Questa tornata amministrativa ci consegna un risultato netto, che deve interrogarci, come partito e come formazioni di centro-sinistra. Le elezioni amministrative sono certamente ancorate a specificità locali, che dipendono dalla scelta del candidato, delle liste a suo sostegno, dal contesto e dalla storia pregressa. Ogni città in cui si è votato fa storia a sé, ma tutte insieme danno indicazioni anche nazionali. E le amministrative 2017 le ha certamente vinte il centro-destra, che guiderà capoluoghi di regione come Genova o L’Aquila, per molti versi simbolici, ma anche centri minori, come la nostra Vignola, in regioni a tradizione “rossa”. Delle cinque città emiliano-romagnole che sono andate al ballottaggio, nessuna sarà a guida Partito democratico. A questo risultato hanno contribuito fattori diversi: il centro-destra unito che ha saputo farsi miglior interprete delle indubbie paure di tanti cittadini (potremo dire, con le dovute cautele, che l’approccio alla Trump ha fatto da maestro); i 5 stelle, nei ballottaggi, non si recano alle urne in massa, ma quando lo fanno votano principalmente contro il Pd (le analisi dell’Istituto Cattaneo indirizzano questa lettura, che a Parma assume un altro tratto: Pizzarotti, al ballottaggio, prende i voti del centro-destra e di parte del Movimento); l’astensione è stata, ancora una volta, molto alta: è andato a votare meno di un cittadino su due; l’alleanza larga nel centrosinistra non è stata sempre condizione per la vittoria; anche le divisioni interne al Pd hanno pesato (penso alle oltre 220 schede bianche del ballottaggio di Vignola, quando la nostra candidata Paola Covili è stata superata dal suo avversario Simone Pelloni solo di 200 voti). Un dato su tutti, mi sembra emergere: chi ha promesso il cambiamento (qualunque tipo di cambiamento) sembra essere stato premiato dagli elettori. In un contesto politico generale in cui all’elettore paiono mancare i punti di riferimento, almeno quelli tradizionali, il cambiamento è visto come un valore di per sé. E, almeno in questa tornata elettorale, il cambiamento non era incarnato dal Pd. Quindi, niente analisi affrettate, niente facili giudizi pro e contro questo o quello, ma un serio ragionamento sul rapporto con i nostri elettori e la capacità di rappresentare i nuovi bisogni, paure comprese, questo sì, io credo, sia assolutamente necessario.
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Prove suppletive, la risposta alla mia interrogazione
Stamani, il sottosegretario Toccafondi ha risposto all’interrogazione che ho presentato il 22 maggio sulle prove suppletive al concorso per docenti del 2016, aperto solo a candidati abilitati all’insegnamento, che si sono svolte in due sessioni, nei mesi di aprile e maggio 2017, a seguito di specifiche ordinanze cautelari. In particolare, lo ricordo, chiedevo di conoscere:
a) se, rispetto alla partecipazione di candidati alle prove suppletive non abilitati per classi di concorso per le quali siano stati svolti percorsi abilitanti, l’amministrazione avesse potere di verifica dei requisiti;
b) quali iniziative si intendessero assumere nei confronti dei vincitori delle prove ordinarie (assunti o in attesa di immissione in ruolo) che si trovassero in numero eccedente rispetto ai posti messi a bando a seguito dell’inserimento dei vincitori delle prove suppletive.
Le risposte giunte sono chiare e positive. Vediamole.
Rispetto al primo quesito, è stato chiarito “che non è in capo all’Amministrazione il potere di operare un’ulteriore verifica dei requisiti prescritti per la partecipazione al concorso, se non all’interno della dinamica processuale, ovvero in sede di trattazione nel merito dinanzi al primo Giudice od al Consiglio di Stato”. La partecipazione di candidati alle prove suppletive, quindi, è avvenuta esclusivamente a seguito di ordinanze cautelari del giudice amministrativo e non è nella disponibilità dell’Amministrazione verificare – come invece molti hanno supposto – se il ricorrente si trovi nella condizione sulla base della quale il giudice ha disposto l’ordinanza, basata sulla supposizione che i percorsi abilitanti non si siano svolti. In altre parole, L’Amministrazione non poteva impedire la partecipazione alle prove dei possessori di ordinanza, sebbene i percorsi abilitanti per quelle specifiche classi di concorso si fosseri regolarmente svolte.
Dalla risposta si apprende che nei confronti dei provvedimenti cautelari il Ministero ha proposto impugnativa, i cui esiti non sono stai richiamati e rispetto alla quale ci riserviamo di presentare, quindi, ulteriore atto di sindacato ispettivo.
La risposta, poi, tocca un altro aspetto importante: quello del comportamento apparentemente non uniforme assunto dall’Amministrazione rispetto al fatto che ad alcuni ricorrenti è stato concesso di sostenere solo le prove, mentre altri – per i quali si è concluso il percorso concorsuale – sono stati inseriti a pettine nelle graduatorie di merito. Si tratta, anche in questo caso, di ottemperanza vincolante ai diversi dispositivi delle ordinanze, differenti sebbene riguardanti analoghe tipologie di ricorrenti.
L’amministrazione ha comunque rassicurato che la “verifica delle singole situazioni riferite a ciascun ricorrente verrà effettuata con la massima sollecitudine, attesa l’evidente urgenza di concludere le procedure selettive ancora in corso e provvedere alla pubblicazione delle relative graduatorie in favore dei soli candidati in possesso dei titoli prescritti, con esclusione, degli aspiranti che, ammessi alle prove suppletive, abbiano visto venir meno il titolo giudiziale di ammissione cautelare con riserva per effetto di successive pronunce favorevoli all’Amministrazione”.
Infine, rispetto al secondo quesito, la risposta richiama il contenuto dell’articolo 17, comma 2 del decreto legislativo 59 del 2017, che statuisce “che il 50 per cento dei posti di docente vacanti e disponibili nelle scuole secondarie è coperto annualmente mediante prioritario scorrimento delle graduatorie di merito delle procedure concorsuali indette nel 2016, anche in deroga al limite percentuale del 10 per cento previsto dall’art. 400, comma 15, del decreto legislativo n. 297 del 1994 (Testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione) per coloro che hanno raggiunto il punteggio minimo previsto dal bando, sino al termine di validità delle graduatorie medesime, fermo restando il diritto all’immissione in ruolo per i vincitori del concorso” e “rassicura che questo Ministero sta monitorando costantemente la situazione al fine di individuare e valutare opportune misure che meglio possano venire incontro alle esigenze di coloro che, già dichiarati vincitori dell’ultimo concorso, divengano idonei a seguito dell’eventuale inserimento in graduatoria dei vincitori delle prove suppletive”. Mi pare si tratti di un impegno importanteche non attiene solo al Ministero ma che riguarda anche il Parlamento, ove tali “misure” necessitino di interventi legislativi.
Nell’attesa di conoscere gli esiti delle prove suppletive e delle sentenze di merito mi pare che l’attenzione sollevata dall’interrogazione non sia stata elusa dall’Amministrazione, per non vanificare le attese di tutti coloro i quali si sono sottoposti con esito favorevole alle procedure concorsuali nel
Beni culturali, gli studiosi possano riprodurli liberamente
L’uso semplice, diffuso e non dannoso di smartphone impone che venga sbloccato in via definitivo l’impasse con cui si scontrano gli studiosi di tutto il mondo quando si trovano a fare ricerche nelle biblioteche o negli archivi italiani. Al momento, infatti, per fare anche una semplice fotografia digitale da un libro o da un documento di archivio occorre una specifica autorizzazione e può venire chiesto il pagamento di un canone. Su questo tema, particolarmente sentito tra i ricercatori, il movimento Foto libere per i beni culturali aveva già raccolto 3mila firme in calce a un appello al Governo italiano. Io mi ero fatta interprete di quella esigenza, tra l’altro avvallata anche dal Consiglio superiore dei Beni culturali e paesaggistici, presentando, nello scorso gennaio, una interrogazione al ministro Franceschini in cui chiedevo che, nell’attesa di una norma, si potesse almeno intervenire in via amministrativa. Ora quella norma è stata inserita nel disegno di legge per il mercato e la concorrenza, di cui sono stata relatrice in Commissione Cultura alla Camera. Il provvedimento esplicitamente inserisce tra le ipotesi nelle quali non è dovuto alcun canone per le riproduzioni quelle di beni bibliografici e archivistici eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, fatta eccezione per i beni sottoposti a restrizioni di consultabilità, in ragione del loro contenuto sensibile. Inoltre, con riferimento alla libera divulgazione, con qualsiasi mezzo, delle immagini di beni culturali legittimamente acquisite, si elimina il divieto di utilizzo di tali immagini a scopo di lucro indiretto, al fine di consentirne la libera pubblicazione, ad esempio, all’interno di una pubblicazione scientifica. Il Movimento Foto libere per i beni culturali, proprio in questi giorni, ha lanciato un nuovo appello per un’approvazione rapida e senza modifiche del Dl concorrenza. Credo si debbano dare risposte celeri alle loro giuste esigenze di studio e ricerca.
Quelle migliaia di ragazzini già italiani nei fatti, prima ancora che nel diritto
Opporsi a una legge è più che legittimo. In una delle massime sedi istituzionali, come il Senato, i rappresentanti eletti dal popolo sono però chiamati innanzitutto al rispetto dell’altro e del luogo. Non è inscenando bagarre, urlando, spintonando e mandando in infermeria un ministro della Repubblica che si rafforzano le proprie ragioni. Sono passati quasi due anni dall’approvazione, alla Camera, del progetto di legge sulla cittadinanza italiana ai minori stranieri (nota come ius soli): da ottobre 2015 il provvedimento è in attesa in Senato, bloccato dai veti incrociati. Non si tratta di svendere la cittadinanza ad alcuno, come sta argomentando la destra, ma di tutelare un diritto. Davvero un ragazzino che è nato in Italia, che ha frequentato le scuole in Italia, che parla correntemente l’italiano può essere considerato uno “straniero”? Sull’argomento, ha cambiato idea anche il Movimento 5 stelle: la scelta di astenersi – che al Senato equivale ad un voto contrario – è forse il frutto quell’incontro Salvini -Casaleggio, che Repubblica conferma si sia tenuto una decina di giorni fa, ma che ora viene smentito dal Movimento. Una scelta di campo inequivocabile, seppur in contraddizione con i panni francescani indossati recentemente ad Assisi. Eppure il progetto di legge di cui si sta cercando di cominciare a discutere a Palazzo Madama è molto “temperato” poiché prevede ipotesi ben circostanziate di acquisizione della cittadinanza (per la quale occorre avanzare domanda), legate o all’essere nato in Italia o arrivato prima dei 12 anni e aver frequentato le scuole nel nostro Paese per almeno cinque anni o all’essere nati in Italia figli di genitori stranieri talmente stanziali e integrati nel nostro Paese da possedere un permesso di soggiorno permanente. Stiamo parlando di migliaia di ragazzini che sono già italiani nei fatti, prima ancora che nel diritto. Non chiudiamo gli occhi di fronte alla realtà.
A questo il link il dossier della Camera dei deputati
105bis_Cittadinanza minori stranieri_0
24 crediti, il decreto attuativo atteso prima della pausa estiva
Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca sta lavorando alla redazione del decreto ministeriale che dovrà fare chiarezza sugli ormai famosi 24 crediti che i laureati magistrali aspiranti docenti dovranno avere acquisito per poter partecipare al concorso per la formazione iniziale e l’accesso all‘insegnamento nelle scuole medie e superiori. E’ quanto ha confermato il sottosegretario Toccafondi rispondendo alla mia interrogazione. In essa avevo alla ministra Fedeli la preoccupazione degli aspiranti docenti che vorrebbero meglio comprendere come e quali crediti acquisire, segnalando anche fughe in avanti di alcuni enti che hanno già cominciato a proporre, soprattutto on-line, pacchetti di esami a pagamento, pur non essendo ancora stato emanato il decreto che stabilirà contenuti e modalità dei crediti da acquisire. E’ un bene che il decreto sia in preparazione e da successive interlocuzioni informali con il Ministero ho potuto appurare che dovrebbe essere emanato prima della pausa estiva. Il Consiglio universitario nazionale ha già espresso un primo parere orientativo. Ora si tratta di definire urgentemente e concretamente quali saranno i settori scientifico-disciplinari all’interno dei quali verranno acquisiti i 24 crediti, gli obiettivi formativi, le modalità organizzative e gli eventuali costi a carico degli interessati. Nella mia replica ho ribadito che, a mio parere, i crediti devono essere conseguibili solo in ambito universitario e non esclusivamente in forma telematica. Sarebbe anche auspicabile che i costi siano contenuti e proporzionati al reddito dell’interessato, in conformità alle regole della no-tax area per i redditi più bassi introdotta nell’ultima legge di stabilità proprio sulla base di un mio emendamento. Inoltre mi risulta in via informale che il Ministero starebbe approfondendo quali vie poter intraprendere per diffidare ogni iniziativa di promozione all’acquisizione dei 24 crediti sino a quando il decreto non sarà stato emanato
Un test amministrativo che ci interpella
Il voto amministrativo parziale di ieri, 11 giugno, è un test locale dal quale trarre alcune indicazioni, tanto per il livello nazionale quanto per quello territoriale. Nel modenese tre Comuni sono andati al voto. A Castelnuovo Rangone si è imposto il nostro Massimo Paradisi, candidato uscito da una stagione spesa a ricucire e fare sintesi nel campo del centrosinistra: un candidato che ha convinto e vinto. A lui gli auguri di buon lavoro. Un forte “in bocca al lupo!” a Paola Covili, la candidata sindaco di Vignola che, fra quindici giorni, se la dovrà vedere al ballottaggio con il candidato del centrodestra Pelloni, avanti di qualche punto percentuale. Se, insieme alla sua squadra, riuscirà a far tornare alle urne tutti i cittadini che si riconoscono nei valori del centrosinistra, il risultato non potrà che premiare il suo impegno e la sua competenza. A Novi non è andata secondo le attese, nonostante l’impegno, la passione, la determinazione che Giulia Olivetti ha profuso in questa difficile campagna elettorale. Non è riuscita nell’impresa di guidare l’Amministrazione – che è andata ad una coalizione civica – e ora l’attende il compito di guidare l’opposizione, che dovrà fare tesoro del risultato elettorale. In questi tre Comuni del modenese si intravvedono, in controluce, molti elementi che hanno, di fatto, caratterizzato questa tornata elettorale. Innanzitutto il fatto che la crisi di Forza Italia e il ridimensionamento della figura politica di Berlusconi non significano necessariamente crisi del centrodestra. Anzi! Infatti, quando il centrodestra si presenta unito a sostegno di un candidato di valore, torna ad essere competitivo ed estremamente pericoloso nell’agone elettorale. Aspetto, peraltro, che già abbiamo avuto modo di sottolineare poco tempo fa e che si rifà a uno storico consenso che il centrodestra ha sempre raccolto in Italia. Secondo dato: dopo gli exploit di Roma e Torino – e forse complici le non esaltanti prove amministrative – il M5stelle non arriva al ballottaggio in nessuno capoluogo. Non è affatto sintomo che il tripolarismo nazionale sia finito, ma è altrettanto vero che i 5 stelle non riescono a essere attrattivi nelle competizioni elettorali in cui pesano la credibilità del candidato e la coesione delle forze a suo sostegno (si pensi al caso Genova ma non solo), in altre parole, le sfide che si giocano sulla autorevolezza della classe dirigente. Quanto al centrosinistra, mi pare, che due elementi si siano evidenziati: da una parte che, come ad esempio è successo a Castelnuovo, più il campo è largo e condiviso, più crescono le possibilità di vincere, dall’altra la necessità di prestare grande attenzione al civismo e alla crescente fiducia che i cittadini sembrano riporre in esperienze politiche vissute al di fuori dei partiti tradizionali (salvo, poi, come accaduto a Vignola nella scorsa consigliatura, pentirsene nel giro di poco tempo). Questo è sicuramente un tema su cui riflettere.
Scuola 24 – La buona notizia è che ben 30 atenei italiani sono da Top1000 nel mondo
Scuola 24, l’inserto de Il Sole 24 ore dedicato alla scuola e all’università ospita oggi un mio pensiero sulle graduatorie internazionali degli atenei. Riporto di seguito, per chi fosse interessato, il testo integrale dell’intervento:
STUDENTI E RICERCATORI
Università, la buona notizia è che ben 30 atenei italiani sono da Top1000 nel mondo
di Manuela Ghizzoni*
Quattro università italiane tra le 200 migliori al mondo: sono poche? sono tante? sono sufficienti? Ad ogni pubblicazione di graduatorie internazionali sulla formazione superiore si scatenano le polemiche e i giudizi, spesso anche contradditori. Tutti legittimi, ma si legge di tutto e il contrario di tutto: che le risorse destinate alle università sono scarse (e personalmente sono di questo avviso), mentre per altri sono sufficienti ma spese male; che quattro atenei nei primi 200 è un risultato soddisfacente, mentre per alcuni è deludente.
Com’è noto, gli estensori di ogni graduatoria scelgono i parametri che ritengono siano più adeguati ai propri obiettivi di analisi: ne consegue che, molto spesso, classifiche ugualmente internazionali possono approdare a conclusioni anche molto distanti tra loro. Quella appena pubblica – la Qs world University Rankings – è senz’altro una delle più prestigiose e più documentate (hanno risposto al sondaggio annuale 75mila accademici e 40mila aziende e specialisti del settore) e mi pare che non se ne sia colto l’indirizzo – anche politico – più significativo per il nostro Paese: se “solo” quattro atenei italiani sono tra i primi 200 al mondo (anche se bisogna davvero congratularsi con il Polimi, Bologna e i due atenei pisani per il grande risultato raggiunto), è altrettanto vero che nelle prime mille università del ranking le italiane siano ben trenta (in un sistema nazionale che ne conta complessivamente 66 statali e 19 non statali). Quindi, riferendoci ad una platea di 26mila atenei nel mondo – come indicato dal rettore di Bologna, Francesco Ubertini – i “nostri quattro moschettieri” si posizionano nell’1% dei migliori atenei globali, ma ben trenta università italiane sono nel primo 4%. Un risultato per nulla scontato e soprattutto non eguagliato in realtà, come quelle statunitensi o francesi, che pure si prendono spesso a riferimento.
Il ragionamento prende spunto da uno studio pubblicato, nel maggio scorso, su Lavoce.it proprio da un docente del Politecnico di Milano, Alfonso Fuggetta, redatto con l’intento di fornire “istruzioni per l’uso” delle varie classifiche internazionali. Sulla base dei dati del World Economic Forum 2017, Fuggetta conclude che “in Italia il 20 per cento circa delle università del Paese offre una formazione da Top 1000. In Usa sono solo l’8,4 per cento e in Francia la percentuale scende al 7,5 per cento”. Fatti i dovuti distinguo, già sottolineati precedentemente, sulla comparabilità dei dati, si tratta di conclusioni che segnalano un fenomeno di non poco conto: è tutto il nostro sistema che è mediamente di alta qualità e non punta, come altri Paesi solo su alcune, blasonate eccellenze, che portano indubitati vantaggi ma a davvero pochi studenti. Un sistema diffuso di qualità significa maggiori possibilità di una solida preparazione per un numero alto di ragazzi e della loro futura affermazione sociale e professionale. Detto questo, i tanti problemi delle nostre università (che si riflettono anche sugli esiti delle classifiche internazionali, coma ad esempio il blocco del turn over, che ci svantaggia nel rapporto docenti/studenti, o la bassa percentuale di laureati rispetto agli altri Paesi Ocse) rimangono e vanno affrontati con apposite politiche da perseguire tenacemente. Ma è anche opportuno sottolineare quelle strategie, frutto di anni di impegno degli atenei ma non solo, che invece funzionano e di cui si parla troppo poco.
* L’autrice è Parlamentare Pd, Commissione Cultura della Camera