, che paiono sempre più come fragili gusci di noci tra i marosi della quotidianità.

Liberazione: prevalse l’etica civile di valori quali pace, libertà e giustizia

Ecco il testo del mio intervento di oggi, sabato 22 aprile, a Novi di Modena in occasione delle celebrazioni per il 72esimo anniversario della Liberazione del Paese:

Signora sindaca, autorità civili, militari, partigiani e combattenti, care cittadine e cari cittadini,
il 22 aprile 1945, 72 anni fa, come gran parte della provincia modenese Novi veniva liberata finalmente dalla dittatura nazista e fascista.
I testimoni raccontano di una giornata ventosa, per certi versi indecifrabile. Gli scontri a fuoco proseguirono per tutto il giorno, tra tedeschi e fascisti e i partigiani insorti, fino a quando in serata arrivò la colonna motorizzata americana. E allora si capì che la guerra era finalmente finita.
Il 25 aprile, giorno della Festa nazionale, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella onorerà il nostro territorio della sua presenza. Le sue riflessioni, immagino, si riferiranno al valore unitario di questa giornata – aspetto fondamentale e troppo spesso appannato dal dibattito pubblico – e sul senso etico della lotta di Liberazione. Visiterà anche l’ex campo di transito di Fossoli – un luogo straordinario, troppo a lungo sottovalutato rispetto al suo valore simbolico perché è il condensato materiale delle grandi tragedie e vicende del ‘900, prima campo di prigionia militare, poi di transito per ebrei e oppositori politici al regime verso i campi di concentramento e di sterminio nazisti, poi, dopo essere stata la sede della straordinaria esperienza di Nomadelfia di don Saltini, fu per oltre vent’anni ricovero e residenza dei profughi dalmati e giuliani, tanto da essere noto come villaggio San Marco. Un luogo che condensa in sé i buchi neri della nostra storia recente e che ogni giorno che passa ci invia un muto messaggio di non dimenticare ciò che è stato. A tutti noi tocca raccogliere quel messaggio e dargli voce. È una visita importante quella di martedì, che segue, finalmente, il tangibile e concreto interesse dello Stato nel Campo, grazie ad un finanziamento – il primo della storia repubblicana – voluto dal Governo.
Vittorio Foa scrisse che il giorno della liberazione fu “un’ondata irresistibile di gioia in tutto il Paese”. Riuscite ad immaginare cosa significò quel giorno, dopo aver vissuto la ventennale dittatura fascista e l’occupazione nazista, che negli ultimi mesi del conflitto si era fatta più feroce, più accanita, più fanatica? Sì, immagino che davvero sia stata una irresistibile, e progressiva ondata di gioia mano a mano che si aveva la consapevolezza di aver riconquistato o conquistato diritti di cittadinanza persi o mai goduti. Una condizione, semmai, che facciamo fatica a immaginare, oggi. E questo è uno dei problemi delle democrazie mature, cioè dare per scontata che la libertà, l’autodeterminazione, il rispetto degli altri siano condizioni date per sempre. Ma non è così. Così come non è una condizione naturale la Pace, che invece è condizione costruita, determinata dalle scelte politiche. L’Unione europea è stato il pilastro che ci ha permesso il più lungo periodo di pace mai conosciuto, ma i venti internazionali di guerra non sono mai soffiati così forte, mentre nella casa comune europea combattiamo il fenomeno destabilizzante degli attacchi terroristici.
Violenza di oggi. E violenza di settant’anni fa.
Le cronache dal ’43 al ’45 riferite al territorio modenese riportano una raccapricciante catena di stragi e violenze, una repressione spietata contro i partigiani e i resistenti, e verso la popolazione civile, oggetto di rappresaglie e di rastrellamenti. Una violenza stragista impiegata per fiaccare moralmente l’intera popolazione e per fare terra bruciata intorno ai partigiani, ma nella Prima zona non raggiunsero l’obiettivo: il movimento partigiano ebbe qui vaste dimensioni e godette di un diffuso consenso popolare che consentì di affrontare vere e proprie battaglie campali, come quella di Rovereto del 17 marzo 1945, definito il “giorno più lungo” della guerriglia partigiana della I zona, nel quale la resistenza locale dimostrò tutta la sua maturità militare, etica e politica, nonché il suo profondo radicamento sociale. Peccato non avere il tempo per raccontare questi episodi della Lotta di Liberazione, citarne i singoli fatti, ricordarne i protagonisti come antidoto alla retorica, alla opacità che inevitabilmente si posa su eventi lontani, per ridare vita ad uomini e donne di altre generazioni – i nostri nonni e bisnonni – che hanno fatto scelte importanti, hanno preso decisioni coraggiose, soprattutto hanno anteposto l’interesse di tutti all’interesse personale. Così è stato per Nevio Scannavini, Albano Modena, Savino Forti, Eva Frattini e Remo Nasi – i cinque patrioti che persero la vita nel combattimento di Rovereto, eroi loro malgrado – il cui l’impegno civile, portato alle estreme conseguenze, dobbiamo saper rinnovare, poiché la loro vita è la testimonianza di persone semplici e straordinarie allo stesso tempo, che non si sono sottratte alla responsabilità di agire per il bene comune, che si sono ribellate all’oppressione e alla dittatura spinti dal desiderio di giustizia, dalla necessità di ridare dignità a sé stessi e all’intero popolo italiano. Quante vittime. Quanti lutti. Tra gli oltre 150 caduti partigiani della Prima zona si contano soprattutto giovani, dalle storie personali molto diverse eppure esemplari – per dirla con le parole di Galante Garrone – di quel “rapidissimo risveglio e trapasso di una generazione dal sonno della servitù alla lotta per la libertà”.
Molti, in questa piazza, non hanno vissuto i tragici eventi che precedono la Liberazione, ma ne hanno raccolto la testimonianza diretta da chi ne è stato protagonista, da chi ha subito la violenza, da chi ha provato l’indignazione per i soprusi subiti e la dignità umana calpestata, e da chi, decise di scegliere il campo opposto ai nazifascisti secondo il dettato della propria coscienza, per dare al Paese una nuova stagione, quella della democrazia, dei diritti, della libertà, del rispetto della persona.
Ma i protagonisti di allora, inesorabilmente, ci stanno lasciando e non possiamo permetterci che si disperda la memoria di quanto accadde, di chi si fece partigiano e resistente sulla spinta di un dovere avvertito come naturale e impellente o, come dice Garrone, “di una istintiva necessità d’agire” per sete di giustizia e di equità sociale, per far trionfare la ragione e la civiltà in tempi di barbarie.
Non possiamo far cadere nell’oblio chi scelse di resistere e pagò con la propria vita “affinché tutti avessero le ragioni di vivere da uomini”: sono parole di Francesco Berti Arnoaldi scritte per ricordare l’amico Giuliano Benassi, giovanissimo partigiano arrestato, deportato in Germania e mai tornato, e rendergli onore “nell’unico modo che conta: facendolo conoscere nella lotta per la liberazione perché gli “altri” (i liberati) si ricordino sempre da quali sacrifici nasce questa cosa che pare così naturale, il vivere liberi.”
È questo anche il senso profondo della bella e importante iniziativa voluta dalla presidente Boldrini che, due anni fa, ha aperto le porte dell’Aula a Montecitorio per una solenne celebrazione del Settantesimo della Liberazione. È stato bellissimo vedere quelle donne e quegli uomini, i loro capelli bianchi e i volti segnati dal tempo, emozionati dall’invito, con i fazzoletti al collo delle diverse associazioni intonare Bella Ciao!
Analogo spirito ha mosso l’iniziativa parlamentare, raccolta dalla ministra della Difesa, Roberta Pinotti, di consegnare un attestato accompagnato da una medaglia a tutti i partigiani e patrioti, prima i viventi e poi ai parenti degli scomparsi, nel corso di tante iniziative locali che si sono tenute nel corso degli ultimi 2 anni: anche questo, non dimentichiamolo, è il primo ringraziamento ufficiale che lo Stato ha rivolto a chi 72 anni fa decise di scegliere la parte della Libertà contro la dittatura.
Sono stati, anche questi, momenti molto partecipati, intensi emotivamente, nel corso dei quali abbiamo dato ma, soprattutto abbiamo cercato di raccogliere il testimone dei resistenti per trasformarlo in virtù civiche, in futuro di solidarietà, di equità, di giustizia, una sorta di bussola per orientarci nelle scelte attuali. Il direttore del Museo di Auschwitz, afferma che la visita al campo di sterminio “deve essere uno strumento affinché chi è venuto qui sia capace di porsi domande e reagire quando tornando a casa vede scene di genocidio nel Darfur o sente un discorso razzista contro i rom”. Ecco, l’esercizio della memoria non è collezionare ricordi, ma attualizzare la lezione del passato perché la dignità umana sia sempre affermata come valore assoluto, perché i diritti inalienabili delle persone siano rispettati e difesi sempre e ovunque. Anche oggi, nel nostro Paese. Che domande ci siamo fatti, come abbiamo reagito ai manifesti razzisti che Azione frontale, associazione di chiara ispirazione neofascista, ha affisso fuori dai negozi gestiti da cittadini non italiani a Tor Bella Monaca a Roma? Non si tratta di manifesti protezionistici del commercio italiano, ma di “maschere del ventennio nero”, che proliferano indisturbate, in mezzo a noi. Non dovremmo, pertanto, sentirci tutti chiamati in causa?
Complice la crisi economica ma anche per ragioni più profonde il processo democratico, che è per sua natura un fenomeno dinamico, è in affanno. Penso che tutti noi osserviamo con preoccupazione quanto sta accadendo in Europa, dove crescono forze xenofobe e di destra radicale (attendiamo con ansia il test elettorale francese), e in alcuni Paesi forme di fascismo più o meno esplicito sono al potere. Sì, perché fascismo è oggi – come dice Angelo Del Boca – “l’arbitrio in luogo della giustizia, la disciplina subordinata invece alla parità dei diritti, il razzismo e la retorica”.
Nell’Ungheria di Orbàn o nella Polonia di Kaczynski la svolta in senso autoritario è evidente ed è iniziata con l’intaccare la libertà dell’informazione e i diritti delle minoranze. Questa storia ci riguarda, perché sono due Stati membri dell’Unione europea, della nostra casa comune, che mostra i segni evidenti di una fragilità strutturale e di progetto, che pare derivare dall’aver dimenticato gli ideali post bellici su cui è nata, di solidarietà, di progresso, di libertà, di coesione sociale. Il fascismo, poi, non nasce dal nulla ed è una malattia contagiosa, che non ha confini, che si propaga e si sviluppa se si indeboliscono le difese democratiche, nel senso più profondo e reale di cos’è la democrazia. E la democrazia è soprattutto limite. Limite al potere di qualcuno per garantire il diritto di altri. Limite alla prepotenza per garantire i deboli. Limite alla concentrazione dei poteri perché solo nella loro separazione la democrazia vive.
Ma oggi la democrazia, in Europa e nell’intero mondo occidentale è stretta tra l’incudine della crisi economica e sociale con le sue pesanti ricadute su lavoratori, famiglie, imprese, e il martello dell’antipolitica e delle forze antisistema, che non sono interessate a valutare le diverse responsabilità ma tese a scardinare il sistema di rappresentanza politica. Gli esiti possono essere perversi: pensate che i sostenitori trasversali di Trump dicevano “basta con l’establishment” e ora si trovano un’Amministrazione di banchieri, industriali, militari e sull’orlo di un conflitto mondiale. Non è la prima volta che accade. Gli stessi ingredienti li ritroviamo nella nostra storia dopo la Prima guerra mondiale e furono quegli elementi a generare le condizioni favorevoli alla nascita e allo sviluppo del fascismo. In un saggio di Chapoutot, che analizza le ragioni del consenso popolare al nazismo, si legge: “La crisi economica, tra le altre cose, ha fatto cadere nelle braccia del partito nazionalsocialista legioni di persone socialmente declassate che hanno trovato nelle SA un orgoglio, una missione, un capo, dei compagni, nonché un discorso “rosso-bruno” correntemente egualitario e perfino chiaramente rivoluzionario… L’adesione alle Sa permette dunque di riconquistare, di fronte alla crisi e ai guai del momento, gli elementi di una identità messa a dura prova dal dramma sociale della disoccupazione.”.
Due questioni attraversano queste poche righe, come ha rilevato recentemente Walter Veltroni: identità e sicurezza sociale. Questioni di attualità ieri e oggi. Questioni che nel Novecento furono affrontate in modo da determinare il buco nero della Storia dell’umanità. Ma questo è esattamente il campo di scontro delle imminenti elezioni francesi, e del dibattito pubblico negli altri Paesi europei, incluso il nostro. Come svuotare e ripulire lo stagno nel quale germinano gli elementi proto-fascisti? Affrontando le sfide che abbiamo di fronte, e dal cui esito dipende la qualità della nostra democrazia.
Rafforzare la troppo debole ripresa economica e il tasso di occupazione, per non drammatizzare le disuguaglianze, compromettere la coesione sociale e minare la garanzia dei diritti; permettere alle autonomie locali e territoriali di fare fronte alle sempre maggiori istanze dei cittadini in un contesto di risorse calanti; valorizzare i talenti, soprattutto dei giovani e delle donne per dare speranza e futuro alle giovani generazioni; contrastare l’ostilità e l’intolleranza per le diversità culturali e religiose che si diffondono anche in nome di una mal interpretata idea di identità, mentre la globalizzazione e i flussi migratori sono ormai fenomeni non più emergenziali ma consolidati; risolvere la crisi dell’etica pubblica, che mina il nostro stesso patto sociale; restituire il senso del ruolo alla politica in un contesto di diffuso discredito delle istituzioni e rifondarla culturalmente “perché è stato l’impoverimento culturale che ne ha segnato la decadenza”. come ebbe a dire l’allora Presidente Napolitano; contrastare le mafie e la criminalità organizzata, che si sta infiltrando sempre più in profondità anche in questi territori; debellare la corruzione che rappresenta, quella sì, un muro invalicabile per chi vuole investire nel nostro Paese.
Sono tutti fenomeni degenerativi che non possiamo ignorare e dai quali dipende la qualità della nostra democrazia e forse la sopravvivenza stessa del sistema democratico. Ma oggi è un giorno di festa. Certo, ci ricorda il buco nero nazi-fascista, la tragedia della II Guerra Mondiale e l’orrore della Shoah, ma è anche un tributo alla speranza.
Nonostante gli orrori indicibili perpetrati nei campi di sterminio, nonostante la perdita delle libertà individuali, la violenza e la sopraffazione, ciononostante, il senso di umanità continuò a pulsare, così come continuò a pulsare la solidarietà e il rispetto per gli altri anche a danno della propria vita, e a pulsare fortemente fu anche quell’etica civile che nella pace, nella libertà e nella giustizia individuava i propri valori, così come testimonia la scelta di tante donne e tanti uomini di Resistere, di dire No alla sopraffazione, alla dittatura, alla paura.
W la Resistenza, W la libertà che ci ha dato!

Vandalismi al Meucci, già avvertito il Ministero, non è banale bravata


Non derubrichiamo a semplice bravata notturna. Le modalità del vandalismo ai danni del parco mezzi di trasporto pubblici e allo stabile che ospita l’Istituto Meucci raccontano di un crescendo di auto-esaltazione degli ignoti autori del raid. Il trasporto pubblico, seppure garantito, subirà ritardi. La scuola dovrà rimanere chiusa per consentirne il ripristino, causando notevoli disagi agli studenti, ai docenti e al personale ATA. Tutta la città deve interrogarsi su quanto avvenuto. Questa mattina sono andata sul posto per esprimere vicinanza e solidarietà alla dirigente Teresa De Vito e a tutta la comunità scolastica del Meucci, una scuola vivace nel panorama locale, con tante iniziative già programmate, tra cui spicca l’accoglimento della prossima sessione regionale del Mep, la simulazione di una seduta del Parlamento europeo. Ho anche avvertito immediatamente dell’accaduto il Ministero dell’Istruzione. Ho parlato, infatti, con il sottosegretario Vito De Filippo che si è dimostrato preoccupato per la dinamica degli eventi e ho sollecitato l’interessamento del Ministero per non lasciare soli la Provincia e l’istituzione scolastica nell’intervento di ripristino dello stabile. Auspico che le forze dell’ordine possano celermente individuare gli autori affinché rispondano dei gravi danni arrecati al patrimonio pubblico, quindi appartenente a tutti noi, procurando anche evidente disagio alle persone che faticano a confrontarsi con tanto accanimento contro una scuola, cioè un presidio educativo e di crescita: motivo che rende ancora più odiosi questi atti, che disprezzano il senso stesso della comunità sociale. Spero quindi in una reazione collettiva su quanto accaduto, a partire da chi nella scuola colpita studia e lavora, a cui diciamo “non siete soli

flebo

Biotestamento, seppur in ritardo, la politica onora la sua funzione


Torno su un argomento già affrontato. Perché stimo Luigi La Spina e condivido la sua riflessione, pubblicata oggi su La Stampa, sulla “prova” che il Parlamento è chiamato ad affrontare con l’approvazione della (seppur tardiva) legge sul testamento biologico. E proprio per questo mi colpisce ancora di più lo scivolone – uso non a caso questo termine – sulla presunta distrazione della politica su di un tema tanto sensibile, rappresentato dall’Aula vuota in occasione della discussione sulle linee generali del provvedimento. Ci torno sopra (ne avevo già parlato su Fb e sul mio blog a ridosso dell’avvio della polemica https://preview.critara.com/manughihtml/2017/03/15/dallaula-vuota-biotestamento-al-parere-sul-decreto-sulla-scuola/) per non lasciare un dibattito così importante a preconcetti frutto di una sommaria conoscenza delle regole di funzionamento della Camera.
Che cos’è la discussione sulle linee generali? Si tratta della restituzione all’Assemblea, in modo che resti agli atti (con tempi contingentati e suddivisi tra i Gruppi), degli esiti dell’esame del provvedimento avvenuto in Commissione. Per regolamento, non vi possono partecipare tutti i deputati che lo desiderano, come avviene invece per il proseguo dell’esame sugli articoli e i relativi emendamenti: pertanto, prendono parte alla discussione i deputati che più di tutti hanno seguito l’iter in Commissione. Ne consegue che, in genere, ad assistere in Aula fisicamente alle discussioni generali sono solo coloro i quali possono effettivamente prendere la parola. Nel caso specifico, comunque, sono intervenuti 18 deputati, appartenenti a 10 diversi Gruppi parlamentari. A memoria non ricordo una tale, nutrita partecipazione in questa fase del procedimento.
Il 28 di marzo, si è poi proceduto al dibattito sul complesso degli emendamenti e sono intervenuti 18 deputati, in rappresentanza di altrettanti Gruppi o componenti. Nel corso della prima sessione di voto sugli emendamenti (il 4 aprile) sono intervenuti ben 41 colleghi (oltre ai relatori di maggioranza e minoranza), molti dei quali più volte. Il giorno successivo, nella sessione mattutina, sono intervenuti in 36, alla ripresa pomeridiana sono stati 27. Molti di loro hanno preso la parola diverse volte. Ora, questi soli nudi numeri (e quindi tralasciando per un momento il merito degli interventi), dimostrano quanto sia immotivato e infondato il giudizio di La Spina, che giudica “scandalosa la distanza della nostra classe politica dagli interessi e dalla sensibilità dei loro concittadini”. Resta un interrogativo (retorico) sul motivo di un giudizio così sommario pur espresso da un commentatore solitamente accorto e scrupoloso, ma la possibile risposta mi porterebbe troppo lontano.
Stamattina è ripreso l’esame degli emendamenti. Siamo ora a quelli al comma 7 dell’articolo 1. Gli interventi si susseguono, anche se si abbreviano nella durata, perché i tempi sono contingentati (come da Regolamento). Insomma, nonostante l’opposizione netta e determinata di molti Gruppi, l’esame della proposta di legge va avanti. È vero: siamo in ritardo di anni rispetto al diritto all’autodeterminazione della persona in merito ai trattamenti sanitari e alle disposizioni anticipate di trattamento. Ma, come dimostra l’approvazione delle norme sulle unioni civili, questa legislatura, senza vincitori e percepita come claudicante già al suo avvio, è quella durante la quale si sanciranno diritti di libertà che attendevano da decenni una regolamentazione nazionale e generale. Confermando non solo la funzione della politica, ma anche il suo primato.
A questo link trovate il pdf dell’articolo di Luigi La Spina uscito su La Stampa di mercoledì 19 aprile
La Stampa – biotestamento

Romano Prodi

Invito alla lettura: Romano Prodi “La prova di forza come nuova diplomazia”


Mentre ancora ricordiamo gli auguri pasquali, l’analisi di Romano Prodi sui venti di guerra ci costringe a non trascurare il contesto internazionale. E a non dimenticare che tutti “insieme” abitiamo la Terra
Ecco il link al pdf dell’articolo del Messaggero di domenica 16 aprile dal titolo “La prova di forza come nuova diplomazia” di Romano Prodi
Romano Prodi

Invito alla lettura: Walter Veltroni su “Sinistra e popolo”


«Il Presidente degli Stati Uniti intervistato da Fox Business spiega la sua decisione di «lanciare 59 missili sull’Iraq». L’intervistatrice lo corregge: «Forse voleva dire sulla Siria, li ha lanciati sulla Siria». «Ah già, sulla Siria». Sembra una sequenza de Il dottor Stranamore o di Una pallottola spuntata e invece è la realtà di questi giorni caotici e pericolosi.» Sì, soprattutto pericolosi. Un invito alla lettura. Ecco il link al pdf dell’articolo che Walter Veltroni ha scritto su l’Unità di domenica 16 aprile dal titolo “Sinistra e popolo”
Sinistra e popolo