La crisi della giustizia penale in atto da molti anni presenta due aspetti. Da un lato, essa è crisi di funzionalità, efficacia, efficienza dell’intervento giudiziario e dipende in grandissima parte dalla cattiva politica legislativa e dal disinteresse, risalente negli anni, verso gli aspetti organizzativi. Dall’altro, è crisi di fiducia da parte dell’opinione pubblica nelle decisioni dei giudici, di credibilità dei magistrati nel rispondere alla domanda di giustizia.
Questa diminuita credibilità è conseguenza sia della carenza di efficienza, di cui i magistrati non sono i principali responsabili, sia dei comportamenti di alcuni magistrati, come talune decisioni sbagliate e non comprensibili o come gli episodi di scarcerazione di persone condannate dovuti a negligenza nella redazione tempestiva dei provvedimenti. Ma non si può negare che abbia avuto gran peso la campagna di delegittimazione e denigrazione ai danni dei magistrati che dura da decenni – raggiungendo negli ultimi anni una particolare violenza e intensità – e che ha la sua origine nella situazione conflittuale venutasi a creare con il sistema politico o, più esattamente, con una parte di esso.
Nonostante tutto ciò, nonostante le condizioni di grave difficoltà operativa degli uffici giudiziari e la diminuita credibilità, molti processi, importanti o meno, vengono quotidianamente portati a termine nelle aule di giustizia e numerosi sono stati in questi anni i risultati raggiunti, anche dal punto di vista giudiziario, nel contrasto alle forme più gravi di criminalità. Recentemente gli esponenti del governo hanno voluto evidenziare, rivendicandone il merito alla propria azione, il rilevante numero di latitanti appartenenti alle organizzazioni criminali arrestati e l’altrettanto rilevante quantità di beni confiscati alle organizzazioni criminali stesse. È vero che l’eccellente lavoro delle forze di polizia è conseguente anche a scelte operative, direttive e orientamenti del governo. Ma è il caso di ricordare che dietro quegli arresti e quelle confische c’è anche il consistente lavoro giudiziario di tanti magistrati, che hanno trasformato i risultati dell’attività delle forze di polizia in provvedimenti giudiziari, spesso molto complessi, al termine di procedimenti quasi sempre di non breve durata e di non facile svolgimento. Sarà bene ricordare che le decisioni dei giudici sono la necessaria premessa per catturare qualcuno e confiscarne i beni.
La crisi della giustizia penale è soprattutto connessa ai tempi lunghi che separano l’inizio delle indagini dalla conclusione del processo con la sentenza definitiva. Questa eccessiva durata, da una parte, espone al rischio del risultato nullo del processo (prescrizione), dall’altra, provoca l’enfasi su custodia cautelare e indagini (peraltro, un vizio antico). E infine, può produrre anche l’ingiustizia di una pena scontata molto tempo dopo il fatto. Anche a questo proposito, però, è bene avere le idee chiare sulla durata dei processi. I rilevamenti statistici compiuti in occasione della discussione sul disegno di legge riguardante il processo breve, sia pure approssimativi, hanno evidenziato che in realtà la grande maggioranza dei processi di primo grado si conclude nel termine di due anni dall’esercizio dell’azione penale (non dall’inizio del processo, dunque, ma dal momento in cui il pubblico ministero chiede il processo); il vero punto critico, invece, è rappresentato dal lasso di tempo che separa la conclusione del giudizio di primo grado dal giudizio di appello. Contrastare la lunga durata dei processi, che dipende dalle cause che di seguito si indicheranno, fissandone per legge la durata massima e stabilendo che decorso il termine finale tutto si annulli, non è però il rimedio. Anzi si tradurrà in un ulteriore effetto di ingiustizia nei confronti delle persone i cui interessi sono in gioco nel processo.
D’altra parte, se è vero che il tempo è connotato essenziale della decisione giusta, è anche vero che la brevità del processo non può diventarne la caratteristica essenziale e il valore primario. La durata del processo deve essere «ragionevole» recita l’articolo 111 della Costituzione, ma è soprattutto importante che esso sia equo, in questo senso «giusto» secondo i parametri della norma costituzionale citata. Ne consegue dunque, tra l’altro, che la scelta operata nel 1989 per un metodo processuale fondato sul contraddittorio nella formazione della prova (che è l’essenza del sistema accusatorio) non deve essere abbandonata bensì ribadita. Tutto quello che può rafforzarla assicurando nella fase processuale la parità delle armi tra accusa e difesa è condivisibile. A condizione che non si spaccino per garanzie formalismi inutili il cui scopo sia quello di dilazionare il più possibile la decisione.
Fatte queste considerazioni e tornando al tema della crisi, occorre interrogarsi su come uscire da essa, migliorare la funzionalità della giustizia e riacquistare la fiducia della pubblica opinione. Per individuare i rimedi bisogna avere chiare le cause della crisi, che sono molteplici e di diverso tipo. Si fornisce di seguito, in modo sintetico, un catalogo delle principali cause, in relazione alle quali appare urgente intervenire.
Innanzitutto vi è l’enorme estensione della legislazione penale, il che significa, in termini più semplici, un numero esagerato di reati e un ricorso eccessivo alla pena del carcere. Qualche anno fa si parlava di “diritto penale minimo”, vale a dire del ricorso alla sanzione penale solo per le condotte che mettessero a rischio i beni fondamentali della persona e della collettività, della sanzione penale come extrema ratio nella tutela dei beni, a cui fare ricorso solo se altre sanzioni si dimostrassero insufficienti. Nel periodo della bicamerale si prospettò addirittura l’introduzione nella Costituzione della riserva di codice per le leggi penali, nel senso di vincolare a interventi sistematici la produzione normativa penale evitando il continuo ricorso alla previsione di reati con leggi speciali. Nell’ultimo decennio la direzione è stata quella opposta, verso un ricorso continuo alla introduzione di nuove fattispecie penali, senza attenzione alla razionalità e coerenza del sistema. Nessun apparato giudiziario, per di più se caratterizzato dal principio di obbligatorietà dell’azione penale e da una concezione garantista del processo, può far fronte ad un numero così elevato di reati. Occorre dunque intraprendere seriamente la strada del contenimento del diritto penale, se non proprio del diritto penale minimo. A titolo di esempio, perché non pensare ad un intervento riformatore sui reati attribuiti alla competenza del giudice di pace? Si tratta di reati minori, legati prevalentemente alla conflittualità tra le persone, come ingiurie, minacce, lesioni non gravi, per i quali è previsto l’intervento del pubblico ministero, vale a dire degli uffici di procura, il rito del processo penale, sia pure con qualche semplificazione, la possibilità dell’appello e del ricorso per Cassazione. Perché non trasformare questi reati in illeciti di carattere civile dando alla persona offesa la possibilità di ricorrere al giudice civile (lo stesso giudice di pace), con procedura semplificata senza impegnare polizia giudiziaria e pubblico ministero?
È evidente come l’eccessiva estensione del diritto penale si rifletta poi sulla situazione del carcere, anch’essa oggetto da tempo di denunce e critiche per il sovraffollamento e le condizioni di vita dei detenuti. Invero, non si tratta solo di fare i conti con una legislazione penale troppo estesa, ma anche con l’eccessivo ricorso nella previsione della legge al carcere come sanzione, nonostante sia oggi disponibile nel sistema un insieme articolato di sanzioni diverse.
In secondo luogo, la legislazione processuale vigente appare priva di coerenza. Sull’impianto iniziale del codice di procedura penale del 1989, ispirato al sistema accusatorio ma con l’apporto di molte correzioni, si sono stratificate numerose modifiche sia per i ripetuti interventi iniziali della Corte costituzionale sia per le tante modifiche legislative, quasi sempre ispirate a logiche di emergenza o di eccezionalità ovvero a esigenze del momento riconducibili a specifiche vicende processuali. Il risultato è un sistema processuale in cui sono presenti molti formalismi senza una vera giustificazione di garanzia (come il duplice deposito degli atti previsto, in un breve arco di tempo, alla conclusione delle indagini preliminari nei processi in cui è contemplata l’udienza preliminare), una disciplina della notifica degli atti che favorisce il prodursi di nullità e relative eccezioni, l’assenza di norme che evitano la celebrazione di processi a carico degli imputati irreperibili, per citare alcuni degli aspetti che pregiudicano il decorso spedito del procedimento. Senza dimenticare un sistema delle impugnazioni che di fatto consente tre gradi di giudizio nel merito, senza distinguere in relazione al tipo di sanzione irrogata e senza filtri significativi sulle impugnazioni all’evidenza infondate.
Da altro punto di vista si deve ricordare che vi è stata nel corso degli anni, inoltre, la riduzione progressiva dello spazio di autonoma decisione del giudice in particolare in materia di misure cautelari e che si è pervenuti nel tempo ad una eccessiva estensione della competenza monocratica (del magistrato giudicante che decide da solo) a danno di quella collegiale, anche in questo caso in modo poco razionale perché vi sono reati con previsione di pena contenuta attribuiti alla competenza del giudice collegiale e reati puniti più gravemente attribuiti a quella del giudice monocratico. Una revisione che andasse nella direzione del ripristino della collegialità per i reati più gravi sarebbe auspicabile.
C’è infine da osservare come la disciplina processuale prescinda dal tipo di sanzione irrogabile, prevedendo sostanzialmente lo stesso percorso e tre gradi di giudizio tanto per l’ipotesi in cui la pena sia detentiva, quanto per l’ipotesi in cui la pena sia pecuniaria, mentre in questo secondo caso sarebbe ragionevole prevedere un iter semplificato e, allo stesso tempo, ridurre i gradi di impugnazione. È necessario e auspicabile, dunque, un intervento riformatore nel senso della semplificazione senza pregiudizio delle garanzie.
In terzo luogo, vi sono gli aspetti riguardanti l’organizzazione, il personale amministrativo, i beni strumentali. L’attività giudiziaria non è solo attività dei magistrati; essa infatti ha bisogno dell’apporto qualificato del personale amministrativo e di attenzione agli aspetti amministrativi, che precedono, accompagnano e seguono l’attività giurisdizionale in senso stretto. Valga per tutti l’esempio del funzionamento del casellario giudiziale, in cui si archiviano tutte le condanne definitive. Orbene, il ritardo, spesso di anni, nella iscrizione al casellario ha comportato che i soggetti condannati risultassero incensurati e potessero usufruire in caso di commissione di nuovi reati di benefici a cui non avrebbero avuto diritto. Invece di irrigidimenti normativi nel trattamento sanzionatorio sarebbe più utile curare la tempestiva iscrizione al casellario delle condanne definitive. Altro esempio: uno dei punti critici dell’attività processuale è costituito dalla notifica degli atti introduttivi del giudizio. Un consistente aiuto nella riduzione dei tempi del processo potrebbe essere fornito dal potenziamento del servizio degli ufficiali giudiziari oltre che dall’estensione del riscorso a mezzi tecnici quali la posta elettronica certificata. Sul piano dell’organizzazione e delle risorse, il punto critico è rappresentato dalla irrazionale distribuzione di magistrati e personale amministrativo sul territorio. Si tratta dell’annosa questione della revisione delle circoscrizioni giudiziarie.
L’attuale geografia giudiziaria, infatti, è caratterizzata da un numero elevato di uffici di piccole dimensioni e dall’esistenza di alcuni megauffici. Sarebbe opportuno ridisegnare tale geografia, riducendo il numero degli uffici e fornendo ad essi una dimensione media che consenta il buon utilizzo delle risorse umane e materiali disponibili. Non è possibile una diffusione degli uffici giudiziari di primo grado che assecondi i localismi. Né vale contrapporre l’esigenza che la giustizia sia vicina alla comunità civile nella sua dimensione più ridotta. A questo fine è stato introdotto ed esiste il giudice di pace, la cui circoscrizione è appunto caratterizzata dal riferimento alla comunità locale. Il tribunale ordinario, l’ufficio di primo grado, va invece definito in un ambito territoriale più vasto di quanto sia oggi la circoscrizione della gran parte degli uffici. In tempi di risorse finanziarie limitate, un intervento razionalizzatore di questo tipo è ancora più importante. In una fase di ristrettezze economiche non si possono semplicemente invocare e chiedere più personale e più strumenti materiali.
Tuttavia, vi sono interventi assolutamente necessari che si possono e si devono fare anche in tempi di scarsità di risorse. Innanzitutto, è urgente riqualificare il personale amministrativo e provvedere a nuove assunzioni, bloccate ormai da oltre dieci anni. Inoltre, va ultimata l’informatizzazione degli uffici assicurando gli investimenti necessari per lo sviluppo dei programmi e per l’assistenza sistemistica e applicativa. Priorità va data al completamento dell’informatizzazione del registro generale delle notizie di reato e all’introduzione generalizzata di programmi per la informatizzazione degli atti del procedimento, essenziale tra l’altro per rendere agevole e funzionale la formazione e il rilascio delle copie degli atti del procedimento, che assume estrema importanza nei vari passaggi degli atti tra gli uffici (proprio la mancanza tempestiva e completa della trasmissione degli atti al tribunale del riesame ha provocato in tempi recenti la scarcerazione di imputati per gravi reati con eco allarmata nell’opinione pubblica). Vanno poi sviluppati sistemi di trasmissione telematica degli atti.
Occorre, dunque, un progetto riformatore che investa gli aspetti fin qui sinteticamente accennati. Ma qualsiasi intervento riformatore deve conservare le caratteristiche positive del nostro sistema in relazione ai principi costituzionali in tema di giurisdizione e di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Non si può, infatti, pensare alla funzionalità ed efficienza del sistema giudiziario solo in termini di numero delle decisioni e del tempo in cui esse sono prese. Il sistema giudiziario nel suo complesso deve assicurare un alto grado di effettività nella tutela dei diritti e delle libertà delle persone e delle condizioni generali della convivenza tra le quali rileva la legalità.
Da questo punto di vista occorre mettere in guardia dal rischio di abbandono del principio di obbligatorietà dell’azione penale stabilito dall’articolo 112 della Costituzione. Se il problema è, come abbiamo visto, quello di un’eccessiva estensione della sanzione penale, il rimedio da perseguire è quello di ridurla. Se il diritto penale minimo può apparire un’utopia difficilmente realizzabile, si punti almeno a una riduzione dell’area del diritto penale abbandonando la tendenza a intervenire ripetutamente in materia per rispondere a esigenze contingenti e troppe volte per esigenze di propaganda politica e ricerca del consenso, come è stato con l’introduzione dell’ideologico e inutile reato di clandestinità. Se, poi, non si vuole consentire, giustamente, una eccessiva discrezionalità ai pubblici ministeri nella scelta dei reati da perseguire con priorità, si definiscano per legge i criteri, come si è fatto più volte in anni recenti in relazione ai procedimenti di vecchia data e dopo l’emanazione dell’ultimo indulto nel 2006. L’abbandono del principio di obbligatorietà, oltre a risolversi in una ferita al principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, aprirebbe il problema del soggetto a cui attribuire la scelta discrezionale se procedere o meno e rischierebbe in definitiva di privilegiare gli autori di reati di più difficile accertamento.
Discussa da anni è la questione della separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente, diventata un obiettivo politico irrinunciabile dell’azione delle Camere penali e più in generale dell’avvocatura, vista come l’epilogo inevitabile della riforma dell’articolo 111 della Costituzione e come la conditio sine qua non per realizzare finalmente il giusto processo. Non si vogliono qui riproporre le ragioni contrarie della magistratura associata; si intende piuttosto richiamare una preoccupazione di tipo politico-istituzionale sulla sorte del pubblico ministero una volta separato dall’ordine giudiziario. Difficilmente, a meno che non venisse scritto chiaramente nella Costituzione, una magistratura requirente separata da quella giudicante rimarrebbe autonoma e indipendente e molto presto si porrebbe il problema di un suo controllo, che verosimilmente diverrebbe appannaggio del potere politico.
Inoltre, non è secondario chiedersi quale pubblico ministero si voglia. Se quello di oggi, a cui spettano la direzione e il coordinamento delle indagini della polizia giudiziaria, funzioni che garantiscono la libertà e l’autonomia delle indagini della stessa polizia giudiziaria rispetto anche ai vertici amministrativi dei corpi di polizia. Ovvero un pubblico ministero puro traduttore processuale dell’attività della polizia, privo di propria iniziativa, se non semplice avvocato dell’accusa. Se l’intervento riformatore vuol garantire anche per il futuro, più e meglio di quanto sia oggi, una giustizia penale che tuteli diritti e libertà delle persone assieme alla legalità come condizione della convivenza civile, non si può prescindere da un pubblico ministero indipendente, culturalmente formato come un giudice e dotato di iniziativa.
L’Unità 18.02.10