E’ l’abbandono dopo l’obbligo la piaga più sanguinolenta del sistema scolastico italiano. Il 20 per cento dei ragazzi che oggi hanno tra i 20 e i 24 anni non ha completato la secondaria superiore. Uno su cinque, dunque. «Una vergogna, un dato che pone il nostro paese al di fuori di ogni norma europea», commenta Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, che presenta oggi a Roma il Rapporto sulla scuola in Italia 2010, con l’intervento del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. Il 50 per cento di questi ragazzi non ha neppure avviato un ciclo di studi dopo le medie, l’altra metà, invece, l’ha iniziato ma interrotto.
Gli studenti a rischio di drop-out, sono generalmente maschi e con un retroterra socio-culturale svantaggiato: il 30 per cento di loro ha mollato per ragioni familiari. Una volta tanto, non ci sono differenze tra Nord e Sud: si distribuiscono a macchia di leopardo fra le scuole italiane. Cresce, fra loro, la quota degli studenti di origine straniera, anche se oggi rappresentano soltanto il 5 per cento degli iscritti alle superiori. Se l’intera popolazione conseguisse un diploma di scuola superiore, eliminando gli abbandoni, e tutte le condizioni economiche fossero magicamente favorevoli, si potrebbe produrre un incremento del tasso di occupazione pari al 6,3 per cento (circa un milione e 300 mila occupati in più) e un reddito aggiuntivo annuale di 4 punti di Prodotto interno lordo.
Ma gli abbandoni sono solo la prima delle quattro grandi “iniquità” della nostra scuola. La seconda sta nella selezione di classe sociale che avviene all’atto dell’iscrizione ai diversi tipi di scuola superiore. I figli dei ceti più abbienti e più istruiti vanno a frequentare i licei, dove la probabilità di laurearsi è pari al 50 per cento, gli altri negli istituti tecnici (dove la previsione di laurea scende al 12) o in quelli professionali, dove la loro carriera scolastica si ferma (arriveranno alla laurea solo il 5 per cento).
La soluzione proposta dalla Fondazione Agnelli per evitare questa ingiustizia, che poco ha a che fare col merito, è quella di mantenere tutti gli studenti in un percorso comune fino al completamento dell’obbligo formativo (16 anni). Terza iniquità: l’indirizzo prescelto non solo ti apre o ti chiude le porte della laurea, ma incide anche sui risultati scolastici contingenti. Dai collaudati test Ocse-Pisa, effettuati ogni anno a una platea di 20 mila studenti, risulta che uno studente del liceo ottiene 61 punti in più (su 500) rispetto a uno delle professionali. Infine, quarta piaga, i divari territoriali negli apprendimenti. Essere studenti al Nord, indipendentemente dalle caratteristiche individuali e dal tipo di scuola, significa 68 punti in più (indagine Ocse-Pisa 2006) rispetto al Mezzogiorno.
La domanda che ci si pone allora è la seguente: il federalismo scolastico imposto dalla legge Calderoli del 2009, non rischia di aumentare tali divari? Al criterio del costo storico, con cui lo Stato finanziava la spesa delle Regioni, entro il maggio del 2011 si dovrà sostituire infatti quello dei livelli essenziali delle prestazioni calcolati sulla base dei costi standard della regione più efficiente. «La nostra proposta – afferma Andrea Gavosto – è che lo Stato dia un tempo di 3-5 anni alle Regioni in ritardo per adeguarsi, ponendo loro come obiettivo il dimezzamento degli abbandoni e la riduzione netta di quella soglia del 30 per cento di ragazzi che nel Sud non ottengono ai test i risultati minimi accettabili. Questo sforzo di adeguamento va finanziato. Si coinvolga l’Istituto di valutazione Invalsi nei test di controllo e in caso di fallimento degli obiettivi, scatti come sanzione il commissariamento».
L’Italia spende per l’istruzione 8.200 dollari a studente, su una media Ocse di 7.283. Il nostro problema è di avere un numero piuttosto basso di alunni (compensato, nel Nord, dai figli degli immigrati) e un numero relativamente alto di insegnanti. In definitiva, e a sorpresa, il settore dove il divario è più contenuto è quello digitale: secondo l’Indagine Pisa del 2006 nelle scuole vi sarebbe un computer per la didattica ogni 17 studenti, contro uno ogni 15 della media europea. Ma, secondo dati successivi del Miur, nel 2007-2008 eravamo ad uno ogni 10. C’è molto da lavorare ancora, formando docenti e stimolando gli allievi.
Il Messaggero 24.02.10