Parità tra uomo e donna? In Italia nessun progresso, anzi una retrocessione. Di due posti. Secondo l’Indice sulla Parità di genere (GEI nell‘acronimo inglese) calcolato dal Social Watch, un network che conta organizzazioni in oltre 60 nazioni, considerando 100 come punta massima nell’uguaglianza uomo-donna, su una classifica di 157 Paesi il nostro scende dal 70° al 72° posto rispetto al 2008. Molto dopo il Ruanda (84). E seguito da Grecia, Slovenia, Cipro e Repubblica Dominicana (66).
E’ la denuncia di “People First” , il rapporto reso noto oggi dal Social Watch. Che nella sua indagine nella disparità o (raramente) parità tra uomo e donna spalmate a Nord e a Sud del mondo evidenza come ancora una volta, senza sorprese, il primato nella quasi assenza di differenze spetti alla Svezia (88 punti). Seguono Finlandia e appunto Ruanda – entrambi con 84 punti nonostante l’enorme differenza in termini di ricchezza tra i due paesi. Il che dimostra, secondo il rapporto – come un alto livello di reddito non è necessariamente sinonimo di maggiore uguaglianza e che anche i paesi poveri possono raggiungere livelli di parità molto elevati, sebbene uomini e donne vivano in condizioni non facili.
“L’indice della parità di genere rivela se una società sta evolvendo verso una maggiore equità di genere o rimane ferma. La mancata riduzione del divario nei diritti tra uomo e donna conferma la miopia dei governi. La distinzione tra paesi del cosiddetto Sud del mondo e quelli del Nord sviluppato è sempre più sfumata”, dice Jason Nardi, portavoce del Social Watch Italia.
Eppure la promozione della parità tra i sessi dovrebbe essere uno degli obiettivi di Sviluppo del Millennio. Dai dati del rapporto emerge invece come quell’obiettivo si stia allontanando. E come la distanza tra i paesi più virtuosi e quelli in cui la discriminazione è maggiore stia crescendo. Mentre nei paesi dove la parità uomo-donna è maggiore si registra una tendenza verso il miglioramento, negli Stati con livelli di discriminazione più elevati la tendenza va nel senso opposto. É il caso dell’America Latina e dei Caraibi, da una parte, e dell’Asia Orientale e del Pacifico, dall’altra.
L’istruzione, la partecipazione all’attività economica e l’empowerment (concessione di pieni poteri alle donne)., sono stati gli indicatori per l’indagine del Social Watch. Dall’analisi emerge che i progressi registrati nella sfera dell’istruzione sono di gran lunga maggiori rispetto a quelli registrati nelle altre dimensioni della parità uomo-donna. Nell’accesso agli spazi decisionali e nell’esercizio del potere, per esempio, la disuguaglianza tra uomini e donne è più evidente: non c’è un solo paese dove le donne abbiano le stesse opportunità degli uomini di partecipare ai processi economici o socio-decisionali. I progressi nella partecipazione all’attività economica registrati nel 2008, infine, sono stati completamente azzerati nel 2009. In particolare nella regione dell’Africa subsahariana.
Ad aggravare la situazione ci si è messo poi lo tsunami economico che si è abbattuto negli ultimi 18 mesi. “Studiando l’impatto sociale della crisi a livello internazionale, emerge che a pagarne le conseguenze più dure sono i paesi più poveri e le persone più vulnerabili, molte delle quali sono nuovi poveri”, continua Nardi. Le donne, come spesso accade, sono le più esposte alla recessione globale perché hanno minore controllo della proprietà e delle risorse, sono più numerose nei lavori precari o a cottimo, percepiscono minori salari e godono di livelli di tutela sociale più bassi. L’ONU riferisce che il tasso globale di disoccupazione femminile potrebbe arrivare al 7,4%, contro il 7,0% di quella maschile.
Tramite l’Indice della Capacità di Base (BCI) il rapporto analizza anche lo stato di salute e il livello dell’istruzione elementare di ciascun paese. I risultati sono preoccupanti: al 2009, quasi la metà dei paesi analizzati (42,1%) ha un valore dell’Indice BCI basso, molto basso o critico. La maggioranza della popolazione mondiale vive in paesi in cui i principali indicatori sociali sono immobili o progrediscono troppo lentamente per raggiungere un livello di vita accettabile nel prossimo decennio.
Al ritmo di sviluppo attuale, solo Europa e Nord America potrebbero raggiungere entro il 2015 valori accettabili dell’indice. Ciò significa che, in mancanza di cambiamenti sostanziali, per tale data gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio concordati a livello internazionale non verranno raggiunti.
Lo scenario desta ancor più preoccupazione se si considera che solo Danimarca, Norvegia, Svezia, Olanda e Lussemburgo hanno rispettato gli obiettivi delle Nazioni Unite, destinando almeno lo 0,7% del Pil all’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (Aps). Nonostante le ripetute promesse del nostro governo, si prevede che l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo in Italia subirà un drammatico taglio, scendendo dallo 0,2% del PIL a meno dello 0,17%. Al pari della Grecia e di poco al di sopra della Repubblica Ceca, l’Italia si ritrova così agli ultimi posti tra i paesi industrializzati.
L’Unità 09.02.10