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"Riordino della scuola superiore", di Giovanni Sedioli*

C’era un grande bisogno di riforma della scuola superiore, ma non di “questa” riforma. Le riforme servono a collegare gli ordinamenti, il governo dei processi, i risultati attesi, le metodologie e strumentazioni didattiche, le stesse politiche del personale con le nuove attese sociali, con le trasformazioni culturali in essere, con i cambiamenti avvenuti nel rapporto tra soggetti istituzionali e non, con i pesi assunti dai vari interlocutori nella definizione dei percorsi di vita dei cittadini, non solo dei bambini e degli adolescenti. Insomma, le riforme devono dare corpo ad una “idea di scuola” in cui i cittadini sappiano identificare il loro ruolo ed il loro interesse ed in cui le istituzioni e gli altri soggetti coinvolti trovino la motivazione per investire risorse e idee.
Forse è ingeneroso dire “nulla di tutto questo” si trova nel riordino del Governo (positiva, ad esempio, la riduzione degli indirizzi e l’impostazione dei curricula per competenze-abilità-conoscenze), ma il “motore primo” di questa riforma non pulsa in sintonia con quanto prima detto. Senza negare che, almeno per alcuni aspetti, l’avvio era stato promettente, riferendoci all’intenso lavoro preparatorio svolto per gli istituti tecnici e professionali, ora fortemente impoverito dalle scelte effettuate, tanto da rendere contraddittori i dispositivi previsti rispetto ai principi affermati.
La lettura di “taglio” economico-finanziario come logica primaria è sicuramente riscontrabile. Non vogliamo alludere semplicemente alla riduzione di orario, su cui si potrebbe discutere in una logica che veda la scuola come protagonista “educativo” anche al di fuori dell’orario rigorosamente programmato, ma al fatto che questa si associa alla drastica riduzione delle risorse, finanziarie e umane, indispensabili per iniziative autonome delle scuole: l’associazione di questi due dati porta inevitabilmente ad un “taglio funzionale” a causa del quale l’attività formativa viene compressa e qualitativamente compromessa. Clamorosa, in questo senso, la riduzione delle compresenze dei docenti negli istituti tecnici, pur a fronte della affermazione che la didattica laboratoriale è alla base di quegli istituti. Siamo quindi in piena continuità con scelte già compiute dall’attuale Governo: riduzione lineare di docenti e non docenti, tagli di fondi, perfino per le pulizie. Con buona pace della qualità della scuola.

Ma gravi sono le pecche anche di carattere generale: manca un impianto culturale unitario dei tre segmenti soggetti a riforma. Un tentativo di lettura identitaria dei Tecnici (il lavoro, le tecnologie, i linguaggi) e dei Professionali (il lavoro, la prestazione) è presente ma non compiuta, quindi prevalentemente dichiarata, proprio per i tagli intervenuti; per i Licei, appare invece del tutto assente un principio identitario. E anche la struttura dei tre segmenti è incoerente con alcuni elementi già definiti dalla normativa previgente per quel che riguarda il biennio iniziale. Le norme sull’innalzamento dell’obbligo di istruzione prevedono, infatti, che al termine dei primi due anni delle superiori (o dei primi due anni nel sistema di istruzione e formazione professionale) tutti gli studenti debbano acquisire alcune competenze “irrinunciabili”, individuate su quattro assi culturali. La struttura ora proposta, pur migliorativa rispetto alla prima versione dei regolamenti, non appare avere risolto compiutamente il problema, perché conferma un contesto formativo in cui i passaggi da un sistema ad un altro saranno ostici.
Il rischio evidente è che venga confermata, al di là delle affermazioni di valorizzazione della cultura tecnica e del lavoro, la attuale stratificazione sociale delle frequenze nei vari ordini di scuola, facendo venir meno un possibile importante elemento di innovazione. Se si tiene conto, inoltre, della annunciata volontà di abbassare la pratica dell’apprendistato al 15° anno di età, ricomprendendola in più fra le modalità per assolvere l’obbligo di istruzione, si concretizza qualcosa di più di un sospetto su una volontà di negare la funzione generalista della educazione dei giovani, rimandando le fasce più deboli ad esperienze che, nella situazione attuale, sarebbero inevitabilmente riduttive sul piano della costruzione culturale e della personalità. A livello dell’obbligo di istruzione, bisogna lavorare di più sul tema della realizzazione di un qualificato sistema IFP, piuttosto che pensare ad improbabili scorciatoie che realizzerebbero di fatto, nella situazione attuale, nuovi canali di esclusione sociale.

La indisponibilità del testo definitivo dei regolamenti impedisce altre importanti valutazioni, ma sicuramente saranno da interpretare alcune questioni relative ai Professionali; non vi è stata, infatti, da parte del Ministero la volontà di chiarire il rapporto fra competenze di Stato e Regioni sul tema delle qualifiche professionali né il senso da dare alla sussidiarietà, richiamata dalla versione precedente del regolamento, attraverso la quale gli IPS potrebbero svolgere un ruolo complementare rispetto alla IFP, al fine del rilascio delle qualifiche e dei diplomi professionali. Si avvia la riforma con incertezze sui percorsi che rischiano di danneggiare la funzionalità degli Istituti e le prospettive di chi le frequenta.

Più in generale, si può evidenziare una persistente sottovalutazione del ruolo delle Regioni da parte del Ministero. In particolare, il ritardo nella definizione delle norme compromette di fatto i poteri delle Regioni in ambito di programmazione dell’offerta e della rete formativa; in Emilia-Romagna, sono stati predisposti criteri e strumenti condivisi per ridurre al minimo gli effetti legati a questo dato, confermando atteggiamenti di responsabilità che evitino danni all’utenza ed alle scuole, ma si deve segnalare un atteggiamento che mette in difficoltà la volontà della Regione di potenziare, non compromettere, la qualità della scuola.

Non da ultimo vi è il tema dei tempi di applicazione del riordino: va sottolineato che, ad oggi, la nuova norma non è ancora compiutamente visibile e che mancano comunque atti di legittimazione. Anche volendo procedere “come se” fosse tutto chiaro, tenuto conto che le iscrizioni devono essere effettuate entro il 26 marzo, siamo di fronte ad un tempo troppo ristretto perché le scuole possano svolgere al meglio le funzioni di orientamento e le famiglie possano compiere scelte meditate. E’ un problema che il Ministero ha trascurato, così come non sono avviate le necessarie fasi di aggiornamento per i docenti. Una fretta che danneggerà la qualità del sistema e che dà corpo alla logica della priorità data ai tagli.

Infine, una nota sul tema della autonomia: l’innalzamento delle quote di autonomia è certamente un passo avanti, ma va fatta chiarezza sul rapporto fra queste quote e la disponibilità degli “organici”. Certo è che va ribadito che l’autonomia richiede una forte sponda collaborativa da parte dei territori, che la RER è impegnata ad estendere e rafforzare, ma richiede anche la certezza di risorse proprie delle scuole.

*Assessore alla Scuola, Formazione, Università e Lavoro Regione Emilia Romagna

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