Per Palmiro Togliatti non andare alle urne era «un vizio da piccolo-borghesi». E quando Bettino Craxi nel ‘91 rivolse il celebre appello anti-referendario «andate al mare», la scelta astensionista fu connotata – anche lessicalmente – con le stigmate del disimpegno fru fru. Oggi no, tutto è diverso. Oggi si astengono trentenni colti, motivati, non di rado benestanti. Ma vagheggia l’astensione – e ne parla al cliente – anche la proprietaria del bar, la commessa, la piccola partita iva. L’astensione, che un tempo si credeva mirata solo a far male a sinistra, appare uno spettro trasversale, e popolare. È diventata un argomento di dibattito fuori dai salotti disillusi.
«Io penso che sì, mai come oggi l’astensione può rappresentare una precisa opzione politica, un’opzione non demonizzabile», analizza Marco Tarchi, scienziato della politica a Firenze, da sempre privo di dogmatismi su questa materia spesso offuscata dal politically correct. Astenersi è sempre un male? «Naturalmente per ottenere un effetto significativo l’astensione dovrebbe superare un livello di guardia psicologico, raggiungere, diciamo, un terzo dell’elettorato. Se avessimo un risultato del 65 per cento di votanti, o anche qualcosa in meno, ecco, credo che le leadership dei due blocchi dovrebbero cominciare a interrogarsi». È uno scenario possibile?
Sostiene Renato Mannheimer che, al momento, «sul partito dell’astensione i dati oscillano anche di molto, tra il 20 e il 30 per cento dell’elettorato. Il problema è che molti elettori dicono di sentirsi delusi, sfiduciati, di non credere più a questa classe politica, ma magari nell’ultima settimana decidono di votare comunque». Tra l’altro i dati sull’astensione (certa o possibile) sono nazionali, e in una consultazione regionale potrebbero venir ridimensionati. Non si vota per esempio in regioni dove un astensionismo fisiologico – non di scelta – è assai alto, per esempio le isole. In Italia è anche solo concepibile un effetto-Francia, il 53 per cento di disertori delle urne? Mannheimer: «Sì, stavolta un’alta astensione è una possibilità reale. Non di dimensioni francesi, magari; ma mai così alta prima da noi».
Qualcosa di culturale è mutato nella percezione italiana. Alle politiche del ‘53 o del ‘58 votarono il 93,8 per cento degli italiani. Ma dalla svolta maggioritaria del ‘93 in poi è iniziato un calo costante, culminato col 35% di astensioni alle ultime europee. A San Salvario, quartiere torinese esposto a grandi dinamiche migratorie ma anche a una progressiva urbanizzazione da parte di ceti colti, giovani, abbienti, la Lega (con Borghezio) ha avviato una campagna anti-astensionista per sostenere Roberto Cota alle Regione, casa per casa, banchetto per banchetto. Segno che il rischio c’è, e uno dei pochi partiti ancora radicati ha le antenne per capirlo. A Milano, sull’opposta sponda politica, Giovanni Colombo, consigliere comunale del Pd tra i fondatori della Rete negli anni novanta, ha lanciato un’iniziativa pro astensione: «Non possiamo ribaltare i rapporti di forza per Formigoni, allora io dico: togliamogli l’ossigeno. Se va a votare poco più del 50 per cento degli elettori sarà un segnale molto forte, per un Formigoni dimezzato, ma anche per una sinistra che dovrà finalmente cambiare il proprio cavallo». Cosa curiosa, le più disposte ad aderire all’appello astensionista, nel suo sondaggio su 15 mila persone, sapete chi sono state? Le donne.
Prima il partito dell’astensione coincideva con elettori di sinistra delusi, magari intellettuali. Oggi no, di astensione puoi sentir dibattere in un mercato, o tra artigiani elettori classici del centrodestra. Silvio Berlusconi ieri ha rassicurato, «da noi non ci sarà un’astensione alla francese». Eppure, da rabdomante qual è, quattro giorni fa aveva spedito un videomessaggio ai suoi «promotori della libertà» in cui dice «quello dell’astensione dal voto è un pericolo che dobbiamo contrastare con la verità dei fatti». Il pasticcio delle liste ha inciso, e molto. Prendete il caso-Lazio. Racconta il politologo Roberto D’Alimonte che in assenza di una lista Pdl «la maggior parte degli elettori della Polverini voterebbe altre liste del centrodestra ma una parte non andrebbe a votare, e questi sono molto probabilmente i voti che fanno la differenza in più a favore della Bonino».
«Italiafutura», think tank fondato da Luca Cordero di Montezemolo che ha contribuito a riaprire la discussione con un articolo di Andrea Romano e Carlo Calenda, ha riportato un sondaggio Swg che fornisce non solo un dato generale (il 25% degli italiani è «favorevole» all’astensione e il 17% risponde «dipende»), ma un elemento notevole: tra i più giovani (gli under trenta) i favorevoli salgono al 32, e un 19 è tentato di non votare. «Sarebbe un’astensione civica, non qualunquista», dice Romano mentre pranza con un panino e un bicchiere di coca-cola. E ieri, sul sito di «Italiafutura», Michele Ainis ragionava, da costituzionalista, di una «astensione come forma di obiezione di coscienza».
Un popolo di outsider sbuffa, non ne può più. Manda a dire ai partiti: avete stufato. L’elettorato italiano rimane restio a travasi destra-sinistra o viceversa. Colpisce, però, che a sinistra l’emorragia dal Pd a Di Pietro si sia fermata, se proprio Tonino oggi preconizza: «La politica non si rinnova, anche dal punto di vista generazionale, credo che purtroppo i cittadini daranno la maggioranza relativa al partito dell’astensione». E, attenzione, «non a favore di questo o quel partito», anche perché, dice, «bisognerebbe andare a cercare con il lanternino chi ne è fuori». Già, ormai chi ne è fuori? Altro che andare al mare, non votare potrebbe essere la prima scelta pubblica di questo popolo pop.
La Stampa 16.03.10