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«Aspettando la riforma della scuola secondaria superiore», di Fabrizio Dacrema

Purtroppo i regolamenti approvati dall’ultimo Consiglio dei Ministri non solo non hanno nulla di epocale, ma non possono neppure essere definiti una riforma della scuola secondaria superiore. Una nuova forma del secondo ciclo di istruzione è invece una necessità prioritaria per un paese che non può più permettersi di essere fanalino di coda in Europa per dispersione scolastica e per esiti di apprendimento (positivi solo nei licei e nel centro nord, mai nei professionali). Un riforma capace di affrontare queste criticità deve avere il coraggio e la volontà politica di fare scelte innovative e radicali che cambino strutturalmente l’assetto della scuola secondaria:
– realizzare un biennio obbligatorio, unitario e orientativo, con l’obiettivo di far pervenire tutti i sedicenni ad una solida cultura di base (competenze chiave di cittadinanza);
– innalzare a 16 anni la scelta tra scuola e formazione professionale o apprendistato e tra i diversi indirizzi scolastici liceali o tecnico-professionali, confermando o meno la prima scelta effettuata all’ingresso della secondaria superiore a favore del settore del sapere meglio padroneggiato;
– costruire un curricolo continuo e progressivo 3-16 per il primo ciclo e per l’area comune del biennio obbligatorio del secondo ciclo;
– realizzare percorsi di istruzione post-obbligo di effettiva pari dignità, a partire dalla valorizzazione della cultura scientifico tecnologica e dal rilancio dei percorsi tecnico-professionali, eliminando gerarchie tra i percorsi e canalizzazioni precoci e non comunicanti;
– investire sui docenti (formazione iniziale e in servizio, carriera professionale) e sull’autonomia scolastica per rinnovare i processi di insegnamento/apprendimento basandoli sulle competenze e per rafforzare i legami con la programmazione dello sviluppo territoriale.

La scuola riordinata dalla Gelmini, al netto della riduzione degli indirizzi e degli orari, non è una riforma perché non modifica l’assetto strutturale della scuola secondaria superiore, rimane la canalizzazione precoce e la gerarchia dei percorsi: i licei destinati alla formazione della classe dirigente, gli istituti tecnici per i quadri intermedi e i professionali per i lavori esecutivi qualificati. Il biennio obbligatorio non è unitario, tra i diversi indirizzi dei licei e tra i licei e gli istituti tecnici e professionali non è individuata, accanto all’area vocazionale, un’area comune di saperi da far acquisire a tutti. I bienni sono tra loro profondamente diversi e, di conseguenza, sono impossibili i passaggi, le scelte diventano di fatto irreversibili, rimane lettera morta anche il riconoscimento dei crediti formativi acquisiti nei percorsi extrascolastici. Sono quindi assenti gli strumenti diffusamente considerati decisivi per contrastare l’insuccesso scolastico. Inoltre si conferma la discontinuità curricolare tra primo ciclo e biennio obbligatorio della secondaria superiore, rinunciando alla costruzione di un curricolo decennale obbligatorio, continuo e progressivo, da realizzare con tempi distesi e con metodologie didattiche non trasmissive in modo da favorire il successo scolastico di tutti. A latere poi il governo predispone due canali di fuoriuscita dall’obbligo di istruzione – formazione professionale e apprendistato – e destruttura la scuola di base con i tagli e l’introduzione forzata del maestro unico/prevalente. In questo modo la scuola rinuncia ad utilizzare lo strumento dell’obbligo di istruzione per contrastare gli effetti negativi dei condizionamenti socio-culturali di partenza e l’Italia continuerà ad essere uno dei pesi europei con meno mobilità sociale.

In questo quadro regressivo e sotto l’egida dei tagli di Tremonti, anche l’azione di riorganizzazione – semplificazione degli indirizzi ed essenzializzazione dei curricoli – finisce per determinare solo una scuola più povera nell’offerta formativa e più rigida nell’organizzazione didattica, dove sono ridotti i tempi anche dei tanto sbandierati laboratori. I risparmi derivanti dalla riduzione degli indirizzi e degli orari non vengono reinvestiti per attivare, ad esempio, gli organici funzionali, risorsa essenziale per mettere le scuole in condizione di esercitare credibilmente le prerogative dell’autonomia scolastica. I regolamenti aprono ampi spazi all’autonomia curricolare, ma senza adeguate risorse rischiano di aumentare ulteriormente le già enormi differenze negli esiti finali già esistenti tra scuole e territori.

I provvedimenti della Gelmini mettono innegabilmente ordine alla secondaria superiore dopo decenni di innovazione senza riforme, ora si tratta di evitare che la presunta “riforma epocale” impedisca ogni processo innovativo ad una scuola che non è stata cambiata in ciò che è più necessario, la sua relazione strutturale con la società. Il paese dal 1962, dopo la riforma della scuola media, continua ad aspettare una riforma della secondaria superiore coerente con il dettato costituzionale e quindi orientata a portare tutti ai più alti livelli di istruzione e formazione. In particolare oggi, per uscire dalla crisi economica più grave e profonda del dopoguerra, il paese ha bisogno di una secondo ciclo dell’istruzione che punti a formare il maggior numero di profili professionali caratterizzati da solide competenze di base e trasversali unite ad alti livelli di specializzazione.

Non ci sono alternative per far crescere la produttività e l’innovazione del nostro sistema economico e la capacità dei lavoratori di fronteggiare i sempre più rapidi e continui mutamenti del mercato del lavoro. Da questo punto di vista la “riforma Gelmini” è davvero epocale, perché sembra voler riportare la scuola in un’altra epoca, in cui la società aveva bisogno di tanti giovani orientati a imparare precocemente un mestiere – appreso possibilmente mentre lavorano come apprendisti – fatto di competenze rigide e delimitate. Un’epoca in cui la classe dirigente si formava attraverso percorsi disinteressati ed estranei al lavoro contrapposti a percorsi vocazionali connessi e finalizzati al lavoro, in cui l’istruzione tecnico- professionale era frammentata in tanti profili specializzati al posto di formare professionalità solide, ampie, aperte alla formazione tecnico superiore e alla formazione continua. Anche le scelte dell’ultima ora di attuare la riduzione oraria nelle classi dei tecnici successive alle prime e di salvaguardare da questa iattura solo i licei, conferma l’uso dell’immaginario gentiliano per rispettare il tempi dei risparmi di spesa dettati dalla Legge 133. Nonostante il coro favorevole di tanti pseudo-modernizzatori, il riordino del giovane Ministro, anche per far quadrare i conti imposti da Tremonti, torna al passato e il paese perde di nuovo l’opportunità di una riforma che porti la scuola italiana nell’epoca attuale, quella dell’economia e della società della conoscenza.

Ancora una volta il Ministro ha tirato dritto, ha ignorato le richieste di ragionevole rinvio provenienti dalla scuola reale e gli appelli dell’opposizione al confronto, si è limitato ad alcuni aggiustamenti del testo, senza accogliere, se non in minima parte, le osservazioni e le condizioni poste nei pareri di Camera, Senato, Consiglio di Stato e Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. La struttura e la sostanza dei provvedimenti non è cambiata. Se la riforma della secondaria superiore non deve diventare l’inutilmente atteso Godot di Beckett, occorre tenere aperti gli spazi di innovazione possibili dove le scuole autonome si alleano con le forze sociali e le istituzioni locali. Bisogna sconfiggere il modello di mutamento scolastico guidato dalla logica prioritaria della riduzione delle risorse e costruire dove e per quanto possibile cambiamenti della scuola utili al paese. Innanzi tutto il mondo della scuola deve battere un colpo: lo sciopero generale del 12 marzo è la prima consistente occasione.

da ScuolaOggi

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