Tradizionalmente l’auspicio di una maggiore integrazione delle donne nel mondo del lavoro si fonda su principi di equità. Ora alcuni saggi sostengono che la valorizzazione delle donne risponde anche a criteri di efficienza economica. Un approccio particolarmente interessante per l’Italia, dove la partecipazione femminile è assai scarsa, le donne difficilmente arrivano ai vertici di aziende e istituzioni e anche la fertilità è bassa. Politiche e interventi che sostengano le scelte di lavoro e di famiglia possono far bene anche al nostro Pil.
Nell’ultima settimana sono usciti due libri dal titolo molto simile: Rivoluzione Womenomics e Womenomics. (1)
Di che cosa si tratta?
DONNE ED ECONOMIA
La womenomics è stata introdotta da Kathy Matsui, analista di Goldman Sachs, e ripresa dall’Economist per definire la tesi che motiva l’esigenza di una maggior integrazione delle donne nell’economia non in base solo aprincipi di equità, ma anche in base a principi di efficienza economica.
Fino a qualche anno fa, la maggior parte degli interventi a favore di una maggiore integrazione delle donne nel mondo del lavoro si appellava ai principi di equità. Integrare e valorizzare le donne andava fatto perché era giusto. Ora, con questo e altri saggi e con interventi recenti che ne condividono l’approccio, si cambia il punto di vista. (2) Una maggiore integrazione e valorizzazione delle donne non risponde solo a principi di equità, ma risponde anche a criteri di efficienza economica.
Lo studio di Matsui si concentrava soprattutto sull’economia giapponese, da tempo in declino e caratterizzata da una partecipazione delle donne al lavoro e da una loro presenza nei ruoli direttivi tra le più basse fra i paesi sviluppati. Il Giappone è molto simile all’Italia. In ambedue i paesi troviamo insieme alla scarsa partecipazione femminile al lavoro, una bassa natalità e un forte ristagno economico. L’Italia è, in Europa, tra i paesi con i risultati peggiori in termini di differenziali di genere, in particolare con riferimento a lavoro e politica. Questo evidenzierebbe, specialmente per il nostro paese, un potenziale di crescita che un maggiore e migliore impiego delle capacità femminili consentirebbe di mettere a frutto. Chiudere il gap tra presenza maschile e femminile nel mondo del lavoro contribuirebbe anche ad alleviare il problema pressante della sostenibilità delle pensioni: l’aumento del numero degli occupati fra le persone in età lavorativa, infatti, ridurrebbe il cosiddetto “rapporto di dipendenza”, ossia quello fra pensionati e lavoratori.
IL CASO ITALIA
Un approccio di questo tipo è particolarmente importante per l’Italia, soprattutto in una fase in cui la posizione delle donne sembra peggiorare invece di migliorare. Secondo i dati Istat 2009, non solo il tasso di partecipazione femminile fermo nell’ultimo decennio al 46 per cento è in lieve diminuzione, ma anche il tasso di disoccupazione scende, soprattutto nelle regioni del Sud, un segnale di scoraggiamento e rinuncia.
Il Gender Gap Index 2009 vede l’Italia al settantaduesimo posto, in caduta rispetto alle posizioni degli anni precedenti. Tra le donne, l’incidenza del precariato è cresciuta ed è oggi di più del 20 per cento, il doppio dei maschi. I tassi di natalità restano bassissimi e in lieve discesa negli ultimi due anni, mentre la povertà è in crescita tra le famiglie monoreddito: oggi i monoreddito sono il 72 per cento del quintile più basso e il 10 per cento del quintile più alto.
Infine, le donne italiane sono meno rappresentate politicamente e meno rappresentate ai vertici delle istituzioni e delle carriere rispetto ad altri paesi. Secondo le statistiche della Commissione europea, il nostro paese è ventinovesimo (su trentatre censiti) per numero di donne presenti nei consigli d’amministrazione delle società quotate in borsa. La composizione dei consigli d’amministrazione delle società del Mib30 mostra che su 466 cariche consiliari, soltanto undici sono ricoperte da donne.
Eppure, anche in Italia le donne mostrano in vario modo il loro desiderio di investire nel lavoro. Come nella maggior parte dei paesi sviluppati, i tassi di istruzione femminili sono più alti di quelli maschili, le ragazze escono con voti migliori e arrivano ai titoli di studio in un tempo più breve. Escono anche prima dalla famiglia d’origine: almeno due-tre anni in media prima dei coetanei maschi.
Se a metà degli anni Novanta le donne italiane intorno ai trent’anni che avevano già formato una unione di coppia erano circa il 65 per cento, nel 2009 quel valore è sceso a un terzo, uno dei più bassi d’Europa, mentre l’età media alla nascita ha superato 30 anni, una delle più alte d’Europa.
Tutto ciò è segno dell’impegno e del desiderio delle donne di partecipare in modo attivo e continuativo al mercato del lavoro, ma anche del caro prezzo che stanno pagando. Perché allora le imprese non cercano di sfruttare di più questo capitale umano e questo potenziale di lavoro altamente qualificato?
Non solo le ricerche macro mostrano una relazione tra occupazione femminile e crescita economica, le ricerche micro mostrano che sono proprio i gruppi di lavoro “misti” a essere più produttivi dei gruppi tutti maschili o tutti femminili. (3) Se nella maggior parte delle imprese, ma – aggiungiamo noi – anche nella maggior parte delle istituzioni, i comitati esecutivi e i consigli d’amministrazione sono formati esclusivamente da maschi fra i 50 e i 65 anni, il reclutamento e le progressioni di carriera femminili seguono i criteri del genere dominante e sono basati su quella cultura e quel linguaggio.
Tuttavia, aggiungiamo ancora noi, l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro è stato anche il risultato di una “mascolinizzazione” dei modelli femminili, mentre niente di analogo è avvenuto nei modelli di carriera e negli stili di leadership maschili. Da un lato, le culture aziendali sono rimaste caratterizzate da modelli, da stili e da tempi di lavoro “maschili”, anche quando le imprese hanno cominciato a popolarsi di schiere di personale femminile. Dall’altro, come mostrano i confronti internazionali, alla crescita della partecipazione al lavoro femminile è corrisposta una scarsa o nulla crescita della partecipazione degli uomini al lavoro domestico e di cura dei figli anche quando le donne lavorano con orari simili e in particolare in Italia.
In questo quadro è importante cercare di rendere le politiche di conciliazione, part-time e congedi di genitorialità, più gender-neutral. Servono cioè politiche o interventi che sostengano le scelte di lavoro e di famiglia di uomini e donne. Nei paesi scandinavi e in Francia, le politiche pubbliche sostengono uomini e donne che lavorano: i congedi non troppo lunghi sono fruibili da ambedue i genitori, anche part time, sono stati introdotti servizi di vario genere e tipologia per i genitori, è previsto il telelavoro da casa, sempre per ambedue i genitori. E in quei paesi, la partecipazione femminile al mercato del lavoro e la fertilità sono più alte che nel resto d’Europa.
(1) A. Wittenberg-Cox e A Maitland Rivoluzione Womenomics, Il Sole 24Ore, 2010 eClaire Shipman eKatty KayWomenomics, Cairo 2010.
(2) Ferrera M. Il fattore D, Mondatori 2007
(3)Come mostrano i calcoli di una ricerca di Goldman Sachs citata in Rivoluzione Womenomics, colmare il gap occupazionale di genere potrebbe produrre incrementi del Pil del 13 per cento nell’Eurozona, del 16 per cento in Giappone e ben del 22 per cento in Italia.
La voce.info