Preceduto da un micidiale e prolungato fuoco di preparazione – da un protratta campagna mediatica che ha rappresentato come drammatica la condizione dell’Università italiana –, da qualche frettoloso intervento di riforma delle procedure concorsuali e di sfoltimento dell’offerta didattica, nonché da un drastico taglio dei trasferimenti agli atenei, destinato ad accentuarsi nei prossimi due anni, il Ministro Gelmini ha alfine depositato al Senato il promesso Ddl di riforma.
Preceduto da un micidiale e prolungato fuoco di preparazione – da un protratta campagna mediatica che ha rappresentato come drammatica la condizione dell’Università italiana –, da qualche frettoloso intervento di riforma delle procedure concorsuali e di sfoltimento dell’offerta didattica, nonché da un drastico taglio dei trasferimenti agli atenei, destinato ad accentuarsi nei prossimi due anni, il Ministro Gelmini ha alfine depositato al Senato il promesso Ddl di riforma dedicato a “Governance, reclutamento e stato giuridico dei docenti, diritto allo studio”.
Si tratta, va detto in partenza, di un documento dir poco criptico, ove si promettono alcune cose, poche, a leggerle così, condivisibili, altre rischiose, qualcuna già a prima vista terribile, molte confuse. Quel che perciò soprattutto conta è che il testo, come ogni testo che si rispetti, si fonda anche sul non testo, sul non scritto e sul semplicemente evocato, che in questo caso sembra essere la parte essenziale del testo, la quale, tutto lascia supporre, discende dalle prime mosse di tutta la partita.
Detto altrimenti: i punti più delicati, quelli che decideranno del destino del sistema universitario pubblico, si prevede di affidarli al governo, che potrà disporre a suo piacimento. Ciò non impedisce tuttavia di estrapolare dalle premesse e di concludere, provvisoriamente, che la riforma promette poco di buono. Limitiamoci a qualche punto, mettendo da canto ciò che si dice a proposito del diritto allo che è troppo poco e troppo vago anche solo per venire evocato.
In primis la governance, che è tema apertamente riconosciuto dal titolo stesso Ddl. Non manca qualche spunto interessante, anche perché la conduzione attuale è lenta e macchinosa. Le università sono fatte di repubbliche separate, che si ritrovano ufficialmente in Senato accademico e che lì negoziano. È ragionevole che ciascuna facoltà conduca una politica dell’insegnamento autonoma – incurante di sovrapposizioni – e una politica autonoma del personale, sottoutilizzando in un corso di laurea docenti che sarebbero preziosi in un altro? Che si istituisca un vero luogo di coordinamento e di governo è indispensabile.
Comunque, poiché le parole contano, una modesta nota terminologica. Cosa sia la governance lo sa molto poco anche chi su di essa s’interroga da anni. Ognuno la definisce a modo suo. Una delle cose più certe – pur non certissima – è che la governance coinvolge gli stake-holders, ossia gli interessati. Quella prefigurata nel Ddl, in realtà, li coinvolge ben poco. In pari tempo, se l’università ha bisogno di qualcosa è di governo e non di governance. Gli interessi ci sono fin troppo. Manca la sintesi, che è propria del governo. Approssimativo nel linguaggio, che sintesi suggerisce il Ddl?
La scelta fondamentale è d’imprimere una configurazione monocratica alla guida degli atenei. Non è però azzardato supporre che ciò corrisponda più allo spirito del tempo che a un qualche ragionamento consapevole dello stato delle università. Con gli stereotipi che corrono, immaginare che il Rettore possa essere condizionato da un qualche organo rappresentativo significherebbe smentire la filosofia che da vent’anni si prova a imprimere – e in parte già si è imposta – alle istituzioni democratiche del paese. Ma è, dopotutto, l’uomo solo al comando non è che un fatto simbolico. Il Rettore dovrà essere eletto e lo sarà, come sempre succede, in cambio di qualcosa. Avrà bisogno di collaboratori, poiché non si governa in solitudine, e da essi sarà condizionato. Forse non si sono sperimentati abbastanza i danni del leaderismo manageriale all’italiana – primo fra tutti il passaggio da un regime in cui almeno una parte delle negoziazioni si svolgeva pubblicamente a un regime in cui le negoziazioni sono state quasi del tutto clandestinizzate – perché si rinunci a infettare un altro pezzo del paese?
Per migliorare la cosiddetta governance il Ddl propone inoltre di ridurre a comitati ristretti Consiglio d’amministrazione e Senato accademico, di cui è prevista l’elezione con procedure incerte e con un tasso di democraticità molto basso. Sappiamo i numeri del primo (11 membri, compresi Rettore e due rappresentanti degli studenti) e del secondo. Sappiamo che il Rettore potrebbe – ma anche non potrebbe, dipenderà dagli Statuti – nominare i membri del primo, non è detto in che modo e con quali criteri selezionati. Sappiamo che i docenti eleggeranno i due terzi del Senato, ma non chi designerà il restante terzo (che non è poco), di cui non è precisato se debba essere di estrazione accademica o meno. In sostanza, si restringe e si complica, ma anche s’imbroglia: vanificando il condivisibile principio di un’università più aperta all’esterno. Ma non sarebbe più semplice dire che il Cda è composto non di generiche personalità della cultura, che non rappresentano se non se stessi, bensì di quote prefissate di rappresentanti, per esempio, delle amministrazioni locali e dei finanziatori privati, del Ministero, di insigni personalità della cultura scelte da qualcuno con procedura trasparente (vietati, si spera, i politici on the way out) e magari da una rappresentanza dei docenti un po’ più larga che non il singolo Rettore? Del pari, se è assai opportuno snellire il Cda, ridurre a 11 i suoi membri significa unicamente delegare di fatto una gran quantità di competenze al personale non docente. Il quale al momento è impreparato allo scopo. Non illudiamoci che basti ribattezzare direttore generale l’attuale direttore amministrativo per risolvere il problema
Suscita dubbi anche la preminenza accordata al Cda rispetto al Senato. Va bene porre un freno alle non poche bizzarie dei Senati, i quali sono tavolo di negoziazione tra i presidi di facoltà, con qualche figura di contorno. I presidi rappresentano la didattica, che dopo l’introduzione del 3+2 è cresciuta in maniera abnorme, e la didattica ha sopraffatto la ricerca. Nondimeno, sottoporre l’intera vita universitaria a chi controlla i cordoni della borsa (ma che, stando al Ddl, non necessariamente sarà ben esperto in fatto d’insegnamento e ricerca), riconoscendo al Senato un ruolo meramente consultivo, non è una gran trovata. Anche se difficilmente porteranno utili, vi sono attività (d’insegnamento e di ricerca) che un’università degna di questo nome dovrebbe comunque garantire. Se invece valesse solo il criterio della redditività, ci sono ampi settori disciplinari che verrebbero forzati a chiudere.
Coerentemente con quanto si è appena detto, appare a prima vista interessante lo spostamento dell’asse tra dipartimenti e facoltà previsto dal Ddl. In linea di principio, la didattica universitaria si distingue da ogni altro tipo di alta formazione perché fondata sulla ricerca. Supponiamo che in università le disponibilità finanziarie consentano di continuare a far ricerca (che peraltro il Ddl non nomina mai) e che il modello che il governo ha in mente non sia un grande diplomificio pubblico a basso costo in attesa che cresca il businnes dei diplomifici privati low cost. Che in tal caso siano le sedi della ricerca a orientare l’insegnamento e il reclutamento è un riconoscimento più che condivisibile. Resta tuttavia da vedere quali dipartimenti ci ammannirà il governo. Il Ddl è di nuovo nebuloso. Prevede che debbano raccogliere un numero minimo di studiosi. Ma il tetto massimo resta misterioso. Se si immagina di riorganizzare l’università in un numero ridottissimo di megastrutture, difficili da governare e giocoforza eterogenee, dove inevitabilmente si riproporrebbero i vizi imputati alle facoltà e dove unicamente ricerca e didattica seguitino si facciano più da vicino la forca, difficile è intendere quale possa essere il guadagno.
Non molto c’è da dire sul regime concorsuale previsto dal Ddl per reclutare i docenti. Uno vale l’altro. Dipende dalla moralità – quindi dalla cultura – di chi lo applica, che è specchio, anche se non esclusivo, della mondo circostante. L’università rispecchia il paese. Anzi, chi abbia una qualche familiarità col mondo della politica, l’università è un pochino meglio. Anche il più ferreo sistema di regole e di incentivi – valutazione compresa – può essere aggirato. In astratto, quello previsto dal Ddl non pare affatto male: l’idoneità nazionale può essere buona cosa, dopo gli eccessi del localismo: in buona parte dettati dall’autonomia di bilancio delle università. Il problema, stavolta, sono le idoneità aperte. O si stabiliscono ferree soglie per conseguirla, e si nomina una robusta autorità di vigilanza, o si mette un tetto alle idoneità conseguibili in un dato settore disciplinare. Il sospetto, estrapolabile dalle mosse precedenti del governo, è che si vogliano liberalizzare le idoneità e porre rigidi vincoli finanziari agli atenei, su cui si scaricheranno pressioni e frustrazioni degli aspiranti. I professori di ruolo verrebbero nominati localmente, in funzione delle risorse disponibili. Per il resto, si sopperirà al fabbisogno tramite il precariato, che non è né garanzia di efficienza, né tanto meno di moralità.
Già, la precarizzazione del personale, che di sicuro non manca. Stando al disegno di legge ci saranno gli ordinari (cui si concede qualche piccolo omaggio simbolico), gli associati, i ricercatori a tempo determinato, anzi a scadenza, i docenti a contratto: quelli provenienti dagli enti di ricerca e quelli reclutati a titolo individuale, a seguito di procedure concorsuali verosimilmente non diverse da quelle apparentemente in vigore (gli avvisi pubblici e le decisioni frettolose da Consigli di facoltà ipertrofici e sovraccarichi di competenze).
C’è poi il capitolo valutazione:. Sul principio è difficile non concordare. Più dubbia è l’applicazione, su cui nulla di attendibile si dice nel Ddl, salvo sanzioni per chi sia mal valutato. Forse, dopo i tanti esperimenti condotti in questi anni (tra cui quello pregevole del Civr), qualche dettaglio in più sarebbe stato auspicabile. Non si possono invece non condividere le sanzioni previste per i docenti. Che un docente che non fa ricerca e non insegna vada escluso dalle commissioni che selezionano gli altri docenti è il minimo. È ovvio anche penalizzarlo sul piano retributivo: non sarebbe anzi neanche male contemplare in casi estremi il licenziamento. Più discutibili sono i meccanismi premiali e punitivi nell’attribuzione delle risorse agli atenei. Le università sono un servizio pubblico. Se le loro disponibilità si riducono, si riduce la qualità del servizio. Chi ne paga le conseguenze sono gli studenti e il territorio su cui gravitano. A parte l’esigenza, già evocata, di non fare di tutt’erba un fascio – le Università sono composite – sarebbe semmai opportuno incidere sulle retribuzioni dei docenti e prevedere la possibilità di commissariare atenei e dipartimenti che non soddisfino gli standard minimi.
Buona è anche l’idea di ridimensionare la dispersione del sistema universitario (provocata, sia chiaro, da volgarissime convenienze politiche), incentivando sistemi regionali. Si sono creati troppi atenei, necessariamente o mal attrezzati di servizi, laboratori, biblioteche, o con servizi sottoutilizzati. Non si vede perché atenei contigui non possano adottare una qualche divisione del lavoro. I corsi senza studenti sono stati uno scandalo, frutto di una sgangherata autonomia concessa dalla politica (governo e parlamento) agli atenei, che l’hanno utilizzata in maniera non meno sgangherata. Lo scandalo è stato rimosso tramite i requisiti minimi e altri criteri. Ma sarebbe auspicabile anche una maggior flessibilità nell’impiego del personale. Vi sono facoltà che abbondano di docenti in un dato settore disciplinare, che però non possono essere agevolmente utilizzati da altre facoltà del medesimo ateneo che ne abbiano bisogno. Bene: se si rompessero le paratie tra facoltà, dipartimenti e pure tra atenei vicini non solo si risparmierebbe qualcosa e si utilizzerebbe più razionalmente il personale, ma agli studenti si offrirebbe forse una didattica di miglior qualità.
Non tutto dunque è da buttare nel Ddl. Le università pubbliche e i loro docenti non sono affatto entusiasti della presente situazione, checché ne dicano i loro nemici. Ne discutono da anni e, senza dubbio, patiscono della mancanza di adeguati stimoli a migliorare. Il governo ha dopotutto fatto quel che normalmente si fa in questi casi. Ha captato le idee che circolano nell’aria. Purtroppo ha selezionato tali idee alla luce dei propri pregiudizi e dei propri fini, che è difficile ritenere simpatetici verso l’Università pubblica.
Chi al momento ci guadagna? A prima vista, le gerarchie accademiche si indeboliscono in sede di reclutamento, ma già il Ddl suggerisce loro come riorganizzarsi. In conclusione pareggiano. Chi potrebbe guadagnarci sono i professionisti del governo accademico, ovvero gli universitari più propensi a professionalizzarsi nel ricoprire i compiti direttivi nei Cda e nei Senati accademici. La competizione per diventare Rettore diverrà più accanita e così anche quella per le cariche accademiche, che dovrebbero ridursi. Questo significa che qualcuno ci si dedicherà con molto più impegno e a comandare non saranno i docenti scientificamente più credibili.
Ci perdono, già adesso, i giovani. Ci perdono gli studenti, ai quali il Ddl fa vaghe promesse di sostegno, ma che prevedibilmente pagheranno il declino dell’università pubblica, malamente compensato da una possibile crescita delle università private, dove però quelle scadenti sono già più numerose di quelle, diciamo, di qualità. Gli studenti saranno anche penalizzati da una didattica impoverita dalla moltiplicazione dei docenti a contratto e dal declino della ricerca. E ci perderanno i giovani studiosi. I quali potrebbero salutare con favore procedure di reclutamento più universalistiche (e un pizzico meno localistiche), ma ai quali è soprattutto garantita una protratta anticamera nel precariato.
In attesa di altre mosse, un punto è comunque certo. Che il governo sta risparmiando qualche soldo, a spese dell’università e della ricerca, ma anche del paese: il declino è economico, è civile, è morale. Colpire la cultura e la ricerca può solo aggravare la situazione. Al contempo, il governo prosegue con una vecchia e pessima abitudine dell’ultimo decennio, aggiungendoci solo un’aggravante: che è il disprezzo. Una volta di più – ma stavolta con più rozzezza – la politica evita un confronto pubblico con il mondo dell’università. Salvo interagire con questa o quella lobby, con questo o quel docente amico, con la Crui, ecc. È un gran peccato. Riformare l’università contro l’università, anzi volendo punirla, è la più sicura garanzia di fallimento. C’è qualche motivo di ritenere (un commercialistica ci ha messo lo zampino?) che il fallimento sia deliberatamente programmato.
da www.nelmerito.com
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