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Strage di Bologna, quel 2 agosto che non si può dimenticare

#2agosto Ci sono eventi che rappresentano i tornanti della nostra vita. Non solo quelli della sfera personale, ma alcuni fatti pubblici. Per me, che ero adolescente negli anni ’70 e quindi negli “Anni di piombo”, penso al rapimento di Aldo Moro, alla morte di Berlinguer e alla strage del 2 agosto alla stazione della “nostra” Bologna. Ricordo esattamente dove e come appresi la notizia di ciascuno di quegli eventi. Allora, non eravamo sempre connessi, le notizie veicolavano con tempi meno rapidi e i telefoni pubblici funzionavano con i gettoni. Della immane strage mattutina seppi solo nel pomeriggio: ero in un campeggio in Puglia, dopo la maturità (che allora si protraeva per tutto il mese di luglio) e la notizia mi colpì come una scudisciata. Ecco perché il 2 agosto resta una data incisa nel mio calendario. Ognuno di noi sentì in se stesso che qualcosa si rompeva, che la democrazia vacillava. La risposta di Bologna fu all’altezza della grave situazione e diede rappresentazione materiale alla sua indole solidaristica e di mutuo soccorso. Anche il Paese tenne, grazie alle forze politiche democratiche. Francamente, non so cosa accadrebbe se oggi, una strage immane colpisse con tale violenza e dimensione. Ecco perché non possiamo dimenticare il 2 agosto, come non possiamo dimenticare le sue vittime e il senso di quell’attacco vigliacco e fascista

Università, reso più equo il criterio del costo standard

La Camera dei deputati entro la giornata approverà il cosiddetto Dl Mezzogiorno che contiene, tra altre misure, la revisione del “costo standard per studente”, sulla cui base è ripartito il finanziamento statale alle università. Si tratta di una misura che il Governo era già stato sollecitato ad adottare grazie a una mozione, a mia prima firma, approvata circa un anno fa. Sono intervenuta in Aula per spiegare l’importanza delle modifiche apportate nel calcolo del “costo standard”. Ecco il testo integrale del mio intervento

Signor Presidente,

poco più di un anno fa, la Camera approvò – sostanzialmente all’unanimità – la mozione a mia prima firma che impegnava il Governo ad assumere specifiche iniziative per superare gli ostacoli che si frappongono tra i giovani e l’accesso al sistema universitario.
Dopo qualche mese, in occasione della discussione della legge di bilancio, furono attuati alcuni impegni di quella mozione. Da un lato, quelli connessi al potenziamento del finanziamento per il diritto allo studio universitario e al completamento e miglioramento dei suoi strumenti operativi. Dall’altro, quelli connessi alla riforma della contribuzione studentesca sulla base di una redistribuzione del carico contributivo, con l’introduzione della “no-tax area” per gli studenti provenienti da famiglie a basso reddito e patrimonio – cioè fino a 13.000 euro di ISEE – e un calmieramento della contribuzione per quelle a medio reddito e patrimonio – vale a dire da 13.000 a 30.000 euro di ISEE.
Un altro degli impegni della mozione viene ora attuato con il decreto sul Mezzogiorno oggi in discussione. Si tratta della revisione del cosiddetto “costo standard per studente in corso”, introdotto in forma di delega dalla legge n. 240 del 2010, attuato con il decreto legislativo n. 49 del 2012 e poi applicato per la ripartizione del fondo di finanziamento ordinario delle università statali mediante gli algoritmi definiti dal decreto interministeriale n. 893 del 2014 (sui cui dettagli ritornerò tra breve).
Ricordo infatti che a legislazione vigente, il fondo di finanziamento ordinario, cioè quello trasferito dallo Stato alle università statali per affrontare le spese di funzionamento, una volta detratte le somme necessarie per interventi specifici previsti da disposizioni normative, è suddiviso in due quote: la “quota base” e la “quota premiale”. La quota premiale è assegnata sulla base delle valutazioni della qualità delle attività universitarie, principalmente la ricerca. La quota base è invece assegnata in parte con riferimento al finanziamento degli anni precedenti – la cosiddetta “spesa storica” – e in parte al costo standard per studente in corso. Per dare un’idea delle cifre in gioco, il fondo di finanziamento ordinario del 2016 ammontava a circa 6,9 miliardi di euro, la quota base a circa 4,6 miliardi e la quota premiale a circa 1,6 miliardi.
La parte della quota base assegnata in base al costo standard è, per legge, crescente negli anni. Così è stata del 20% nel 2014 (primo anno di applicazione), del 25% nel 2015, del 28% nel 2016. In cifre assolute il costo standard è stato utilizzato per ripartire circa 980 milioni nel 2014, 1.200 milioni nel 2015, 1.280 milioni nel 2016, cifre comunque decisamente significative del bilancio dello Stato e delle università.
Il primo triennio di applicazione del costo standard ne ha messo in luce i pregi, riferibili soprattutto alla trasparenza e alla oggettività dei criteri di riparto, ma ne ha evidenziato anche alcuni limiti, legati soprattutto alle modalità con cui esso è calcolato ateneo per ateneo.
Si faccia attenzione a questo aspetto, che non è tecnico, ma squisitamente politico. Il finanziamento assegnato ad un ateneo statale condiziona profondamente il raggiungimento dei suoi obiettivi, da quelli costituzionali a quelli statutari o definiti dai suoi organi di governo. La determinazione dell’ammontare del finanziamento non può quindi essere affidata alla mera e ripetitiva applicazione di formule matematiche basate su parametri teorici, per quanto oggettivi essi siano o appaiano, ma ne devono continuamente essere vagliati gli effetti rispetto agli esiti attesi delle politiche universitarie nazionali.
Quali sono, in sintesi, i limiti individuati dal Partito Democratico nello studio approfondito del decreto interministeriale del 2014 sul costo standard e riportati nella mozione del 2016? Tre sono i principali.
In primo luogo, l’efficacia dell’addendo perequativo introdotto nel calcolo per contemperare – secondo il disposto della legge – i «differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui opera l’università». Infatti questo addendo è risultato pesare in modo minimo sul costo standard, senza riuscire a livellare concretamente i ben noti, forti divari territoriali del nostro Paese. Per fare un esempio, rispetto alla Lombardia che è presa come regione di riferimento, l’addendo perequativo pesa meno del 6 per cento per la Sicilia e circa del 3 per cento per la Sardegna. Percentuali evidentemente molto al di sotto dei divari economici e infrastrutturali esistenti.
In secondo luogo, l’algoritmo che definisce il costo standard per studente ha come parametro principale, da cui dipendono quasi tutti gli altri, il costo standard (stipendiale) del personale docente. Il calcolo di questo costo standard dei docenti si basa a sua volta su un parametro teorico, vale a dire la “numerosità ottimale di studenti regolari per corso”: una numerosità definita dall’alto, senza che ne siano noti i criteri, che è eguale in tutti gli atenei italiani. Non tiene quindi conto della consistenza demografica territoriale delle fasce giovanili, della mobilità studentesca, delle carenze infrastrutturali delle aree interne e marginali, tanto del Sud continentale e insulare quanto del Nord, finendo col penalizzare gli atenei di queste aree del Paese indipendentemente dalla qualità della didattica svolta.
L’uso acritico di formule di questo tipo potrebbe alla lunga portare alla chiusura, in specifiche parti del Paese, di molti corsi di laurea a carattere specialistico, perché non raggiungono la numerosità ottimale degli studenti e quindi ricevono dei finanziamenti inferiori ai costi reali, con un effetto finale di concentramento delle attività universitarie in pochi atenei ubicati nelle regioni più ricche e meglio collegate. Non sarebbe, a mio parere, una situazione auspicabile, per nulla. Diventeremmo complici di una desertificazione dei talenti dei giovani e, di conseguenza, di una desertificazione di quei luoghi promotori di cultura e di progresso costituiti dalle università e dai centri di ricerca. Peraltro non sarebbe nemmeno auspicabile un’estrema frammentazione del sistema universitario – anche se, ricordiamolo, l’Italia ha tuttora un numero inferiore di università per popolazione rispetto agli altri grandi paesi – quanto piuttosto sarebbe semmai auspicabile un coordinamento dell’offerta formativa, almeno in ambito regionale, che risponda ai bisogni e alle attese dei giovani, delle loro famiglie, dei sistemi produttivi. Il riparto del finanziamento statale deve essere insomma equo e sostenibile insieme.
In terzo luogo, il costo standard fa riferimento solo agli studenti in corso, a differenza da quanto si prevede, da tempo, per il diritto allo studio e da quanto questo stesso Parlamento ha deciso per le recenti norme sulla contribuzione studentesca che richiamavo poc’anzi. In effetti la decisione di conteggiare solo gli studenti in corso deriva dalla legge 240 del 2010, che ha modificato la normativa precedente, a partire dalla prima in assoluto, cioè l’articolo 5 della legge n. 537 del 1993, che, istituendo il fondo di finanziamento ordinario, indicava tra i parametri di ripartizione gli “standard dei costi di produzione per studente”. Non può sfuggire come tra il 1993 e il 2010 si sia transitati da “studenti” a “studenti in corso”, circoscrivendo di fatto la platea degli universitari ad un suo sottoinsieme e forzando così la realtà. Né può sfuggire il fatto che è negli atenei meridionali che si concentra la maggiore percentuale di studenti fuori corso, con gli ovvi effetti negativi che seguono dal fatto che il calcolo attuale del costo standard non li contempla, sebbene costoro, soprattutto a ridosso della durata normale del corso di studio, siano ancora nella grande maggioranza studenti a tutti gli effetti che utilizzano i servizi universitari, frequentano corsi, biblioteche e laboratori, sostengono esami, preparano la tesi.
E’ appunto su questi tre punti che la mozione dello scorso anno ha impegnato il governo ad intervenire.
Questa è la storia, necessaria – come sempre – a comprendere il presente.
La mozione parlamentare ha sollecitato una discussione pubblica e politica sul costo standard per studente, ma è in realtà un ricorso presentato dall’Università di Macerata sul riparto del 2014 che ha accelerato i tempi di un intervento di modifica legislativa. Infatti, partendo proprio da questo ricorso, una recente sentenza della Corte Costituzionale, depositata l’11 maggio 2017 e favorevole all’Università di Macerata, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli articoli 8 e 10, limitatamente al comma 1, del decreto legislativo n. 49 del 2012, che ho richiamato poco fa. Stessa sorte ha quindi subito la disciplina del costo standard concretamente definita dal decreto interministeriale n. 893 del 2014, anch’esso già citato.
La Consulta ha individuato il vulnus di illegittimità nel trasferimento dell’esercizio della funzione normativa dal Governo, nella sua collegialità, ai singoli Ministri competenti, e nel declassare la relativa disciplina a livello di fonti sub-legislative (cioè il decreto interministeriale). In altre parole, la censura ha riguardato principalmente aspetti procedurali, collegati all’ormai usuale “decretazione a cascata”, con la quale si concentrano nell’atto finale, un semplice decreto ministeriale, scelte generali di natura strategica che dovrebbero essere riservate a normative gerarchicamente sovraordinate e sottoposte al controllo del Parlamento.
Un destino quasi annunciato. Già nel parere della VII Commissione del Senato sullo schema del decreto legislativo 49/2012 vi era un chiaro ed esplicito invito al Governo Monti ad individuare con maggior precisione le spese da includere nel computo del costo standard, i criteri di calcolo e quelli di ponderazione di ciascuna voce, ma l’invito non fu raccolto.
Mi si consenta a questo proposito una breve considerazione di carattere generale, alla luce della esperienza parlamentare fin qui maturata. La funzione di controllo sull’attività del Governo esercitata dal Parlamento è garanzia reciproca dell’equilibrio dei poteri e non interferenza. Sarebbe proficuo – come questa vicenda, determinata da un vizio dell’esercizio del potere legislativo delegato, dimostra chiaramente – se gli esecutivi, che nel nostro ordinamento sono più discontinui delle assemblee rappresentative, se ne facessero convintamente carico, proprio al fine di un maggior successo e consolidamento nel tempo degli obiettivi che essi stessi vogliono legittimamente raggiungere.
La Corte Costituzionale, peraltro, nella sentenza citata ha concluso che “tale declaratoria di illegittimità costituzionale … non impedisce ulteriori interventi in merito del Parlamento e del Governo, sui quali comunque incombe la responsabilità di assicurare, con modalità conformi alla Costituzione, la continuità e l’integrale distribuzione dei finanziamenti per le università statali, indispensabili per l’effettività dei principi e dei diritti consacrati negli artt. 33 e 34 Cost.”.
Il Governo ha quindi provveduto, nel decreto al nostro esame, a rispondere ai rilievi della Corte riportando in legge primaria i criteri e le voci di costo sulla base dei quali, a decorrere dall’anno corrente, sarà determinato (ed eventualmente aggiornato) il modello di calcolo del costo standard per studente, nonché la quota di finanziamenti statali da distribuire in base a questo modello.
Non appaia incongrua la collocazione delle nuove norme in seno ad un decreto che contiene misure urgenti per la crescita del Mezzogiorno. Come ho già osservato, il sistema universitario è volano di tale crescita e quindi, se il nuovo modello di calcolo del costo standard avrà un impianto più attento ai divari territoriali, si determinerà un riparto delle risorse più coerente con i fabbisogni dei singoli atenei, a partire da quelli meridionali.
Le modifiche apportate al modello di calcolo dall’articolo 12 del decreto-legge sono rilevanti: alcune erano già presenti nel testo originario del decreto, altre sono frutto di emendamenti approvati durante l’esame del Senato, grazie anche ad un’approfondita analisi tecnica e politica approntata dalla Commissione Cultura di quel ramo del Parlamento.
Diamo ora uno sguardo sintetico ma dettagliato alle nuove norme.
Già il testo del decreto originario interveniva significativamente sul meccanismo perequativo ed è rimasto sostanzialmente invariato. Per tenere in maggior conto i differenti contesti economici e territoriali in cui gli atenei si trovano ad operare, è stato stabilito che il peso dell’addendo perequativo potrà arrivare fino al 10% del costo standard medio nazionale, prendendo a riferimento la diversa capacità contributiva degli studenti tramite il reddito medio familiare del territorio di pertinenza dell’ateneo, di norma quello regionale. Inoltre è stato introdotto un ulteriore importo di natura perequativa, sempre fino ad un massimo del 10% del costo standard medio nazionale, che prenderà a riferimento la diversa accessibilità ad ogni università in relazione alla rete dei trasporti e dei collegamenti.
Hanno certamente fondamento i rilievi mossi da chi sostiene che sarebbe stato preferibile correlare gli importi di natura perequativa a parametri interni al sistema universitario e non a condizioni esterne, come il reddito familiare o le infrastrutture. Ma adesso è urgente e necessario, già per la ripartizione del fondo di finanziamento ordinario del 2017, determinare forme di riequilibrio degli svantaggi territoriali. Peraltro nulla impedisce che, in futuro, si possa mettere mano e testa ad una diversa e migliore soluzione di questi problemi.
Un’altra importante novità del testo del decreto originario si riferisce al criterio per la determinazione del costo standard del personale docente, che abbiamo visto essere certamente il più significativo dal punto di vista quantitativo e con riflessi anche su tutti gli altri addendi del costo standard. Si prevede infatti che, ai fini del calcolo del costo standard per studente, la numerosità standard degli studenti stabilita ai fini dell’accreditamento possa essere ridotta fino al 60% del suo valore. Abbassare la numerosità ottimale implica che il costo effettivo della docenza possa essere integralmente riconosciuto nel costo standard per studente già con classi più piccole rispetto a quelle previste per l’accreditamento, tenendo quindi conto di quei corsi di laurea e di laurea magistrale che hanno una domanda di formazione più contenuta rispetto agli standard previsti dall’accreditamento, come quelli inseriti nelle aree interne e insulari del Paese.
La riduzione graduata della numerosità standard degli studenti tende inoltre a risolvere un altro problema di grande attualità. Essendo le numerosità standard differente per le diverse aree disciplinari (maggiori per le aree umanistico-sociali, minori per le aree scientifico-tecnologiche) si ottiene che, a parità di docenti, il costo standard della docenza per studenti delle materie umanistiche è più basso di quello per studenti delle materie scientifiche, con effetti già evidenti sulle politiche degli atenei, che non derivano da autonome scelte culturali ma dall’obiettivo di massimizzare gli effetti finanziari. Riducendo le numerosità standard in modo più flessibile si possono contrastare questi effetti, causa non ultima dell’introduzione del numero chiuso per questi corsi in molti atenei oltre che di un’inaccettabile penalizzazione delle discipline umanistico-sociali dovuta a puri fattori algoritmici.
Su questo punto è significativamente intervenuto anche il Senato con una modifica del testo originario che tende a rendere ancora più cogente il principio di tenere conto dei costi fissi di un corso di studi nella determinazione del costo standard. Con il nuovo comma 2-bis dell’articolo 12 si stabilisce infatti che, a decorrere dal 2018, il costo standard della docenza dovrà rimanere invariata, in aderenza alla realtà, tra una numerosità minima e una numerosità massima di studenti da stabilire con decreto ministeriale, e non ancorata al singolo valore della numerosità ottimale.
Un’altra importante modifica introdotta dal Senato stabilisce infine che il costo standard di ateneo, quello in base al quale si ripartisce la quota prevista del fondo di finanziamento ordinario, si ottiene moltiplicando il costo standard per studente per il numero degli studenti iscritti in corso o al primo anno fuori corso. L’aggiunta degli studenti del primo anno fuori corso è una positiva risposta alla maggiore gradualità nella considerazione dello status di studente che era stata richiesta dalla mozione approvata lo scorso anno.
Molto altro rimarrebbe certamente da fare, soprattutto nell’ormai improcrastinabile necessità di un intervento legislativo organico che riordini il finanziamento statale delle università. Se otterremo gradualmente un algoritmo corretto di determinazione del costo standard, ne verrà di conseguenza determinato in modo corretto il “fabbisogno” che andrebbe riconosciuto a ciascun ateneo sulla base della sua offerta didattica e del numero dei suoi studenti. Su questo aspetto è particolarmente interessante l’analisi della VII Commissione del Senato espressa nel parere al provvedimento al nostro esame, in una sorta di staffetta con la mozione approvata dalla Camera.
Si tratta di una elaborazione genuinamente “politica” del costo standard universitario che porta al concetto di “fabbisogno” standard di ateneo, con significato diverso da quello normalmente utilizzato per la finanza pubblica. Si tratta cioè di dargli il senso di “costo standard di funzionamento di ateneo”, almeno per quanto riguarda la didattica, al quale, pur tenendo in considerazione la contribuzione studentesca, divenuta in Italia veramente molto elevata nei confronti internazionali, lo Stato dovrebbe provvedere in via ordinaria per quanto concerne le università statali. Solo così il fondo di finanziamento ordinario potrà recuperare il suo significato reale originario, persino dal punto di vista lessicale.
Provvedano invece altri e separati fondi statali agli interventi di natura non ordinaria, destinati, ad esempio, alle finalità premiali e quindi non consolidabili automaticamente nel tempo, per incentivare i risultati di migliore qualità ottenuti dalle università nella ricerca e nella didattica, al sostegno di programmi nazionali di innovazione, all’investimento nello sviluppo di atenei che operano in aree interne o a territori svantaggiati del Paese, in cui costituiscono presidi sociali e culturali irrinunciabili.

Università: oltre la retorica dell’eccellenza


Il Sole 24 Ore ha avviato un dibattito sul sistema universitario a partire da una riflessione di Dario Braga, a cui hanno fatto seguito altri interventi, che potete leggere qui. Per chi, come me, ha dedicato gran parte della propria attività parlamentare alle politiche universitarie, si tratta di una iniziativa certamente apprezzabile perché – al di là delle considerazioni espresse e della loro eventuale distanza dalle mie valutazioni – rappresenta il tentativo di portare il dibattito sull’università, al netto dei luoghi comuni e degli stereotipi, in seno alla società, che è (ma sarebbe meglio dire, dovrebbe essere) il principale interlocutore del mondo accademico.
Il contributo di Daniele Terlizzese dal titolo “Cooptazione e persone di qualità”, a corredo dei precedenti citati è quello che più mi sprona a prendere la parola, per dissentirne.
L’autore si fa portavoce di alcune idee che hanno trovato – negli ultimi anni – sostegno pubblico e attuazione normativa, a partire dalla considerazione che il buon reclutamento vada premiato, affinché “chi sceglie abbia incentivi chiari e potenti a prendere i migliori”. Io porrei la questione in altri termini e cioè che la selezione debba basarsi sulla responsabilità di chi seleziona e che si sanzioni il comportamento irresponsabile. Lasciatemi spiegare, prima di etichettarmi come “securitaria”. Ogni selezione – ogni concorso – deve svolgersi per l’individuazione del candidato “migliore” a ricoprire una posizione che, nel caso in specie, è rappresentata da un posto incardinato in un determinato dipartimento, dedicato a specifiche ricerche che traslano poi nei contenuti dell’attività didattica professorale. Se il commissario di concorso sbaglia – e per quella posizione individua non il migliore ma il mediocre, con ripercussioni che inevitabilmente riverberano sull’attività dell’intero dipartimento – allora dovrebbe scattare un meccanismo sanzionatorio. In che modo? Nel corso della conversione del Decreto Legge n. 147/2007, ad esempio, la Camera approvò un emendamento (presentato da Walter Tocci e da me sottoscritto) relativo al reclutamento dei ricercatori (l’occasione fu data dal rinvio al 2008 del piano di reclutamento straordinario, l’ultimo per la verità, di ricercatori a tempo indeterminato voluto dal Governo Prodi): esso disponeva la decurtazione dal FFO della quota relativa allo stipendio nel caso in cui il ricercatore, al compimento del primo triennio, non avesse raggiunto una attività di ricerca adeguata al profilo e, quindi, la sua retribuzione sarebbe stata a valere sui fondi propri dell’Ateneo. La norma suscitò molte critiche, piovute da più parti (di cui si trova ancora qualche traccia in rete) e non entrò mai a regime. Eppure, continuo a pensare che se la commissione concorsuale locale non agisce per il meglio, allora è l’ateneo deve farsi carico di “scelte sbagliate”. Più che una sanzione la potremmo definire un meccanismo di responsabilità agita… Ecco perché non mi convince la logica della premialità assegnata a pratiche che comunque, per loro stessa natura, devono (o dovrebbero) portare alla selezione dei candidati migliori. Che poi, in realtà, è quanto invece avviene già oggi – senza che si percepisca, nel bene e nel male, una sensibile differenza nei comportamenti dei commissari di concorso – dato che il 20% della quota premiale del Fondo di Finanziamento ordinario è calcolata secondo il criterio della valutazione del reclutamento, sulla base della Valutazione della Qualità della Ricerca. Nel 2016, quel 20% ha significato 286.600 milioni (poiché la quota premiale è stata di 1 miliardo e 433 milioni).
A questo proposito, interviene il secondo punto di dissenso.
Come molti commentatori, ormai, anche Terlizzese afferma che sono ancora troppo poche le risorse attribuite secondo criteri di premialità (il miliardo e 433 milioni di cui sopra) e che la sua distribuzione è condizionata da clausole di salvaguardia. Ora, è ben vero che porre “vincoli al premio” è illogico rispetto alla funzione del premio stesso (è come se al campione olimpico venisse data mezza medaglia perché il resto va ripartito tra il primo e il secondo classificati), ma è necessario introdurre nel ragionamento due valutazioni, che spiegano come si sia approdati a questa evidente illogicità. La prima riguarda il fatto che ad essere esigua non è tanto la quota premiale, quanto piuttosto lo è il finanziamento complessivo! In 10 anni, il finanziamento ordinario è passato da 7 miliardi e 448 milioni del 2008 (ultimo Governo Prodi) ai 6 miliardi e 919 milioni del 2016, transitando per l’abisso del 2010 a 6 miliardi e 681 milioni, da cui si sta ancora oggi risalendo, troppo lentamente e con troppa fatica (lo stanziamento per l’anno in corso è di 6 miliardi e 982 milioni). Una perdita secca di oltre il 15% del valore reale, in gran parte “realizzata” con il blocco del turn over del personale e quindi con la impossibilità di sostituire i docenti pensionati con giovani brillanti e motivati. Personalmente, per parlare di “persone di qualità”, sarei partita da questo dato. La seconda considerazione assente è che la premialità del sistema universitario nasce per volontà della ministra Gelmini con un peccato originale: invece di istituire un fondo dedicato, con risorse proprie per gratificare le performance migliori (come ogni premio) – obiettivo condivisibile – si decise, in modo velleitario e demagogico, di ricavarlo dal Fondo ordinario di funzionamento, peraltro dopo averne definito la drastica riduzione progressiva negli anni a venire (si vedano le cifre di cui sopra). Il combinato disposto del taglio e della incongrua collocazione della premialità all’interno del finanziamento che dovrebbe servire a far fronte all’attività quotidiana del sistema universitario – che quindi crea un sistema di vasi comunicanti – ha prodotto l’illogicità richiamata precedentemente: vale a dire un premio limitato da clausole di salvaguardia, affinché la gratifica per alcuni non diventi una penalizzazione troppo forte per altri (come se, in una competizione sportiva, l’ultimo arrivato venisse punito per la sua scarsa prestazione). In questo contesto diventa però ancora più illogico chiedere che la quota premiale aumenti! Semmai, occorrerebbe fare ciò che non fu fatto nel 2008: cioè istituire un fondo premiale separato da quello di funzionamento ordinario (e si potrebbero utilizzare, per iniziare, le risorse destinate ai dipartimenti eccellenti), incrementandolo fino a soddisfare le necessità del fabbisogno calcolato sulla base di un buon modello di costo standard (ma di questo parlerò nei prossimi giorni).
Vengo all’ultimo elemento di dissenso.
Sono in molti – Terlizzese tra questi – ad invocare per il nostro sistema universitario il modello piramidale: pochi atenei di eccellenza al vertice che attraggono i docenti e gli studenti migliori, una fascia intermedia di atenei attivi nella ricerca che aspira al vertice e una base più larga di università prevalentemente dedite all’insegnamento (non mi è chiaro come si possa essere realmente università senza una buona attività di ricerca, ma soprassediamo). Ora, sorvolo sulla abusata retorica dell’eccellenza e mi chiedo se non valga la pena di riflettere sui risultati del nostro sistema universitario prima di domandarsi se sia davvero necessario cambiare modello. Come ho già avuto modo di dire commentando l’ultima graduatoria internazionale delle università, il nostro Paese consegue un risultato di tutto rispetto: il 20% degli atenei nostrani è inserito tra i primi mille al mondo, mentre – prendendo a prestito lo studio di Alfonso Faggetta – negli “Usa sono solo l’8,4 per cento e in Francia la percentuale scende al 7,5 per cento”. In altre parole, se alcuni Paesi puntano su poche, blasonate eccellenze, che portano indubitati vantaggi a pochi studenti, da noi è tutto il sistema ad essere mediamente di alta qualità. Il modello piramidale, allora, porta davvero vantaggi al sistema-paese?
Sia chiaro, questa considerazione non è un invito a lasciare tutto così com’è: anzi, è vero il contrario! Alcuni suggerimenti di modifica delle policy le ho accennate e molto altro è da affrontare, a partire dal tema, generale, dell’accesso all’università (per aspiranti docenti e studenti, anche se, rispetto a loro, ci attendiamo qualche segnale di miglioramento dalle misure per il diritto allo studio messe in campo con l’ultima legge di bilancio). Ma per migliorare il sistema, bisogna conoscerlo (ed amarlo).

Il balsamico trentino è prodotto diverso da quello tradizionale di Modena

Amo le montagne e le valli del Trentino. Ne apprezzo la cucina e i prodotti tipici. Ed è proprio il rispetto che porto a questa cultura materiale e l’orgoglio per quella della mia terra, che mi portano a difendere la differenza di prodotto che c’è tra il nostro aceto balsamico tradizionale e il balsamico trentino. Sull’argomento, con altri colleghi emiliani (primo firmatario, Giuseppe Romanini), abbiamo interpellato il Ministro delle politiche agricole e la risposta fa piazza pulita degli equivoci dei mesi scorsi: l’aceto balsamico trentino non sarà nell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali di prossima emanazione. La risposta è quella che ci aspettavamo e riconosce la specificità dell’aceto balsamico Dop e Igp della tradizione acetaia modenese ed emiliana. L’interrogazione non è stata presentata per una una mera difesa di campanile, bensì per evitare di compiere un errore, derogando al rigore con cui devono essere riconosciuti gli elementi di tradizionalità di produzione delle nostre specialità territoriali, certificati dai marchi di qualità. Altrimenti con quale credibilità e forza potremmo tutelarli e valorizzarli in sede comunitaria e internazionale?
Risposta del sottosegretario di Stato per le Politiche agricole, alimentari e forestali, Giuseppe Castiglione, “Presidente, onorevoli colleghi, come correttamente rilevato dall’onorevole Romanini, il Ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali è in procinto di emanare il decreto ministeriale concernente la diciassettesima revisione dell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali, definiti dalle regioni e dalle province autonome di Trento e di Bolzano, ed inserite nei rispettivi elenchi.
Al riguardo, e soprattutto per fugare la preoccupazione che l’onorevole Romanini ha espresso nella sua interrogazione, vorrei precisare che il prodotto aceto balsamico trentino, non compreso nel registro dei prodotti tradizionali della provincia autonoma di Trento e di Bolzano, non è stato inserito nel predetto elenco nazionale che sta per essere varato. Quindi, l’onorevole Romanini può essere rassicurato per questa preoccupazione che aveva espresso nella sua interrogazione.”

Fascismo e antifascismo

La rubrica MetaCarpi del settimanale Voce del 13 giugno era dedicata a “Fascismo” e, tangenzialmente, citava anche la mia attività parlamentare.

Ho ritenuto utile commentare: ne è scaturito un “botta e risposta” sul numero in uscita oggi.
Ecco la mia lettera pubblica.
Cortese Direttore,
ho letto con interesse, ma non senza perplessità, la rubrica MetaCarpi dell’ultimo numero di Voce – intitolata “Fascismo” – che cita anche il mio lavoro parlamentare. La proposta di legge del collega Fiano, che ho convintamente sottoscritto, introduce il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista: la recente vicenda dello stabilimento balnerare di Chioggia, per non parlare del fascio littorio inserito nel simbolo di una lista elettorale ammessa alle recenti elezioni amministrative, dimostrano come siano diffuse le ostentazioni apologetiche delle ideologie fasciste e naziste. La proposta Fiano ha acceso un dibattito pubblico nel merito che ritengo utile e mi fa piacere che anche il suo giornale se ne sia occupato, anche se nutro perplessità sulla tesi di fondo sostenuta nella rubrica: se il fascismo degli italiani fosse davvero esclusivamente “antropologico”, quasi genetico, non avremmo potuto liberarcene e costruire una Democrazia. Preferisco pensare – con un po’ di ottimismo della volontà – che tornaconto, familismo e individualismo siano, se non superabili, almeno condizionabili da cultura e norme.
Ho invece decisamente sussultato nel leggere del fascismo realizzato come di “apparenze, qualche buona politica esemplare e di tanta messa in scena di cartone”, ammesso che abbia ben inteso il senso di quel passaggio. Spero che non si prenda ancora per buona la leggenda metropolitana “dei treni che arrivavano puntuali”, soprattutto nel carpigiano, dove i treni trasferivano da Fossoli i deportati per i campi di concentramento e di sterminio tedeschi e polacchi. Fossoli sta a testimoniare, indelebilmente, che il fascismo realizzato è stato oppressione, pensiero unico, persecuzioni razziali e degli oppositori. Di cartone, invece, ricordo soprattutto le scarpe dei nostri soldati mandati a morire nella campagna di Russia. Non mi sembrava, però, una “messa in scena”.
Con i migliori saluti,
Manuela Ghizzoni

Sollecitato, il Direttore ha replicato argomentando con chiarezza – come potete leggere nell’immagine allegata – la sua affermazione del fascismo come “messa in scena di cartone” (in origine, di facile fraintendimento).
E mi comunque diagnosticato la sindrome di antifascismo ideologico, basata sulla reazione ad un commento che si prestava al malinteso. Diagnosi affrettata ed emessa senza tener conto che tesi ed antitesi sono state entrambe condizionate dalla necessità editoriale della sintesi.
Ad ogni buon conto, continuo a ritenere il confronto sul nostro recente passato necessario e utile (senza incorrere in “apologia”).

Milioni di oriundi possono diventare “cittadini italiani”. Un diritto negato ai minori stranieri che vivono in Italia


L’immagine è tratta dal sito web L’Italia sono anch’io

Tutti i discendenti di seconda, terza, quarta generazione ed oltre, di italiani maschi (dal 13/6/1912 fino al 31/12/1947) e di donne italiane (dall’entrata in vigore della Costituzione, anche se c’è voluta una sentenza della Corte Costituzionale del 1983 per ribadire il principio di parità tra uomo e donna anche in questo ambito) sono da considerarsi a tutti gli effetti cittadini italiani e per l’ottenimento della cittadinanza dovranno solamente seguire un determinata procedura (molto italica, data la quantità di documenti da riprodurre…).
In altre parole, per lo Stato italiano può diventare cittadino un ragazzo nato e cresciuto, ad esempio, in Sud America da discendenti italiani: poco importa che, essendo magari di quarta generazione, non parli la lingua bensì il dialetto dei nonni probabilmente corrotto dai decenni di contaminazione linguistica con il paese “ospite”, che non conosca la storia e la cultura italiana o che non vi abbia mai messo piede. È di questi giorni la notizia che migliaia venezuelani di origine italiana – stante l’incertezza politica di quel Paese – hanno avanzato istanza del passaporto (300mila le domande da “orinundi” ancora inevase). Per la loro “italianità” garantisce il sangue degli avi…
È questo il principio dello iure sanguinis: ovunque tu sia nato, acquisisci comunque la cittadinanza se discendi da un avo italiano. Una norma voluta all’inizio del secolo scorso (e transitata nella legge 91 del 1992) per far fronte all’emorragia di cittadini italiani che emigravano, soprattutto nelle Americhe, e che individua il fondamento giuridico dell’appartenenza ad un comunità nella teoria “genetica”, cioè sul legame sanguineo.
“Sentirsi” parte di una famiglia è condizione che va ben oltre il sangue e il patrimonio genetico di chi ci ha generato. A maggior ragione, sentirsi componente a tutti gli effetti di una comunità nazionale è una elaborazione soprattutto culturale, che parte dalla lingua ma transita per “gli usi e costumi” quotidiani, come il cibo, la moda, le espressioni artistiche, i modi di interpretare la vita… Eppure ad un/una ragazzo/a giunti giovanissimi nel nostro Paese ma nati da genitori stranieri non comunitari, che magari hanno frequentato tutto il percorso scolastico e sono arrivati a laurearsi (è il caso – non isolato – di Ilham Mounssif, di 22 anni, marocchina che racconta la sua storia oggi su Repubblica), si esprimono in un italiano più corretto di molti coetanei e vivono quotidianamente la condizione di “essere italiano”, la cittadinanza non viene concessa. Va richiesta secondo una procedura che, attualmente, dispone vincoli rigidi: essere nati in Italia e risiedervi legalmente e ininterrottamente fino alla maggiore età, nonché avere un reddito personale di 9000 euro, che nemmeno la stragrande maggioranza dei giovani italiani ha a 18 anni. Si tratta di condizioni molto restrittive rispetto a quanto richiesto al giovane venezuelano… I tempi peraltro sono lunghi, una media di 4/5 anni, e nel frattempo quel/la giovane resterà comunque “ospite straniero” in quella che è ormai anche la sua Patria…
Questa lunga premessa per dichiarare il mio rammarico per il rinvio dell’approvazione, al Senato, della legge sulla cittadinanza ai figli di immigrati, erroneamente definita ius soli (vedremo dove sta l’errore). Rammarico perché è una legge di buon senso, molto meditata e nata dall’approfondimento delle richiesta avanzate dai “nuovi italiani”.
Secondo il testo all’esame del Senato e già approvato dalla Camera – nel lontano 13 ottobre 2015 con ben 310 sì, 66 no e 83 astenuti – il diritto alla cittadinanza italiana da parte di un minore straniero si acquisisce alle seguenti condizioni, previa dichiarazione di volontà espressa da parte di un genitore legalmente residente in Italia:
1. essere nato in Italia da genitori stranieri di cui almeno uno in possesso del permesso per soggiornanti di lungo periodo, che viene rilasciato solo a chi ha già avuto un permesso di 5 anni, ha un reddito superiore all’assegno sociale, ha un alloggio che risponde ai requisiti di legge e ha superato un test di italiano. Questo diritto non è uno ius soli puro, bensì temperato da condizioni economiche e sociali, ma che individua il luogo di nascita come luogo di radicamento, di integrazione e di crescita;
2. essere nato in Italia o vi abbia fatto ingresso prima dei 12 anni e abbia frequentato per almeno cinque anni uno o più cicli scolastici (questo è lo ius culturae).
Il dibattito pubblico, a proposito della proposta di legge, si rivolge quindi ad una platea circoscritta e che conosciamo bene se solo abbiamo occasione di frequentare, ad esempio, una scuola italiana.
Eppure dai tanti interventi che si leggono sui social si ha l’impressione che molti giudizi non siano espressi nel merito (forse fuorviati anche dalla definizione ius soli), ma si poggino sul sentito dire, sulle proprie convinzioni ideali o ideologiche, a prescindere dalla questione, e sui sentimenti che si materializzano davanti agli attuali sbarchi di migranti. Vero, il legislatore deve tenere conto del tempo storico in cui si agisce – non può astrarsene – ma non può nemmeno esserne condizionato fino alle estreme conseguenze (a meno di non volere una politica orientata solo alla ricerca del consenso e piegata alle esigenze del quotidiano e non a quelle del futuro). Oltre la metà degli italiani (53,1%), interpellati da un recente sondaggio di Euromedia, afferma di essere contrario alla proposta di legge per due motivi: il primo è che altre sono le emergenze del Paese – soprattutto quelle di carattere economico – mentre il secondo è che le nuove modalità per acquisire la cittadinanza sarebbero un invito rivolto ai migranti per approdare ancora più numerosi sulle nostre coste.
Sono ragioni legittime, evidentemente, ma che non condivido.
La prima motivazione, quella “benaltrista”, è destituita di fondamento, poiché una seduta del Senato da dedicare all’approvazione della legge né inficia né preclude l’attività parlamentare sulle questioni economiche, come peraltro dimostra il recente varo della “manovrina” che, insieme al complesso delle precedenti misure approvate dal 2014, permetteranno di affrontare la prossima legge di bilancio con maggiore tranquillità.
La tesi del presunto invito che la legge invierebbe ai migranti economici e richiedenti asili, poi, è smentita dal trend dello stesso fenomeno migratorio, che da tempo non è più emergenziale ma consolidato e in costante crescita per l’instabilità dall’area africana e medio-orientale: quanto accade nel mare nostrum e sulle nostre coste è conseguenza di un fenomeno che ha radici lontane, storiche e geografiche, che necessita di soluzioni sovranazionali – come sta facendo l’Italia in Europa – e che di certo non si intensificherà per l’approvazione di una legge che tende a certificare legalmente quella che è già una appartenenza fisica e materiale alla comunità italiana.
Sui social ho letto anche considerazioni più articolate e caute sull’opportunità ora – stante il pericolo del terrorismo jihadista – di concedere la cittadinanza ai minori per il tramite di un genitore, per evitare che ci si possa ritrovare con un “potenziale terrorista con tanto di Diploma, che ha frequentato le scuole ma odia lo stato in cui è cresciuto e non ha nessuna voglia di essere cittadini”. Vero, quanto accaduto di recente in Francia e in Belgio – e quanto avvenuto nella banlieu parigina e nel quartiere Molenbeek di Brussels nei decenni scorsi, per citare qualche esempio – deve indurci a riflettere sulle pratiche attive dell’integrazione, fondate su inclusione e rispetto della legalità, ma non sarà l’attendere il 18 anno di età per richiedere la cittadinanza a scongiurare istanze fraudolente negli intenti: noi che abbiamo vissuto la stagione dello stragismo nero e delle Brigate Rosse sappiamo cosa significhi l’attacco allo Stato da parte dei propri figli.
Nonostante le mie convinzioni personali, comprendo la cautela politica del Governo Gentiloni nell’annunciare il rinvio dell’esame del provvedimento all’autunno, poiché al Senato mancano i voti – anche da parte di un pezzo della maggioranza – necessari per l’approvazione. Se si è realmente interessati alla legge, non c’è bisogno, come suggerisce qualcuno nel nome della funzione legislativa che spetta al Parlamento, di procedere comunque con i voti in Aula per verificare se i numeri siano davvero insufficienti: se durante l’esame venisse approvato un qualsiasi emendamento contrario alla spirito della proposta, la norma sarebbe definitivamente morta. E non si può mettere a repentaglio l’esecutivo, a poco più di due mesi dalla presentazione della legge di bilancio, stante la posizione contraria assunta da un alleato di Governo, Ap, mentre i voti di SEL non sarebbero sufficienti a compensare le defezioni della maggioranza.
Quello descritto è un mesto quadro di real politik: così come mesti sono i tanti giovani “nuovi italiani” promotori della campagna L’Italia sono anch’io. Per loro, il tempo dell’attesa non è finito.

P.s.: immagino che non pochi lettori di Carpi e dintorni, leggendo questa nota, possano etichettarla come il solito pistolotto buonista di sinistra, insensibile ai veri problemi degli italiani, anche perché è ancora nei loro occhi il danno compiuto da tre giovani non italiani, studenti di due scuole superiori carpigiane e che non avendo meglio da fare nel corso di una notte hanno danneggiato pesantemente 4 minubus di linea oltre che l’ingresso dell’Istituto Meucci. Danni per centinai di migliaia di euro. È giusto che paghino le conseguenze del loro comportamento insensato. Ma il comportamento deplorevole di tre ragazzi non può e non deve obliterare tutte le storie di vita dei loro coetanei che frequentano la scuola con profitto (ne ho premiati alcuni consegnando loro il diploma di maturità del liceo scientifico), che proseguono gli studi universitari (li ho avuti come studenti all’Ateneo di Bologna) e che cercano di inserirsi nel mondo del lavoro. Esattamente come i loro coetanei italiani.

Verità e giustizia per Ilaria Alpi e Milan Hrovatin

Noi non archiviamo la ricerca della verità sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Oggi pomeriggio, alla Camera, è stato diffuso pubblicamente l’appello che un nutrito gruppo di parlamentari – che anche io ho sottoscritto – ha lanciato affinché l’intera vicenda non venga dimenticata, abbandonata indefinitamente nel limbo dei casi irrisolti. Alla conferenza stampa, insieme al collega Verini e al presidente della Fnsi Giulietti, c’era anche Luciana Alpi, la mamma di Ilaria che, instancabilmente, da ben 23 anni, attende che sia fatta piena luce su quanto accadde in Somalia, quando i due giornalisti Rai, che stavano conducendo un’inchiesta su un traffico di armi e rifiuti tossici, vennero uccisi, con alta probabilità su commissione. Luciana Alpi, per l’ennesima volta, con dignità, ma anche con grande dolore personale, ha ribadito di volere conoscere cosa sia realmente accaduto alla figlia. Per 17 anni un innocente è stato tenuto in galera: “un” colpevole individuato quasi a risarcire la sete di verità della famiglia. Ma questa madre ha ribadito, con forza, in conferenza stampa: “Non voglio un colpevole, voglio il colpevole”. Il colpevole di un gesto efferato perpetrato per mettere un pietra tombale su una inchiesta scomoda, incentrata sugli sporchi traffici innescatisi tra la Somalia e l’Italia all’ombra della cooperazione internazionale. Accanto a Luciana, chiediamo verità e giustizia per Ilaria e Miran: lo dobbiamo a loro, alle loro famiglie, ma anche all’Italia, alla democrazia del nostro Paese, ferita in quegli anni da misteri e vicende come queste e da interrogativi che non possono, non debbono rimanere senza risposta.