L’obiettivo di eliminare nel 2010 la pratica delle mutilazioni sessuali femminili non è stato raggiunto: ogni anno le vittime sono tre milioni Ma ci sono stati passi avanti. Il caso della Mauritania e la fatwa degli ulema.
Doveva essere l’anno zero, il 2010, la fine della pratica della mutilazione genitale femminile, una piaga che colpisce 3 milioni di bambine ogni anno soprattutto nell’Africa centrale ma anche in Indonesia, Egitto e persino tra le immigrate in Europa e in America. Servirà invece almeno un’altra generazione per debellare la pratica che prescrive ad ogni madre e zia di ragazza «perbene» di essere la sua carnefice, la sua torturatrice.
La tradizione, ammantata da precetto religioso per i musulmani ma seguita in Senegal ad esempio anche dalla minoranza cristiana, vuole che la giovane degna di essere sposata sia amputata in tutto o in parte del clitoride. «Altrimenti è convinto Fatimatou, un padre di Nouakchott in Mauritaniamia figlia non potrà pregare o sposarsi». In occasione della giornata mondiale contro la mutilazione genitale femminile dello scorso 6 febbraio l’Unicef ha ricordato che nel mondo ci sono 120 milioni di donne che hanno subito questo trattamento. Cinquecentomila vivono in Europa. Una diritto umano calpestato, eppure non esiste ancora nessuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che abbia bandito questa attività, chiesta a gran voce dalla campagna Tolleranza zero a cui partecipa l’associazione Non c’è pace senza giustizia. Negli ultimi anni si sono fatti passi da gigante, in molti Stati sono state emanate leggi contro la mutilazione femminile, soprattutto tra la prima e la seconda conferenza del Cairo sui diritti delle donne, cioè tra il 2003 e il 2008. L’attività di lobbing delle associazioni internazionali, appoggiate dalle agenzie Onu, ha conquistato alla causa importanti appoggi istituzionali da governi e first lady come Suzanne Mubarak e Chantal Compaoré di Egitto e Burkina Faso, che hanno promosso convegni e campagne d’informazione.
È il lavoro sul campo però il più complesso, nelle zone rurali e arretrate. Proprio dove è più diffusa l’infibulazione delle ragazze e delle bambine il processo di affrancamento da questo retaggio da schiave è più lento. Per contrastarlo non basta una campagna di sensibilizzazione sui rischi di effetti collaterali con personaggi famosi come testimonial. Bisogna andare casa per casa, convincere il gran marabù e il capo tribale. È ciò che è avvenuto in questi mesi in dieci villaggi del Niger occidentale, nella regione del Tillabery al confine con il Mali, che si sono convinti ad abbandonare queste pratiche. In Sudan il governo ha promosso una campagna di informazione capillare con l’obiettivo di ridurre a zero le mutilazioni entro una generazione, «entro il 2018», vista la tendenza che vede di madre in figlia decrescere fortemente il numero di coloro che accettano di tramutarsi da vittima in carnefice.
In Mauritania dove il 90 percento delle ragazzine vengono mutilate nonostante una legge lo vieti da cinque anni, lo scorso 12 gennaio, dopo due giorni di serrata discussione, un forum di 34 ulema e saggi sunniti ha emesso una fatwa, un precetto imperioso in base alla legge coranica, mettendo al bando le mutilazioni genitali femminili definite «atto anti islamico». Lo sceicco Ould Zein, capo del consiglio degli eruditi ha spiegato che se anche l’escissione viene citata negli Hadiths, le testimonianze della vita del Profeta,«non c’è alcun riferimento chiaro che legittimi questa pratica nel Corano». La difficoltà ha aggiunto Zein è quella di separare la religione dalla tradizione. Per questo, secondo Isatou Touray dell’ong Gamcotrap in Gambia non è del tutto contraria a pratiche alternative. Una sorta di limitazione del danno, per dare una alternativa alla scelta secca tra conformarsi o opporsi alla tradizione, con la coscienza che si tratta di un percorso culturale lungo e tortuoso. In Kenya e in Costa d’Avorio la medicalizzazione dell’operazione pare abbia ridotto dall’80 al 50% le donne mutilate. Mentreper ammissione dell’Oms la messa al bando della pratica in alcuni Paesi ha abbassato l’età dell’intervento in una deriva sempre più clandestina. Resta il diritto umano calpestato, vissuto nel silenzio e tramandato di madre in figlia. Un silenzio che rimbomba nelle stanze del Palazzo di Vetro.
L’Unità 22.02.10
Pubblicato il 22 Febbraio 2010
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