Si sa, il buon cinema ci mette di fronte ai problemi dell’Italia in modo più coinvolgente e diretto di quanto non possa fare un rapporto, sebbene autorevole come quello dell’Istat, che fotografa annualmente l’Italia (presentato ieri alla Camera dei Deputati). E’ la piccola impresa in cui riesce un recente film, molto bello, dal titolo “Tutto quello che vuoi”, che, tra le tante suggestioni, ne offre una che riguarda una “piaga” contemporanea – segnalata dall’Istat – che però è avvertita con minore rilevanza sociale di quanto non meriti: cioè quello dei giovani Neet. Chi cela questa sigla? Ben 2 milioni e 200mila giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non si formano e non lavorano. Costituiscono il 24,3% dei loro coetanei (la percentuale più alta in Europa), e appartengono ai gruppi sociali più deboli: giovani disoccupati (41,7 per cento), famiglie a basso reddito, con stranieri (33,2 per cento) e di soli italiani (31,5 per cento). Uno “spreco” sociale e una “dissipazione” di energie e talenti giovanili imperdonabili, per la vita dei ragazzi stessi e per il progresso del Paese. Nel film di Bruni, per 4 giovani trasteverini – anestetizzati ai sentimenti e reattivi alle sole prove di forza – la scossa dal torpore e dal disorientamento rispetto al futuro arriva dall’incontro con un uomo anziano (interpretato da un istrionico Giuliano Montaldo). Quasi un marziano per loro, a partire dal linguaggio, desueto e quindi incomprensibile. Un poeta, un ironico visionario, un uomo cresciuto in fretta per colpa della guerra, che lo ha costretto a scelte giovanili “forti”, dalle quali non si torna indietro e che ti accompagnano come una “Nottola di Minerva”. Un “marziano” che conduce i quattro giovani a riscoprire le proprie risorse interiori, che non sospettavano nemmeno di avere e che li portano finalmente a compiere scelte per cominciare a costruire il loro futuro. Sì, è vero: è solo un film, dal finale agro-dolce. Ma anche la vita vera lo è, agro-dolce intendo. Ecco – e anche l’Istat ce lo dice – quello che dobbiamo fare è costruire per questi Neet opportunità di scelta, di “scossa”, perché il buono, rousseaunianamente parlando, è in ognuno di loro e di noi.
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Almalaurea 2017, come trattenere in Italia le nostre migliori energie giovani
Sono dati nuovi, che confermano fenomeni già conosciuti, comunque utili per assumere politiche universitarie: il rapporto Almalaurea 2017 sul profilo dei laureati italiani ci consegna una fotografia dei nostri giovani sui cui occorre riflettere e ulteriormente intervenire. Sapevamo già, purtroppo, che siamo al penultimo posto in Europa quanto a numero di laureati; che il background economico e sociale della famiglia di provenienza pesa sulla possibilità dello studente di intraprendere una soddisfacente carriera universitaria; che, nonostante gli stipendi siano mediamente bassi in Italia, è comunque più facile trovare lavoro e avere una retribuzione un po’ più adeguata se oltre al diploma si consegue una laurea, meglio se magistrale e non solo triennale. Come ha spiegato l’ex rettore di Bologna Dionigi, presentando i dati, la metà dei nostri giovani è pronta a far le valigie, dopo la laurea, per cercare lavoro all’estero, dove un impiego è più facile trovarlo, ma soprattutto è di gran lunga meglio retribuito. Questa propensione, tra l’altro, viene sempre più anticipata: negli ultimi anni sono state ben 70mila le matricole italiane che hanno deciso di cominciare direttamente all’estero il ciclo di studi universitari, un modo per imparare bene la lingua e integrarsi in anticipo nel Paese scelto. Non è detto che questi giovani tornino in Italia dopo lo studio, anzi è probabile proprio il contrario. Per invertire questo orientamento, occorre fare investimenti nel settore, come si è iniziato a fare nell’ultima legge di stabilità, in particolare con lo “student act”, che ha previsto nuove risorse e introdotto novità importanti – come la no tax area per le fasce sociali più deboli – per sostenere il diritto allo studio. È chiaro, tanto deve essere ancora fatto – a cominciare da quella manutenzione dei servizi di orientamento annunciata dal ministro Fedeli – ma proseguendo sulla strada intrapresa. Si tratta di una questione dirimente per il futuro della nostra comunità: avere giovani preparati e messi nelle condizioni di spendere le loro migliori energie nel proprio Paese è la premessa indispensabile per ogni possibile rilancio della nostra ripresa economico-sociale e, quindi, della nostra qualità di vita.
La selezione della classe dirigente e le peripezie giudiziarie di alcuni politici
Giusto un anno fa, di questi tempi, scrivevo un post sul mio blog dedicato al tema – secondo me cruciale per il futuro non solo nella vita dei partiti, ma anche del valore della rappresentanza politica dei cittadini – della selezione della futura classe dirigente (a questo link https://preview.critara.com/manughihtml/2016/05/05/sulla-questione-morale-sulla-selezione-della-classe-dirigente-sulla-trasparenza/). E lo facevo partendo da tre casi di cronaca che avevano portato tre amministratori, legati al Pd, ad essere o indagati o condannati o arrestati. Sono ancora assolutamente convinta di quanto scrissi allora, del fatto cioè che “la politica, se vuole salvare la propria bellezza, deve essere in grado di selezionare, con modalità stringenti, la propria classe dirigente, a livello territoriale e nazionale”, e che “a chi vuole entrare in politica deve essere fatto lo screening non solo delle competenze, ma soprattutto dei sogni e dei valori”. Il mio era, e rimane, un ragionamento generale che ha trovato, ad esempio, nuova linfa nella recente decisione del confermato segretario nazionale del Pd Matteo Renzi di inserire, in Direzione nazionale del partito, un piccolo plotone di giovani, 20 ragazzi con un’età compresa tra i 19 e i 29 anni. Però, oggi, non volevo tornare tanto sulla questione “selezione della classe dirigente”, quanto piuttosto sui casi di cronaca da cui il mio ragionamento era partito. Su tre casi citati, che all’epoca avevano riempito le pagine dei giornali (il presidente del Pd regionale della Campania Graziano indagato per concorso esterno in associazione mafiosa; il sindaco Pd di Lodi Uggetti arrestato con l’accusa di turbativa d’asta senza finalità di lucro ma per ricavare vantaggi di consenso politico-elettorale e il segretario regionale sardo Pd Soru condannato, in primo grado, a 3 anni per evasione fiscale), ben due si sono risolti con l’assoluzione degli accusati. L’ultima in ordine di tempo è l’assoluzione per Soru che, al Foglio, racconta la sua vicissitudine giudiziaria, durata anni, da cui è uscito totalmente pulito, ma che, nel frattempo, gli è costata danni alla propria serenità personale oltre che economici. Vicenda che, peraltro, una volta conclusasi, ha meritato il consueto trafiletto nelle pagine interne dei quotidiani, quando, un anno fa, aveva guadagnato titoli di prima pagina. E’ successo a Ilaria Capua, è successo ad Renato Soru, è successo a Stefano Graziano. E’ dovere dei giudici compiere indagini per accertare qualsiasi responsabilità e conseguente violazione delle regole: dovere dei commentatori sarebbe quello di sospendere il “giudizio” in attesa del giudizio vero. Se no si rischia di celebrare processi sommari dall’inevitabile sentenza di condanna nelle piazze virtuali del web, aizzati da alcune forze politiche, sulla base dell’equazione “avviso di garanzia uguale condanna certa”. Con un rischio ulteriore, oltre a quello di aver pregiudicato ingiustamente il futuro di una persona: portare un “discredito generale” alla gestione della cosa pubblica ed allontanarne, magari, i più dotati e competenti. A far danno, in questo senso, non sono le indagini dei giudici – sia ben chiaro – ma le sentenze sommarie decretate in anticipo sui tempi dei processi.
Il valore del matrimonio e le “scelte” di vita delle donne
E’ vero che il matrimonio non può essere considerato un investimento economico (ricordate Berlusconi e il suo offensivo “signorina, sposi un miliardario!”), ma il rapporto coniugale si regge su una base mutualistica e solidaristica, anche economica, che non credo si possa semplicemente annullare con la cancellazione del contratto. Sono molte, e diversificate, le questioni sollevate dalla sentenza della Cassazione che muta le regole per la determinazione dell’assegno di mantenimento per il coniuge più debole economicamente eliminando il parametro del “mantenimento del tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio” e virando, invece, sulla capacità di essere autosufficienti. E’ vero che la tutela economica dei figli non viene a meno, ma, forse, la questione va valutata nella sua complessità, come esperienze di vita e casi di cronaca ci insegnano. Vedo che l’associazione “Gruppo Donne e Giustizia di Modena” – a riprova che il problema sollevato è reale – è già uscita con un comunicato che cerca di rassicurare quelle tante donne che oggi si trovano alle prese con un divorzio, soprattutto quelle che, o per libera scelta o in accordo con il coniuge o costrette dalle condizioni familiari o sociali, hanno abbandonato il lavoro, a un certo punto del loro matrimonio, per dedicarsi alla famiglia e ai figli. Rientrare nel mercato del lavoro magari a un’età avanzata, dopo uno stop forzoso e prolungato, senza aver mantenuto relazioni professionali e senza aggiornamento, assomiglia molto più a un incubo che a una semplice opzione di vita. E di questo, auspico, i giudici terranno dovuto conto. Poi, certo, la mentalità generale è cambiata, il matrimonio non è più una scelta eterna, è un accordo tra due persone che, per affettività, decidono di investire in un pezzo di cammino di vita comune. Quel cammino può interrompersi, ognuno potrà intraprendere percorsi diversi, ma la tutela del più debole dal punto di vista economico – che molto spesso, anche se non sempre, è la donna – dovrebbe, comunque, rimanere un punto fermo. E’ proprio di ieri la notizia che il lavoro di una mamma, se fosse retribuito secondo i valori di mercato delle mansioni che svolge, comporterebbe un salario di 3mila euro al mese. Nessuna mamma li vedrà mai, ma che il suo impegno familiare sia così svalutato da essere salutata, a divorzio avvenuto, con un pacca sulla spalla, sembra francamente più che iniquo.
Finalmente la dis-coll anche per i lavoratori della ricerca
Finalmente si riconosce per legge l’attività lavorativa svolta da assegnisti e dottorandi di ricerca. La legge di riforma del lavoro autonomo, approvata in mattinata in via definitiva dal Senato, contiene, infatti, anche una norma, particolarmente attesa, che sancisce un diritto per i tanti giovani che sono impegnati nella ricerca nelle università italiane. La legge rende, infatti, strutturale – a partire dal 1° luglio – la cosiddetta Dis-coll, l’indennità di disoccupazione per i collaboratori (co.co.co e co.co.pro) e ne estende l’applicazione anche ad assegnisti e dottorandi di ricerca con borsa di studio. Per la prima volta, in sostanza, si certifica che anche la ricerca è un lavoro e, quindi, quando quel lavoro si dovesse perdere, il lavoratore ha diritto ad accedere a una indennità di disoccupazione, come le altre categorie di collaboratori. E’ un bel traguardo, a cui, come Partito democratico, abbiamo lavorato con convinzione e pervicacia e ora è finalmente legge.
A questo link il dossier che contiene le norme sulla riforma del lavoro autonomo
194_Statuto lavoro autonomo
Italia Oggi – il nuovo reclutamento chiude con il passato Ma per avere stabilità e continuità il percorso è lungo
Oggi martedì 9 maggio 2017 il quotidiano Italia Oggi ha pubblicato un mio articolo dal titolo “Il nuovo reclutamento chiude con il passato. Ma per avere stabilità e continuità il percorso è lungo” sul nuovo sistema di formazione e accesso al ruolo di docente alle medie e alle superiori. Ecco il testo integrale dell’articolo:
Il nuovo sistema di formazione iniziale e accesso al ruolo degli insegnanti della scuola secondaria opera un mutamento di paradigma: mai più defatiganti precariati a cui seguivano abilitazione e concorso, ma subito un concorso per accertare le competenze disciplinari e poi, solo per i vincitori, un percorso triennale retribuito di formazione, tirocinio e inserimento progressivo nella professione fino all’assunzione a tempo indeterminato.
Molta attenzione ha suscitato la disciplina transitoria, che condizionerà il successo del nuovo sistema se riuscirà a chiudere con il passato con equità, vale a dire avendo riguardo per i diritti degli attuali docenti precari, formati sul campo, dotati di esperienza e spesso in possesso dell’abilitazione all’insegnamento. Si tratta di una sfida complessa, che deve contemperare anche i diritti dei futuri docenti, i «nuovi entranti» nel mondo della scuola, e deve tenere conto dell’estrema diversificazione delle situazioni, per cui in alcune regioni e per alcuni insegnamenti il precariato storico è già esaurito o quasi, mentre in altre regioni e per altri insegnamenti in migliaia hanno già i requisiti per l’assunzione in ruolo.
La fase transitoria si rivolge a quattro categorie di precariato scolastico. La prima è formata dai docenti inseriti nelle graduatorie ad esaurimento (Gae), che hanno maturato il diritto all’assunzione per disposizione della legge 107. La seconda è costituita dai vincitori del concorso del 2016, che accederanno al ruolo sulla base della graduatoria di merito (Gm); a loro si aggiungono, per il periodo di validità della graduatoria, anche gli idonei. La terza categoria è formata dagli attuali abilitati. Queste tre categorie si riferiscono a platee chiuse, destinate ad estinguersi, a differenza della quarta che invece continuerà ad alimentarsi in forme fisiologiche per le necessità strutturali della scuola: ci si riferisce ai supplenti non abilitati che comunque insegnano, in particolare su posti dell’organico di fatto non assegnabili a docenti di ruolo. Gli appartenenti alla terza e alla quarta categoria non hanno maturato il diritto all’assunzione, pertanto la disciplina transitoria prevede che dovranno sottoporsi ad apposite prove e percorsi valutativi e formativi differenziati.
Un cardine di tutta la normativa è, infatti, che non si dà corso ad alcuna sanatoria, ma si graduano le prove e i percorsi di accesso alla scuola a seconda della formazione acquisita e dell’esperienza maturata. Così gli abilitati della terza categoria confluiranno in una nuova graduatoria di merito regionale (Gmr), mentre ai supplenti della quarta categoria, in considerazione dei servizi resi per il funzionamento della scuola per almeno tre anni, sarà riservato, a regime, un concorso biennale per l’inserimento in un percorso di formazione e accesso al ruolo.
Alla graduazione dei percorsi corrisponde quella dei posti riservati ad ognuna delle categorie. Il 50% dei posti vacanti e disponibili è innanzitutto destinato all’assunzione dalle Gae. Via via che esse si svuoteranno (in molti casi lo sono già), i posti residui andranno a disposizione, progressivamente, delle altre categorie. La disposizione transitoria determina poi come saranno utilizzati i posti vacanti e disponibili nei primi quattro anni, dal 2017/18 al 2020/21, al netto di quelli utilizzati per le Gae. Per i primi due anni, si tratta dei posti già banditi dal concorso 2016 e quindi andranno tutti alle Gm (ove fossero già esaurite, si attingerà dalle nuove Gmr). Nei successivi due (fatto salvo lo scorrimento di eventuali Gm ancora vigenti), tutti i posti del 2019/20 e l’80% di quelli del 2020/21 saranno riservati alle Gmr. Infine il 20% dei posti del 2020/21, più quelli eventualmente residuati dalle Gmr, saranno riservati ai supplenti non abilitati, secondo la graduatoria del loro concorso riservato (il primo sarà bandito nel 2018).
I posti vacanti e disponibili del 2021/22, al netto di quelli eventualmente riservati alle Gae, saranno riservati per un massimo dell’80% alle Gmr degli abilitati. Il 60% dei posti restanti (quindi al minimo il 12% dei posti iniziali) sarà riservato ai supplenti non abilitati, mentre l’altro 40% (quindi al minimo l’8% dei posti iniziali) sarà assegnato ai nuovi entranti sulla base del primo concorso che sarà anch’esso bandito nel 2018, in modo che i vincitori possano occupare i posti a loro destinati a partire dal 2021/22, dopo il triennio di formazione e tirocinio.
Queste percentuali saranno via via modificate per i posti disponibili dal 2022/23 in poi. La quota per gli abilitati scenderà dall’80% sino al 20%, che diventerà una percentuale fittizia appena la categoria sarà esaurita. La quota per i supplenti non abilitati scenderà anch’essa dal 60 al 20% a regime. In corrispondenza salirà la quota restante da assegnare interamente ai nuovi entranti.
La transizione per portare stabilità e regolarità a un sistema purtroppo viziato da scelte del passato disorganiche e contraddittorie è necessariamente lunga, ma in grado di garantire ai giovani spazi sicuri e crescenti. Ad esempio, su 100 posti del 2029/30 (banditi con il concorso del 2026), al massimo 20 saranno riservati agli abilitati (se ve ne saranno ancora), al massimo altri 20 ai supplenti non abilitati e quindi almeno 60 ai nuovi entranti. Un sistema di vasi comunicanti che, con lo svuotamento di alcuni e il parallelo riempimento di altri, potrà grantire equità e opportunità a tutti.
A questo link ecco la pagina di Italia Oggi:
Francia-Italia, la forza delle idee
I problemi non sono spariti sebbene, per il momento, sia stato scongiurato il pericolo che a guidare la grande e antica democrazia francese, nata dai principi di “Libertè, Egalitè, Fraternitè”, sia un’esponente nazionalista, populista, xenofobo, razzista… Chi non vede (o non voglia vedere, per opportunità politica) la relazione della Le Pen figlia con la cultura fascistoide (mentre dichiaratamente fascista era il movimento ereditato dal padre) compie un errore grossolano di lettura della contemporaneità, pensando oltretutto che il fascismo sia archiviabile alla voce “incidente irripetibile”. L’elezione di Emmanuel Macron alla presidenza della Repubblica francese consente quel respiro di sollievo che l’Europa, martoriata dalla Brexit e minacciata dal trumpismo, sperava di poter tirare. E con l’Europa, tirano un sospiro di sollievo anche le forze politiche che, nei diversi Paesi, non hanno raccolto la bandiera “antisistema”. Il messaggio sembra essere: il populismo, il nazionalismo, il sovranismo non sono necessariamente destinati a dilagare, nonostante le paure e la rabbia di cui si sono fatti portavoce esistano e siano la traduzione in sentimento viscerale di problemi reali delle persone. E qui cominciano i problemi (anche per Macron). Quale diga costruire contro i dilaganti -ismi? In altre parole, quali risposte dare a questi problemi reali, tenuto conto anche del deficit di credibilità della classe dirigente (si veda a questo link) dai politici ai sindacalisti, dai giornalisti agli esponenti del mondo culturale, dai professionisti ai magistrati? E tenuto conto, come dimostra anche il voto francese del primo turno (che vedremo fra un mese se le legislative confermeranno) e, in qualche modo anche quelle americane, che sono le “passioni forti” a polarizzare le preferenze degli elettori. O meglio, sono le proposte “radicali” e nette, inclusa quella europeista di Macron, e la lontananza da un partito direttamente riferibile alle tradizionali famiglie politiche. Questo spiega anche l’alta astensione e i milioni di voti nulli e di schede bianche al ballottaggio francese, ma è fenomeno anche italiano: gli elettori, pure al doppio turno, mostrano sempre più intransigenza sulla rappresentanza, la quale o coincide perfettamente con le proprie attese oppure non è attribuita. Questo però costituisce anche il fallimento della mediazione e delle alleanze, di cui occorrerebbe salvare e valorizzare, invece, l’atteggiamento positivo di condivisione e di apertura che deriva dall’assumere anche punti di vista non esattamente coincidenti con i propri. Chi si trova a “mal partito” in questo contesto sono, tra gli altri, i riformisti di sinistra (si veda il cattivo stato di salute di cui gode il PSE), cioè coloro i quali sono spinti dalla volontà di governare (insisto su questo aspetto) le sfide, e non di cavalcarle a fini elettoralistici. Le forze riformiste-socialiste europee post-ideologiche, sono al guado: contrastare l’ondata degli -ismi (nazionalismi, sovranismi, razzismi…) opponendo le sole parole d’ordine della nostra comune casa politica (si veda Corbin in GB o Hamon in Francia) oppure trasformarle in proposte concrete e attuabili, e non di mera testimonianza, senza tradire gli ideali e i valori originari. Che vanno nutriti, arricchiti e aggiornati. Il PD è nato con questo obiettivo, affrontare le sfide nel nuovo secolo, con una inedita capacità di visione: ieri, alla prima Assemblea post-congressuale che ha confermato la segreteria di Renzi, si è ripreso il cammino delle idee. Superare le disuguaglianze, rispondere al disagio, garantire i diritti e le pari opportunità di progresso personale e sociale, valorizzare i talenti dei giovani e delle donne: a ben vedere, le sfide, almeno nella enunciazione dei titoli, corrispondono a quelle passate, ma è profondamente cambiato il contesto. Il lavoro equamente retribuito e socialmente tutelato resta, allora come ora, il motore per raggiungere gli obiettivi di cui sopra, ma il lavoro è anche quanto di più si è modificato, nelle sue forme e nei suoi modi, nel corso del ‘900: da questa evidenza, le nuove forme e i nuovi modi non potranno più essere slegati non solo dalle politiche industriali ed economiche, ma soprattutto da quelle della formazione, incluse le competenze di cittadinanza, e da quelle di sicurezza sociale e di previdenza. Difficile, ma va fatto, tenendo sempre lo sguardo fisso al futuro. Non occorrono indovini, ma persone di buona volontà che non temono di porsi domande nuove. Il Pd è questo.